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Estro Vino e Cucina

Estro, concretezza e appagamento

Gratificante. È questa la parola ricorrente da Estro Vino e Cucina, che oltre a una sana dose di misurato, puntuale estro, appunto, propone nei piatti una cucina concreta, esaudendo tutto quello che promette sia nel sito internet del ristorante sia sfogliandone il menù cartaceo una volta seduti al tavolo.

Concretezza e verosimiglianza, insomma, nonché una certa propensione all’appagamento, sia in termini di gusto che di porzioni, considerato che proprio l’appagamento ha rappresentato l’insidia più importante della nostra esperienza. Vero infatti è che dopo il Baccalà mantecato alla veneziana con polenta fritta e radicchio stufato non ci è stato possibile ordinare alcun dolce tanta e tale era l’importanza del piatto non solo al palato, dove solo il radicchio concorreva, solingo, a contrastare la montata delle note lattiche, lipidiche e fritte della combinazione, ma anche le proporzioni, decisamente più da piatto unico che da secondo piatto. Premessa, dunque, quella che è stata l’unica vera pecca della nostra esperienza, passiamo ora a raccontarvi la natura di questo solido indirizzo concepito per il diletto del veneziano prima ancora che del foresto.

La cucina del mercato veneziano

Sono, del resto, passati dieci anni da quando i fratelli muranesi Dario e Alberto Spezzamonte decisero di fondere le rispettive esperienze in sala/cantina e cucina per dare vita a un ristorante che di Venezia rappresentare proprio l’hic et nunc: il qui e l’ora che movimentano il menù con una cucina di mercato, quello di Rialto, mentre le verdure arrivano da Sant’Erasmo e la carne, quella dei Fratelli Damini di Arzignano, segnano le tre direttrici, quelle della materia, attorno a cui si articola, si muove e cambia il menù.

A questo proposito, molto soddisfacente il morso, callosissimo, delle solari e profumate Tagliatelle AOP con scampi e crumble di pane mantecato al brodetto di pesce dell’Adriatico, così come, benché in un contesto gustativo di cacciagione, quello dei Bigoli al farro al ragù d’anatra e cervo. Virginali nella loro innocente freschezza, e croccantezza, le canocchie scottate, così come gli accompagnamenti ai crudi, edotti e sempre tesi a enfatizzare il sapore primario.

La cantina, abitata da oltre 700 referenze molte delle quali dal catalogo Meteri che a Venezia è il custode della proposta naturale, contribuisce a rendere l’esperienza ancora più vivida e movimentata, soprattutto tenendo conto che i ricarichi, adeguati, consentono di spaziare a dovere.

IL PIATTO MIGLIORE: Tagliatella con Scampi con crumble di pane, mantecato al brodetto di pesce.

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Un delicato passaggio di testimone

In attività dal 2015 nel Sestiere Castello a pochi passi da piazza San Marco verso dell’Arsenale, il ristorante Local, nel 2021, una volta superato quello che la città di Venezia ha vissuto come il periodo più duro nella propria storia recente, si è trovato a dover affrontare un passaggio di testimone nella conduzione gastronomica. In uscita Matteo Tagliapietra, originario di Burano e autore di una delle più riuscite interpretazioni della cucina veneziana contemporanea, che lo ha portato alla meritata conquista della stella Michelin. Alle prese con un’eredità così ingombrante, c’è oggi uno Chef campano con importanti esperienze internazionali: Salvatore Sodano.

