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Ai Due Platani

Il richiamo della tradizione: una tavola classica tra i luoghi imprescindibili dello Stivale

Nel 2005 Giancarlo Tavani, Gianpietro Stancari e Mattia Serventi – tutti con importanti esperienze maturate in Italia e all’estero – hanno rilevato una storica insegna legata ad una terra profondamente intrisa di tradizione gastronomica, “sentendo la responsabilità derivante dalla lunga storia e dal nome del locale”, con l’intento di tutelare ciò che a Parma è da sempre considerato, appunto, un luogo di culto in cui sono ben custodite le tradizioni gastronomiche.

Il risultato, allo stato attuale e lo abbiamo già detto in passato, si traduce in un caposaldo della cucina classica italiana. Nel solco dei fasti del passato, Ai Due Platani continua a raccogliere consensi non soltanto dalla numerosa clientela locale. Insieme a poche altre tavole di tradizioni regionali è, difatti, meta di pellegrinaggio da distanza siderale rispetto alla anonima campagna parmense in cui è ubicato

Una esemplare trasposizione del territorio nel piatto

Armatevi di pazienza, quindi, perché per prenotare bisogna muoversi con qualche settimana di anticipo esclusivamente telefonando in orari prestabiliti, lontani dal servizio del pranzo e della cena. Un’esemplare trasposizione del territorio nel piatto sono i Tortelli ripieni (che siano alle erbette o alla zucca), ormai leggenda, con il loro ripieno suadente e la sfoglia sottile ed elastica; per i salumi c’è l’imbarazzo della scelta, il gelato alla crema con vaniglia è, infine, un’istantanea del passato che rivive oggigiorno al termine di ogni servizio. La sicurezza con la quale viene eseguito l’intero comparto classico delle vivande proposte consente alla cucina di divertirsi con qualche divagazione interpretativa più moderna anche se non proprio con i medesimi risultati: l’Anguilla di Comacchio fritta con maionese all’acetosella e pomodoro affumicato, che denota comunque un prodotto del territorio di primaria qualità, satura il palato con maggiore velocità rispetto a preparazioni anche più opulente che però sono graziate da un’irresistibile aurea evocativa golosa. Parliamo in particolare del vorace assaggio in cui ci si imbatte degustando la Tagliatella verde ripiena di pecorino, ragout di anatra germana, cipolla rossa e rosmarino in cui gli ingredienti sono dosati con maestria in termini di proporzioni, contrasti e consistenze.

In chiusura, come già detto, sarebbe un peccato perdersi il Gelato alla crema con vaniglia del Madagascar mantecato al momento con un “Carpigiani” del 1964, servito al tavolo, a piacimento del commensale, con nocciole piemontesi caramellate, praline croccanti al cioccolato, Grand Marnier, cioccolato fuso e altri dolci ammennicoli.

Fornitissima cantina con tante sfumature internazionali, bollicine italiane e francesi e bianchi di Borgogna. Qualche vino alla mescita selezionato giornalmente. I prezzi, tuttavia, non li abbiamo trovati indicati nella lista digitale alla quale si ha accesso con il QR code.

Il servizio di sala è puntuale e affidabile, oltre a mostrarsi caloroso e sincero come il cibo che arriva in tavola. La cucina italiana non può prescindere da queste tipologie di locali, finalmente, autentiche trattorie. 

La Galleria Fotografica:

A tavola nella Food Valley

Nel cuore pulsante della Food Valley parmense l’arte del saper fare, la continua ricerca di materie prime di qualità e l’innovazione sono la sostanza di una terra che prende vita sulla tavola e nel calice. L’Emilia-Romagna, infatti, terra fertile dove storicamente si è sviluppata una cultura gastronomica che ha portato alla nascita di numerosi prodotti DOP e IGP, vede proprio nelle potenzialità del suo suolo le perfette condizioni anche per la vite di Barbera, Bonarda, Cabernet, Merlot e Malvasia di Candia, oltre agli internazionali Cabernet Sauvignon e Merlot.

