Passione Gourmet G.D. Vajra i Baroli 2018 - Passione Gourmet

G.D. Vajra i Baroli 2018

Vino
Recensito da Gianluca Montinaro

La passione della famiglia Vaira in orizzontale

L’annata 2018, a Barolo, è stata definita da molti «di stampo tradizionale»: l’andamento climatico – con frequenti precipitazioni sino a fine maggio, e temperature più fresche rispetto al 2017 – ha permesso lo sviluppo e la maturazione omogenea di bei grappoli, con buone gradazioni zuccherine e ottimi livelli di acidità. Chi ha ben vinificato, interpretando l’annata in chiave elegante più che muscolare, non ha fatto fatica a ottenere vini marcati da bellissimi spettri aromatici, da giusta freschezza, da tannini vellutati e già integrati, e da sinuosa morbidezza. Vini – quindi – “pronti”, capaci di esprimersi già nella loro giovinezza con una completezza e complessità soddisfacente.

L’ennesima conferma in tal senso è arrivata nel corso di una degustazione della batteria dei Barolo 2018 della cantina G.D. Vajra, una delle realtà più solide della denominazione. Guidata da Aldo e Milena Vaira, ora affiancati dai figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, quest’azienda continua a rimanere un esempio di come l’accoppiata “tradizione-innovazione” possa essere declinata al di fuori di schemi precostituiti, di gesti predeterminati, di usi prestabiliti. Al contrario, per i Vaira, l’intuizione sfuma nell’azzardo. E l’acume nella scommessa.

Qui è sempre stato così: sin da quando, appena rientrato dagli studi a Torino, il giovanissimo Aldo compie la sua prima scelta ‘controcorrente’: riprendere in mano il vigneto di famiglia, le cui uve sino ad allora venivano vendute ad altri, e vinificare in proprio. Una scelta dalla quale subito ne scaturiscono altre: con incredibile lungimiranza, nel 1971, Aldo aderisce al movimento Suolo e Salute, diventando uno dei pionieri dell’agricoltura biologica in Piemonte. Seguono poi – solo per dirne alcune – la selezione massale per il Dolcetto Coste&Fossati (1979), la Freisa coltivata nel celeberrimo Bricco delle Viole (1980), il primo impianto di Riesling renano in Langa (1985).

Scelte che, come ama ricordare Milena Vaira, trovano un proprio fine e un proprio significato nel trinomio «territorio, annata, persona», ovvero i tre “attori” protagonisti che “costruiscono” il vino, plasmandolo intimamente, in una sorta di comunione espressiva.

Ecco, proprio l’espressività è uno dei cardini della “filosofia Vajra”: non ci sono infingimenti in bottiglia, ma solo (“solo” che è da intendersi in senso diametralmente opposto a quello di diminutio) il vino per ciò che è il suo terroir, per ciò che il tempo meteorologico gli ha concesso, per ciò che gli individui gli hanno donato. Gioia e dolore, felicità e scoramento, passione e tormento: perché il vino è un affare “umano, troppo umano” – per dirla con Nietzsche – e proprio per questo continua ad avere quella profonda aurea di fascino e di mistero che lo avvicina terribilmente alla sfera divina. Un caleidoscopio di colori cangianti, di espressioni complesse, di sentimenti avviluppati: insomma, «il dolce soffrire che fa muovere il mondo» (Olindo Guerrini), ecco cosa si cela dietro quel tappo di sughero! Ed è ancora Milena che, mostrando le istoriate vetrate che illuminano la cantina, opera di padre Costantino Ruggeri (sì, proprio lui, il grande innovatore dell’arte e dell’architettura religiosa del Novecento), confida come quei rembrandtiani squarci di luce policroma siano «vita» e «grazia». E rappresentino plasticamente il rapporto simbiotico che lega, con «scienza e coscienza», l’uomo e la natura.

I Baroli 2018

La degustazione, dopo un assaggio dell’epitomatico Langhe Nebbiolo (bottiglia segnata da una fresca croccantezza di frutto e fiore e da un sorso coinvolgente ed elegante), si è aperta con il Barolo Albe, etichetta nata dall’assemblaggio delle uve di tre vigneti diversi (Coste di Vergne, Fossati, La Volta, tutti nel comune di Barolo) per altitudine ed esposizione. Di un brillante colore rubino tendente al granato, Albe si svela, tanto al naso quanto in bocca, un Barolo d’impostazione classica: piccoli frutti rossi, fiori, lievi toni balsamici aprono a una verticalità improntata a note di terra e di sottobosco. Il palato rimane conquistato più dalle durezze che dalle morbidezze: il tannino appare integrato, la mineralità cesellata con attenzione, l’acidità ben salvaguardata. Una buona persistenza e un’ottima armonia completano il quadro, all’insegna di una eleganza improntata a freschezza e godibilità. (90/100)