Venezia-Napoli, con un pizzico di Oriente

La cucina di Sodano si sviluppa sull’asse Venezia-Napoli, ma con netta prevalenza della città che lo ospita rispetto a quella che gli ha dato i natali, nel rispetto del nome e della mission del ristorante. Con l’incedere dei piatti emergono anche contaminazioni orientali, la passione dello Chef per la botanica e l’applicazione di tecniche originali che sottendono studi approfonditi. Lo dimostra un piatto vegetale intenso, profondo nei sapori e perfettamente equilibrato: l’Indivia condita con kimchi di indivia, Worcester sauce e crema di tofu. Il robusto utilizzo dell’aglio tende invece a farlo prevalere sugli altri sentori nei due primi piatti proposti, limitandone la complessità aromatica. Il primo, Spaghetti, vongole, ricci di mare e salicornia fermentata (nello specifico “latto-fermentazione” di cui sono responsabili esclusivamente batteri lattici) mantiene caratteristiche di immediatezza e godibilità anche al palato. Il secondo, il “Risone di gò”, è una rivisitazione del tradizionale risotto di gò (o ghiozzo, pesce simbolo della laguna di Venezia), che vede il riso sostituito da una pasta con forma e consistenza simili, il risone appunto, cotto in brodo di gò e accompagnato da una salsa simile alla maionese ottenuta dall’estrazione in olio-cottura della cartilagine del pesce con una tecnica ispirata al basco “pil pil”; il piatto viene finito con polvere di alghe e clorofilla di prezzemolo. La sapidità decisa, derivata dall’estrazione della salsa e dalla mantecatura della pasta, rende l’assaggio più impegnativo e meno confortevole del precedente. Si torna su un piano di eleganza, sia nei sapori, sia nella particolare texture, con la Ricciola frollata 15 giorni, cotta a bassa temperatura, rifinita alla piastra e accompagnata da una spuma di agrumi e radicchio di Treviso. Il Petto d’anatra (caggiagione di barena per eccellenza), chiude la parte salata: cottura perfetta e abbinamento con caco-mela, cavolo nero e salsa “mole” messicana. Fuori menù, ad anticipare il pre-dessert, un piatto di passaggio tra salato e dolce: Cipolla, rapa bianca e spuma di tarassaco; proprio nella realizzazione della spuma, oltre che nell’equilibrio complessivo di un piatto non dolce ma a tendenza dolce, trova conferma l’abilità del cuoco nel trattare gli elementi vegetali. La sequenza del menù da nove portate evidenzia quindi una cucina matura, ricca di spunti, che oscilla tra forza e finezza facendo centro in entrambi i campi.

Un apprezzamento particolare va all’eleganza semplice e moderna degli ambienti, nel cui arredo si nota l’inconfondibile tocco dell’artigiano del legno Remo Pasquini, e, soprattutto, al servizio di sala: una brigata non particolarmente numerosa prende luce dal savoir faire cristallino di Benedetta Fullin e Manuel Trevisan, capaci di creare un’atmosfera ospitale, amichevole e rilassata con tutti i clienti, compresi i numerosi stranieri, grazie all’inglese fluente di entrambi. Particolarmente accurato il servizio dei vini: le scelte, sia dell’ampia carta sia dei wine-pairing dei due menù, sono decisamente personali e vengono dettagliatamente spiegate ai clienti.

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Cambia lo chef, ma il livello rimane alto

Wisteria è un ristorante con tutte le carte in regola per attrarre il segmento più facoltoso dei turisti che popolano la città: situato in posizione strategica appena fuori dal circuito Stazione-Rialto-San Marco e a pochi metri dalla Basilica dei Frari, dotato di una sala capiente e arredata con gusto e di una corte interna (una rarità, a Venezia) che permette un servizio di alto profilo anche all’aperto. Carta dei vini ampia e ben dotata di etichette prestigiose, brigata di sala numerosa, efficiente, formale a cui però non guasterebbe qualche sorriso in più. Non stupisce, quindi, l’assegnazione della stella da parte della “guida rossa” nel 2021, quando a condurre i fornelli era il giovanissimo Simone Selva, peraltro in uscita verso Lancenigo (TV) già al momento dell’ottenimento del premio. Non stupisce nemmeno che sia stata confermata nonostante il cambio di Chef, una volta assaggiati i piatti di Valerio Dallamano, in sella dall’inizio del 2022 e autore di una cucina così diversa da risultare quasi opposta rispetto a quella del suo predecessore e, azzardiamo, più confacente all’eterogenea piazza veneziana.

Cucina dai tratti eleganti

Nei due menù degustazione, infatti, non ci sono provocazioni, nessuna volontà di aggredire il palato con estrazioni e concentrazioni estreme, le sensazioni amare e acide compaiono con il contagocce e i piatti si susseguono eleganti, confortevoli, esteticamente ricercati. La tendenza ad abbondare nel numero di ingredienti contemporaneamente presenti nello stesso piatto toglie in alcuni casi riconoscibilità ai sapori: caratteristica che si nota nella “Perla Rosa”: ostrica del Delta del Po con crema all’aglio gentile, salsa mignonette allo scalogno, kiwi giallo e verde, così come nelle “Praline di manzo e seppia”: carpaccio di manzo maturato e marinato che avvolge un tentacolo di seppia, con insalata riccia condita con vinaigrette di lamponi, polvere di bitter Sürlo e salsa tartara. Lascia interdetti il posizionamento nel menu di “Petricore”, ovvero funghi, tuberi (topinambur) e foglie di cavolo, immersi in una intensa salsa a base di formaggio di capra erborinato che lo fa sembrare più adatto ad una fase successiva del menù, piuttosto che al ruolo di introduzione dei primi piatti. Questi ultimi, peraltro, tutti di ottimo livello, dallo Spaghetto al pomodoro e basilico (fuori menù) nel quale la dolcezza della salsa rimanda a sensazioni di fragola, a “Gnoc en cola”, gnocchi di castagne e zucca, Parmigiano 42 mesi e tisana di bucce tostate: semplice ed efficace il contrasto tra la dolcezza degli gnocchi e l’astringenza gentile della tisana. Accostamenti azzeccati e cottura perfetta nel Rombo chiodato con patata schiacciata agli agrumi e olio alla verbena, accompagnato da funghi porcini e shitake e foglie di nasturzio. Ben eseguita anche l’Anatra in due servizi: perfetta la consistenza del petto scaloppato con salsa al miele di barena, scorzanera e lavanda; intense le praline al cioccolato e fegato d’anatra e la terrina d’anatra al miele di barena. Un’ulteriore conferma della predilezione dello Chef per la tendenza dolce anche nei piatti salati.