Gli stessi vitigni, messi a dimora tra i 350 e i 400 metri sul livello del mare, godendo della fortunata esposizione sud-est abbracciando la collina Il Poggio, compongono il mosaico di possibilità che Cantina Il Poggio riassume in una produzione vinicola che spazia da “gli Oltre-contemporanei”- Poggio, Falstaff, Gelasio, Vedovona, Vedova Nera e Pensiero – fino a “i Tradizionali” – Parmigianino, Otium, Liberty, Salsese e Malvasia Dolce.

Vini da compagnia

Nella Vedova Nera, Barbera e Merlot si incontrano in un rosato frizzante ottenuto con il metodo Ancestrale della rifermentazione in bottiglia: grintoso e vivace, si dischiude su sentori di frutti rossi. Degustato nella brillantezza della sua stasi, lasciando dunque depositare i lieviti sul fondo, la croccantezza del frutto spicca in un finale fresco e dissetante e nel fine perlage. La sua particolare attitudine gastronomica invita all’abbinamento con formaggi e affettati, in particolare sarà provvidenziale a stemperare le grassezze evanescenti e sapide dell’ottimo lardo di Bettella.

Interessante il Barbera in purezza Falstaff, ottenuto da vecchie vigne, a cui in affinamento non vengono aggiunti solfiti per permettere all’uva, autoctona, di raccontare del terroir che la omaggia. Fresco e immediato, fruttato e morbido, di buona lunghezza e acidità, invoglia all’accostamento con formaggi a pasta morbida o a salumi come la Spalla cruda di maiale nero della Bassa, stagionato 4 anni, del Podere Cadassa, giocando a neutralizzare il primo boccone per poi preparare il palato al prossimo, in un contrasto tra dolcezza e sapidità.

Ma la Barbera si esprime appieno anche nell’etichetta che, dell’azienda, rappresenta il biglietto da visita: Poggio, dove si unisce alle uve Bonarda, Cabernet Sauvignon e Merlot, forgiando un rosso strutturato, pieno e intenso. Per affinità, non solo territoriale, il Culatello di Zibello Dop del salumificio Dallatana vi si sposa perfettamente grazie al solido tannino e alla chiusura, leggermente amabile.

Il Pensiero, passito di Malvasia di Candia Aromatica stramatura, affinando il suo color giallo ambrato in tonneaux di rovere francese, per 12 mesi, aguzza i suoi sentori agrumati e speziati. Se abbinato a piatti dall’alto tenore grasso, come un Prosciutto crudo ben stagionato o un Patanegra o, ancora meglio, il Patanegra di Beher, ma saprà cavarsela anche con secondi piatti importanti: un agnello impanato o una saporita guancia di maiale, dove il contrasto si concilierà al palato, propiziando un incontro coi fiocchi.

Dall’Emilia al mondo, e ritorno

Ci sono carte dei vini che sembrano vere e proprie antologie dei vigneti del mondo e diventano lo specchio dell’identità di un ristorante, di cui riescono a rivelare gran parte dell’essenza. È proprio questo la carta dei vini di Al Vèdel, ristorante nato come progetto parallelo a Podere Cadassa, il casolare di Colorno, nel cuore della Bassa Parmense. È qui che la famiglia Bergonzi porta avanti, dal 1780, la tradizione norcina e la ristorazione da ben sei generazioni, iniziata quando la zia Cleofe riconvertì il suo rustico in uno spaccio di generi alimentari e punto di ristoro per i viandanti.

Da un lato, dunque, la galleria dell’artigianalità gastronomica made in Italy di Podere Cadassa: una pioggia di culatelli e salumi pendenti dal soffitto a ricordarci che ci troviamo nel regno del Culatello di Zibello DOP; dall’altro il ristorante Al Vèdel, luogo elegante che profuma di antica osteria e di famiglia.

Marco Pizzigoni è il sommelier di Al Vèdel e, dal 1987, ne costruisce, studia e scrive la carta dei vini. Ha iniziato il suo cammino quando il ristorante aveva solo cinque vini: un immancabile Lambrusco, un Barbera d’Alba di Bersano, un iconico Verdicchio di Fazzi Battaglia, il Turrà frizzante di Cantine Maschio e uno spumante della storica cantina La Versa.