Assai differente, invece, il cru Ravera (vigna posta nel comune di Novello, a oltre 300 metri d’altezza) che propone una espressività assai diretta, spiazzante, e quasi selvaggia. Il colore – un rubino più concentrato al centro del bicchiere, e un’unghia assai più scarica – è preludio a un prospetto olfattivo di bella ampiezza ove trovano spazio, oltre agli immancabili frutti rossi (evidente il lampone) e a note floreali, un variegato mondo di espressioni balsamiche e minerali che spaziano dalle erbe aromatiche (timo limone su tutte) a sensazione di terra rossa. Anche al sorso il Ravera mostra il suo carattere ancora “selvaggio” (che, è lecito supporre, col tempo sarà ricondotto a una dimensione di armonia complessiva). La nerboruta mineralità, dal tratto sin ferroso, dialoga serratamente con la morbidezza di alcoli e polialcoli, mentre il tannino, seppur finissimo, appare a tratti ancora in fase di levigazione. La persistenza è lunga, l’armonia già buona, ma certo migliorerà ulteriormente negli anni a venire. Un vino che – secondo chi scrive – ha tutte le carte per attraversare il tempo e regalare future emozioni. (88/100)

Sofisticato, femminile, suadente è invece il Costa di Rose (vigneto posto a Barolo, al confine con Monforte). La vigna, piantata su un suolo dominato da arenaria bianca originatasi nel tortoniano (fra i sette e gli undici milioni di anni fa), dona un vino di un’eleganza estrema. Al naso colpiscono subito sia i chiari aromi floreali (fra cui i petali di rosa) sia quelli fruttati (più ciliegia che frutti di bosco) che si distendono su un sottile sostrato erbaceo e balsamico e su una magnifica mineralità di polvere di pietra marina. Tutte queste percezioni si ritrovano in bocca, con estrema coerenza, pulizia e ordine. Le morbidezze (ben modulate e bilanciate dall’acidità) dialogano ampiamente con tannini quanto mai vellutati e con un minerale quasi salato. Il vino appare di corpo assai elegante, di grande armonia, di ottima persistenza e intensità. (92/100)

Vessillo della produzione Vajra continua a essere il Bricco delle Viole, etichetta proveniente dall’omonimo cru, sito a Barolo. La vigna – la più alta del comune (400-480 metri) e la più vicina alle Alpi – gode di una condizione microclimatica eccezionale: l’esposizione Sud (che permette un perfetto irraggiamento lungo tutta la giornata), l’escursione termica, l’età media delle viti (fra i sessanta e i settanta anni) e il terreno ove predominano arenaria e ciottoli donano un vino di profonda espressività, di fine eleganza e di notevole complessità. Si rimane subito ammaliati dal colore – un bellissimo granato – dall’ampio e fragrante ventaglio olfattivo, predominato da fiori (viola e rosa), da piccoli frutti e bacche (di bosco e d’albero), da toni balsamici e da una fresca verticalità che rimanda alla grafite e alla pietra. Al sorso, davvero voluttuoso, il Bricco delle Viole dipana con sontuosità la sua freschezza e la sua mineralità, accompagnate da adeguate sensazioni caloriche. La struttura è importante, ma non pesante: il tannino appare finissimo, e l’architettura polialcolica pare essere un arazzo che lega fra loro i molteplici elementi del vino, accompagnando e sostenendo il fine sorso con lunghezza, precisione, armonia e intensità. (92/100)

In coda si è lasciato l’assaggio del Barolo Baudana (siamo a Serralunga), prodotto dalla omonima cantina, acquisita dalla famiglia Vajra nel 2009, quando i precedenti proprietari – Luigi e Fiorina Baudana – hanno individuato in Aldo e Milena coloro che con amore e rispetto avrebbero potuto continuare a coltivare quei 2,6 ettari da sempre proprietà dei Baudana. L’impronta del vino è assai differente: qui infatti predomina il più antico elveziano, con strati di marne e calcare alternati ad argilla. La potenza delle percezioni trova comunque espressione in un’eleganza dal tratto raffinato, e sin quasi rarefatto: al naso, per esempio, la piccola frutta rossa e nera cede il passo alla prugna, alla marasca e al nobile Durone di Vignola. I toni erbacei virano sull’eucalipto. Mentre la mineralità si esprime in una grafite carboncino. In bocca si avverte tutta l’imponenza della struttura e l’importanza dei tannini: la freschezza della gioventù è già comunque ben bilanciata dall’estratto e dai polialcoli. Facendolo roteare in bocca il vino si apre, concedendo uno spiraglio d’abisso: se ne intravede quello che potrà essere lo sviluppo. Ecco allora che, al posto dell’austerità iniziale, appaiono volute d’eleganza, la forza assume tratti femminili, e l’intensità si accompagna all’eccellenza. Per una bottiglia grande ora. E che certo molto di più lo sarà in avvenire. (91/100)

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