Un’esperienza complessivamente molto positiva, senza punti deboli, tranne forse l’aspetto economico, non tanto per i prezzi quanto per i ricarichi decisamente impegnativi della carta dei vini (che non presenta alcuna opzione al di sotto dei 50 euro) e soprattutto per le condizioni di prenotazione, tra le più rigide della città: si prenota solo on-line con carta di credito e, in caso di inconveniente, occorre disdire ben 48 ore prima del pasto per non incorrere in un prelievo forzato di 150 euro, corrispondenti all’intero importo del menù da 6 portate. Un eccesso di legittima difesa?

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Massimiliano Alajmo rappresenta Venezia in quattro atti

Il “sistemaQuadri (Ristorante Quadri al primo piano, bistrot Quadrino e Gran Caffè Quadri al piano terra, sui quali fa perno la sezione lagunare dell’esclusivo catering marchiato Alajmo) gira con precisione svizzera, nonostante le molte difficoltà a cui è stato esposto negli ultimi anni. Un binomio, quello Quadri/Alajmo, capace di garantire un rapporto contenitore/contenuto in perfetto equilibrio e un valore complessivo tra i più alti al mondo. Appaiono quindi comprensibili l’investimento di energie che il gruppo ha dedicato a questa sede, culminato nel complesso restauro affidato al designer Philippe Starck, e l’importanza che queste cucine rivestono nella gerarchia interna, seconde solo a quelle delle Calandre, dove tutto è nato e dove tutto, ancora oggi, si crea. La mente fervida di Massimiliano Alajmo si è immersa nella cultura veneziana e ne ha assorbito la caratteristica primaria: la contaminazione. Ha così preso forma un menù, “Quattro Atti”, che trae ispirazione dai banchetti rinascimentali a Palazzo Ducale, nei quali i dogi pretendevano che le pietanze fossero tutte, contemporaneamente, presenti sul tavolo per trasmettere una sensazione di opulenza e celebrare la grandezza della città. La divisione in quattro “atti”, in ognuno dei quali si assaggiano quattro pietanze, lo rende compatibile con le esigenze del fine dining contemporaneo.

Contaminazione, cultura, tecnica

Guidati dal maître Giovanni Alajmo, esempio di come l’ultima generazione di una famiglia di ristoratori possa sintetizzare le doti migliori dei predecessori arrivando finanche a superarli, si intraprende il percorso di assaggi con il primo atto, nel quale svetta per complessità l’unico piatto interamente vegetale del menu, l’”Orto di Sant’Erasmo”: un raffinato gioco di aromi, sapori, texture e temperature gestito con precisione millimetrica dall’executive chef Sergio Preziosa. Il secondo atto mette alla prova qualsiasi palato, anche il più disponibile e attento, con una serie di giravolte: si inizia con il Risotto verbena, pomodoro fresco e vongole all’olio extra vergine d’oliva che, nonostante gli ingredienti richiamino freschezza e leggerezza, risulta ricco e marcato dalla sensazione umami determinata dalla mantecatura. Passando con leggerezza attraverso gli Spaghettini freddi con salsa di conchiglie, crudo di pesci e crostacei, si plana sulle intense, potenti, saturanti Tagliatelle alla paprika affumicata, letteralmente immerse in una salsa di peperone e spolverate di ricotta affumicata. Nel terzo atto, un’altra carezza al palato dall’Astice con purè piccante (in verità moderatamente) di patate all’olio e salsa montata di sogliole e acciughe, prima di chiudere la parte salata con la Faraona all’aceto balsamico, spremuta di susine, patè di fegatini al lardo e polenta croccante: piatto di chiara ispirazione rinascimentale, goloso, certo, ma che finisce per risultare il più scontato della sequenza. Spezie protagoniste, come deve essere nella città sull’acqua, nella Sfoglia al curry con sorbetto di mandorle amare e albicocche, impeccabile per leggerezza e fragranza, inebriante per aromaticità.