Una carta con 1900 etichette

Il percorso è stato lungo: tutto è iniziato con la curiosità e la semplicità genuine di un tempo, quelle che oggi sono doti nobili e rare, due caratteristiche che suonano bene se pronunciate insieme, come un ottimo Chardonnay con il Culatello di Zibello, accostamento che, trasposto nella geografia delle esplorazioni di Marco Pizzigoni, ricorda i primi passi mossi nel mondo del vino, quando, a soli 20 anni, da puro appassionato, inizia a viaggiare in Francia con una memorabile visita da Bollinger, dove all’epoca era possibile ammirare i costruttori di botti a lavoro.

Galeotta, poi, fu l’editoria gastronomica di allora, come le prime guide de Il Gambero Rosso, che lo esortarono alla scoperta, pervadendolo di curiosità nei confronti della ristorazione. Si chiedeva perché i ristoranti scegliessero certi vini, perché quei menù. Inizia a visitare gli indiscutibili grandi nomi del vino come Gaja, in Italia, poi chiama e si confronta con gli agenti rappresentanti delle cantine più interessanti. Li invita al ristorante, li incontra. Inizia a formarsi fino a diventare sommelier e, tra una selezione e una scelta attenta, un metodo certosino e lungimirante lo guida: di ogni numero di bottiglie rare acquistate ne conserva la metà fino a creare una bella profondità da bere a tavola, leggere in carta, ammirare in cantina.

Oltre agli Champagne, i bianchi, rossi e rosati, gli italiani e gli stranieri e fino alle birre artigianali

Per i rossi c’è l’imperativo del territorio: quei vini che raccontano l’Emilia tutta a partire dal Lambrusco, da quello di Sorbara rifermentato in bottiglia alle altre varietà e, ancora, la vicina Romagna, con le Riserve di Sangiovese di struttura, come il Terra di Covignano di Vini San Valentino, della terra di Federico Fellini. Si passa attraverso annate preziose, a partire dalla più antica, con Bolgheri Sassicaia, in una collezione che spazia dal 1985 al 2018.

Una decisa passione per il Piemonte emerge dalla carta, con le più attente selezioni di Barolo e Barbaresco, dai piccoli produttori alle emozioni forti di un Barolo Riserva Monfortino 2014 di Giacomo Conterno in formato Jéroboam. E poi i rosé provenzali, e la loro orchestra di aromi come nell’elegante cuvée firmata da Château Sainte Marguerite insieme ad un’altra eccellenza da terre più lontane, il Libano, con il Jeune Rosè 2015 di Chateau Musar da uve Cinsault. I vini del mondo che compongono la carta di Al Vèdel parlano molto di edonismi francesi, da Bordeaux alla Borgogna, con piccoli-grandi joyaux di Languedoc-Roussillon, tipo il Mas de Daumas Gassac 2008 di Guibert, con una collezione di 10 vitigni differenti.

Tra i bianchi, un’ampia linea di Riesling, quasi a formare una consecuzione di scale olfattive di bouquet fruttati. Vini internazionali che non ci si aspetta, dall’Australia all’Oregon, negli States, che ci svela uno Chardonnay 2017 dalla bocca rotonda e fluida di The Eyrie Vineyards. Pagine, quelle dei vini bianchi, che non dimenticano le eleganti espressioni minerali di un Carricante di Sicilia, come l’Etna Bianco Superiore Pietramarina, da vendemmia 2016.

Nella lettura della carta una caratteristica fra tutte spicca prima dei vini stessi: l’intenzione di rivolgersi a tutte le tasche. E questo ce lo conferma Pizzigoni stesso, aggiungendo un altro tratto fondamentale della trama del suo lavoro, che diventa una sfida: quella di non lasciarsi troppo influenzare dai gusti personali di amante e professionista di vini. “È un po’ come il lavoro del giornalista che scrive di politica – dice – bisogna cercare di restare neutri e poi tenere sempre un orizzonte aperto sul mondo”.

Pizzigoni non ama rincorrere le tendenze del momento, ma ascolta i clienti, li aiuta nella scelta e cerca di capire da loro quando è il momento di fare un passo avanti, di esplorare nuove rotte. “Visione ampia e curiosità” sono il suo mantra, concetti che investiga tutti i giorni anche da quando è arrivato suo nipote, sommelier molto giovane, ad affiancarlo nella gestione della carta dei vini. Mentre ci racconta che sta provando a combinare un matrimonio intercontinentale tra il sakè di Richard Geoffroy – ex Chef de Cave di Dom Pérignon – e alcuni formaggi che andranno a locupletare il carrello che Edgarda Meldi, il “naso” di Al Vèdel, porta in scena rievocando un’usanza straordinariamente premurosa e charmant, in cantina ci attende Enrico Bergonzi, Chef e Patron, per una degustazione di salumi della tradizione norcina parmense.

Un vino gentile e dalla verve femminile come il Fortana del Taro IGT “Podere Rosa” di Cantine Bergamaschi – un rosso brillante con bassa gradazione alcolica – è perfetto per ammorbidire il gusto della pancetta fatta solo con il rivestimento adiposo e muscolare del costato di suino. L’abbinamento giusto che sprigiona al palato due dolcezze, quella del Fortana e del grasso della pancetta, imperanti ma perfettamente in armonia. Intanto, il profumo del Culatello di Zibello DOP ci ricorda la sua potestà con una produzione che, denominata “Punto Zero”, riscopre un ritorno agli originari metodi di allevamento con un’antichissima varietà di suini, quella del maiale nero. 

Il clima umido, responsabile della perfetta riuscita di un Culatello, ci strappa una riflessione: la nebbia e l’umidità, se viste sotto la prospettiva delle produzioni gastronomiche made in Italy – e quindi lontano da malinconie e cupezze invernali – sono condizioni in grado di generare felicità, così come i sentori piacevolmente muffati del Culatello, ammansiti al palato dalla sua stessa dolcezza, che viene esaltata dalla cremosità dello Champagne Brut di Boizel, un naso irriverente e gioioso con spiccati profumi di biancospino e miele.

Da Al Vèdel ritroviamo un’Emilia autentica e internazionale, che attraverso i vini guarda al futuro declinando le diverse culture vinicole tramite reti di dialogo in grado di coinvolgere gli ospiti, la cucina e i prodotti tipici, nutrendosi ogni giorno di un’inesauribile sete di conoscenza.

di Martina Vacca

Il vino che canta l’opera

L’eco musicale delle partiture verdiane che simboleggiano Parma, risuona tutta intorno e arriva sulle colline di Ozzano Taro, tra i boschi che custodiscono Monte delle Vigne, l’azienda dove i vini diventano parte di una vera e propria opera lirica.

Come in ogni libretto d’opera che si rispetti c’è una trama, che narra una terra antica, quella de “Li Monti de le Vigne” così nominati da Frà Salimbene de Adam che li magnificò nelle sue Cronache medievali; perché già nel Medioevo qui si produceva un vino di qualità commercializzato grazie alla via Francigena che attraversa per un pezzo proprio i Boschi di Carrega che contornano il cascinale. Terreni da sempre salubri, che già prima di essere acquistati dall’azienda, erano destinati al pascolo delle frisone olandesi per il latte del Parmigiano.

Attorno ai 60 ettari di terreno, di cui 40 vitati, è la natura che detta le regole di una convivenza armoniosa con l’uomo: l’area protetta del Parco fluviale del Taro, i 100 ettari di boschi, la varietà di specie faunistiche, calanchi e rii d’acqua. Qui è facile comprendere come nel concetto di biodiversità possa instaurarsi un dialogo con chi vi si è insediato per produrre vino.

La cantina di Monte delle Vigne è stata costruita sottoterra per limitare l’impatto sull’ambiente. Una stretta di mano tra uomo e natura per suggellare un patto di rispetto reciproco: il primo potrà beneficiare di una temperatura naturale per i suoi vini e la seconda potrà evitare di essere condizionata massivamente dalla struttura. E poi la scelta di utilizzare i pannelli solari per un approvvigionamento energetico sostenibile e i quattro laghi astanti la cantina come risorsa naturale per la raccolta di acqua piovana, che aiuta il terreno a umidificare i vigneti e viene utilizzata e depurata – nei periodi consentiti – per la pulizia degli spazi.