Finisce così un tourbillon di sapori variegato, dinamico, appagante, divertente, il cui apparente disordine sottende un ragionamento progettuale profondo e dettagliato. Utili un buon appetito per sostenere le sedici preparazioni proposte e un filo di attenzione per non lasciarsi andare all’”assaggio compulsivo” dei piatti che arrivano in tavola contemporaneamente. Per chiudere nella maniera migliore la serata, non resta che scendere al Gran Caffè e sedersi a bere un drink nel dehors, sotto lo sguardo vigile del “Paron de Casa” (nome con cui i veneziani chiamano affettuosamente il campanile di San Marco).

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Tecnica a palazzo

Appena fuori dalle rotte tradizionali ma così intimi in quella Venezia che sa così tanto stupire. L’avanzata gastronomica di questa città continua nella sua splendida, ambiziosa sfida. Va riconosciuto che uno degli apripista di questo new deal, in veste di lieutenant bartoliniano, è quel geniaccio da cucina di Donato Ascani. Arte, orto e laguna. Prosegue instancabile il minuzioso lavoro che il cuoco ha intrapreso nella cesellatura millimetrica del gusto e che gli ha fatto conquistare, in breve tempo, i due prestigiosi macaron della Rossa. Che la tecnica fosse di casa o, meglio di Palazzo (Venart!), questa è cosa nota. Ancora una volta la proposta triangolare tra cultura, mondo vegetale e Serenissima trova riaffermazione per lo stato di grazia di cui gode questa realtà.

Intenzione ed estinzione

Due termini simili in desinenza, ma così eterogenei nel loro significato. La prima, a sintetizzare lo stile ma anche l’impulso che Donato Ascani ha saputo combinare indagando questo territorio. Se l’Isola di Sant’Erasmo evoca ai più gli antologici carciofi – castraure – l’intento di Ascani è di riscoprire come micro-produzioni di ortaggi ed erbe spesso dimenticate acquisiscano una vis sorprendente grazie all’unicità del luogo in cui sono coltivate. Estinzione, nella sua accezione antica di “togliere o liberare da”. I piatti esposti nella loro sequenza si liberano di qualsiasi forma manieristica dove l’ingrediente potrebbe essere offuscato da virtuosismi modaioli. Emerge sicuro il fil rouge che lega Ascani a Bartolini in quella facilità di comprensione e di lettura in una città con una clientela turistica anche complessa. Estinguere, dunque, il dubbio. Metaforicamente parlando, infatti, la cucina di Ascani è come murrina che, nella sua complessa e affascinante struttura, si mostra nitida nel vetro trasparente in cui è incastonata. Il tutto è sinfonicamente orchestrato da una pregevole sala tra cui spiccano per stile il sommelier Ottavio Venditto e per l’empatica professionalità, che già avevamo trovato in un’altra realtà bartoliniana, a La Trattoria de L’Andana, con Irene Dorai.

Terra e acqua

Se delle Acquadelle in salse molto è stato scritto, ora riusciamo a stupirci per la sintesi tra estetica, gustativa e gestuale, tanti e diversi sono stati i colpi messi a segno da Ascani in questo nuovo “Arte, Orto e Laguna“. La Melanzana bruciata di Sant’Erasmo, pecorino, peperone di Senise e pesto parte dall’osmotizzazione con il pomodoro sulla melanzana rinvigorendo la carnosità che quest’ultima perderebbe nelle lunghe cotture consuete. L’erbaceo a crudo di basilico e origano dona freschezza. Infine, l’apposito pane, realizzato con il grano arso, è funzionale al piatto cui restituisce l’affumicato tipico dell’arrostitura nella golosa crosticina della originaria gratinatura. Una sublimazione di parmigiana. La Zucchina e fiori è un piatto innestato sul varietale dello stesso ingrediente (zucchina stellata, gialla e verde) agganciato all’evoluzione aromatica diversificata grazie alla disposizione dei singoli fiori/foglie presenti nel piatto. Trait d’union, la sobria acidità della bernese a impreziosire la spinta sapida del caviale. Un piatto di fisica progressione per ogni cucchiaiata. Poi, ancora una volta, uno dei piatti firma di Donato Ascani con la nuova versione della Seppia alla brace. La prima salsa fatta con le uova del cefalopode è il fondale su cui la seppia prima arrostita e passata velocemente sulla brace trova il consueto nero. La bieta, appena sbollentata quasi a riprendere un atavico zimino, incontra, leggermente acetata, la carnosità del cardoncello riprendendone la parte terragna. Piatto emblematico per alternanza di consistenze proteiche declinate anche sul versante vegetale. Emblematiche come quelle barene in laguna dove l’alta marea, nel suo divenire, scopre e poi sovrasta elementi, odori, scenari inaspettati.

Terra e acqua: una ciclicità deliziosamente raccontata dello scenario veneziano, che trova nel Glam di Donato Ascani una interpretazione d’autore.

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