Dalla vigna alla cantina

Ad accompagnarci tra le vigne durante una fredda matinée invernale è Paola, il volto dell’accoglienza di Monte delle Vigne, che con voce e occhi trasmette tutto l’entusiasmo e la genuinità dei princìpi dei suoi fondatori, la famiglia Pizzarotti, che dal 1983 ha dato il via all’azienda e ha fatto della sostenibilità la cifra delle sue produzioni vinicole.

Il territorio composito dei Colli di Parma, tra calcare e argilla, si presta perfettamente alla creazione di vini verticali, aromatici e persistenti come la Malvasia, che insieme al Barbera e al Lambrusco sono le principali varietà con una capacità espressiva eloquente del territorio. Non mancano i vitigni internazionali come Cabernet Franc, Sauvignon e Chardonnay, ormai tipicizzati anche in questa zona poiché arrivati con la dominazione Napoleonica.

La vendemmia a Monte delle Vigne si fa a mano e l’innovazione si presenta, ancora una volta, anche nelle lavorazioni: dopo la diraspatura gli acini interi arrivano nelle vasche per la fermentazione del mosto direttamente dagli scivoli installati su grandi fori presenti sulla superficie terrazzata che sovrasta la cantina: in questo modo non c’è contatto con alcun macchinario.

La produzione, che da quest’anno è 100% biologica, conta 300mila bottiglie in un anno, anche se il 2021 ne ha registrate 270mila a causa della forte gelata di marzo che ha inaridito le gemme delle viti.

Ad autografare i vini ci pensano la mano e la mente di Luca D’Attoma, enologo di lungo corso; e sono 13 ad oggi le etichette di cui l’azienda si fregia.

La Malvasia di Candia aromatica è la protagonista in quasi tutte le linee: in quella dei vini storici insieme al Rosso DOC – blend di Barbera e Bonarda – in quella degli spumanti dove il vitigno sprigiona la complessità dei suoi aromi in un metodo Charmat con macerazione di 20 giorni sulle bucce. 

Il Lambrusco, invece, dà il meglio di sé nell’eleganza de “I Calanchi”, il Cru dal rosso carico ed equilibrato al palato.

Si tratta di vini che hanno imparato a parlare in maniera appropriata del loro territorio e oggi ne sono diventati ottimi interpreti, proprio come Maria Callas era l’interprete perfetta dell’opera di Verdi; questo Monte delle Vigne lo sa bene, tanto da aver creato due vini ispirati all’Opera Verdiana, Callas e Nabucco.

L’etichetta Callas, Malvasia di Candia aromatica in purezza, vede il suo primo sipario nel 2009. Si sono susseguite diverse vendemmie da allora, ma quella del 2020 ha visto un’evoluzione: il 30% dell’uva è stata vinificata in anfora e il restante in acciaio con bâtonnage, conferendo una verve contemporanea alla texture e sprigionando nuovi profumi che si rincorrono tra mineralità e agrume. Callas è un vino di bocca morbida ma strutturata, è un canto di biancospino e violetta bianca, è come una donna elegante che parla con la freschezza di un sorso vivido e persistente.

E poi il Nabucco 2018, un uomo d’altri tempi, con una presenza scenica raffinata in etichetta espressa da un lettering limpido e pulito, che regala al palato un sottobosco ricco, frutti rossi e liquirizia. C’è un 30% di Merlot nel Nabucco, il resto è Barbera, che, sui Colli di Parma sa essere carismatico sin dai primi respiri speziati, donare un graffio di morbidezza e rivelarsi piacevole alla vista attraverso un rosso carico dalle ombre brillanti.

Martina Vacca

Inkiostro: nel regno di Terry Giacomello

Il ristorante Inkiostro si trova poco dopo l’uscita del casello di Parma. Ed è proprio il caso di chiamarlo “regno” dato che sin dalla sala, dove l’arte moderna e contemporanea la fa da padrona, si respira quanto poi sarà evidente, poco dopo, sulla tavola. In questo viaggio tra ingredienti infinitamente lontani e infinitamente vicini, quasi tradizionali, lo chef si svela all’avventore nella pulsione che più lo contraddistingue: l’elemento ludico, innescato attraverso effetti speciali concepiti più per fare chiarezza, e pulizia nelle sensazioni esperite, che per confondere l’avventore.

Il menù “Vibrazioni”, ancora in fase di rodaggio al momento della nostra visita, è difatti già leggermente cambiato in alcune sfumature e proprio questo, forse, è uno degli elementi più importanti della cucina di Terry Giacomello, che è performance pura: evoluzione, manifestazione sempre diversa di una cucina mobile e prolifica, vessillo di uno stile personalissimo e del tutto ineguagliato nel panorama gastronomico italiano.

L’arte in cucina

Gli appetizers sono divisi tra caldi e freddi e, sin dall’inizio, non si ha paura di sperimentare con l’amaro, nella fattispecie della carota bruciata, la cui sensazione ricorda la liquirizia, né con sensazioni più avvolgenti, si direbbe quasi conturbanti nela treccia di Parmigiano Reggiano servita nel suo siero caldo. Il menù inizia e s’imprime nella memoria con Parma 2020, l’omaggio dello chef alla via Emilia, che lo ospita, e a Parma, Capitale italiana della Cultura 2020 con un sablé di parmigiano 24 mesi contenente all’interno una mousse all’aceto balsamico di Modena invecchiato 25 anni e, nel “porta uovo”, una maionese di noci. Un piatto encomiastico, come del resto è solito fare ogni artista degno di questo nome.

E che le velleità di Giacomello siano esattamente queste è dimostrato dall’omaggio a Cattelan e, in particolare, all’opera “Comedian”, che s’ispira esplicitamente all’idea che tutto possa essere arte a seconda di dove sia collocato. Così lo chef combina qui ingredienti “non consoni” come la buccia di banana, estratta e frullata e la polpa, in aceto e gel, fissati dallo “scotch” della cialda di torrone.

Una mìmesis che inganna

Con pasta “scotta” – riproduzione di un fusillo scotto realizzata col tendine del vitello stracotto, servito con emulsione olio extravergine d’oliva, peperoncino e dischi di aglio laba (aglio asiatico macerato una decina di giorni in aceto e olio, dal caratteristico colore ceruleo) – si entra nel vivo della performance mimetica, volta sì a ingannare il palato quanto, anche, a stimolare l’intelligenza dell’avventore, irretito da cotanto esercizio di tecnica.

Sulla stessa linea i falsi ceci di pasta di sesamo bianco e burro di cacao, un piatto rifinito col brodo di ceci che, nel complesso, ricorda note di gommasio e burro di arachidi, così come Mangiare Ossa, dove l’osso più piccolo è una liofilizzazione di brodo di ossa di pollo mentre, a destra, si trova un cuore di palma CBT, che richiama l’osso buco e che, non a caso, è rifinito con una salsa di osso buco: un bellissimo gioco da alchimista che, come tale, ha richiesto molti tentativi da parte dello chef prima di raggiungere la giusta consistenza. Blave – termine friulano che vuol dire “pannocchia” – omaggio il paese natale dello chef, riproduce una piccola pannocchia grazie a una purea di mais accompagnata da crema di Huitlacoche (anche detto “tartufo di mais”: si tratta di un fungo che intacca la pannocchia, ossidandola). 

Infine, un piatto che ci ha particolarmente colpito per l’accondiscendenza che dimostra nei confronti delle papille gustative, finalmente lusingate se non, addirittura, coccolate: Ackee & Ricci, ovvero il frutto giamaicano e ricci di mare, conditi con una bisque e impreziositi dalle gocce alla radice di priprioca (pianta tipica dell’Amazzonia, legnosa e leggermente aromatica).

La sala sopperisce alla mancanza dei sorrisi, dovuta alle mascherine, con il luccichio e l’entusiasmo che si coglie dagli sguardi e dal trasporto con il quale la narrazione “giacomettiana” viene illustrata. Un percorso leggero, seppur di tante portate, concepite come delle montagne russe che divertono l’avventore in uno scambio continuo; in contumacia prima, con forte e ingombrante impronta nei piatti, e in presenza poi, con lo chef sempre curioso del riscontro dei suoi ospiti. È proprio questo arricchimento il valore aggiunto dell’esperienza da Giacomello, tappa immancabile per chi vuole immergersi nei meandri della vera cucina d’avanguardia italiana.

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