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Pascoli e Casadei a casa Gorini

L’olio cantò con murmure sommesso; un acre odore vaporò per tutto. Fumavano le calde erbe da presso, nel tondo ch’ella inebbriò del flutto stridulo, aulente; e poi nel canovaccio nitido e grosso avviluppava il tutto.” Con queste due terzine cristalline, rubate a Giovanni Pascoli, il poeta traccia sentori, umori e gesti di quel “desinar” romagnolo che si trova ben raccontato nel titolo, omonimo, di questa sua poesia. Si percepiscono nettamente, in una sequenza squisitamente descritta, gesti e i suoni che permeano le parole scelte. Partendo da tali, preziosi versi, inquadriamo dunque la nostra ultima visita, in veste primaverile, al ristorante daGorini.

È stagione volubile la primavera. Abbacinata dai primi soli e subito redarguita da repentini temporali. L’aria qui a San Piero in Bagno è tanto frizzante quanto brillante, come lo è il talento di Gianluca Gorini che del luogo ne ha fatto prima che impresa, anche famiglia. Dal parcheggio alla soglia, le facciate di pietre delle case, con le loro vie, sono i letti sui cui scorre goloso l’aroma di brace che scaturisce dalla prolifica cucina. L’aroma segna la rotta, difficile sbagliarsi, di materia e dimora: capisaldi su cui il talento di questo cuoco ci ha abituati, ma non assuefatti. La stagione in questione per il suo nuovo menù sembra essere diretta emanazione del carattere di Gorini, gentile ma al contempo robusto, intellegibile eppur tecnicamente complesso. Proprio come le n-mila sfumature dello stesso, impetuoso verde, che cangiante dipinge le colline dell’Appennino tutt’intorno, l’istinto di Gorini è in grado di mutuare concretezza dalle esperienze e dal luogo in cui opera. Parafrasando il tutto in una rosa di eloquentissimi piatti.  

Multiforme bravura

In questa tornata vogliamo prendere in esame ben sei vivande, utili a raccontare la multiforme bravura di Gianluca Gorini. Il Fritto misto di erbe, foglie e fiori è antologico per la perfetta esecuzione, quanto vario negli elementi impiegati: ortica, borragine, tarassaco, piantaggine, timo limone, prezzemolo, salvia, finocchio selvatico e fiori di acacia. A volo d’uccello su un prato primaverile, con una tempura eterea ma deliziosa nel preservare gli olii essenziali di ciascuna delle erbe, regalando bocconi dal gusto unico. Dopo il fritto, la cadenza impenna con l’Insalata di albicocche in conserva, estratto di mandorla, mandorla verde, limone alla brace, stridoli e sambuco. Esercizio sull’amaro vigoroso dove la succulenza perduta dell’albicocca funge da dolce fondale per l’astringenza tannica della mandorla fresca e ben estratta. Emblema di una nuova primavera in partenza. La citronette al vermouth e i fiori di sambuco alla brace amplificano la vegetale amara rilevanza su cui tutto il piatto poggia, offrendo una versione heavy-metal di San Piero in Bagno. Quanto alla personale pasta ripiena di Gianluca, abbandonate le pieghe romagnole del cappelletto accogliamo stavolta le sembianze tondeggianti di una sorta di Anolino emiliano. Qui ripieno di cacciagione e immerso nel brodo di funghi, alghe, spuntature e prugnoli. Piatto confort rinverdito dal fresco apporto di soia e zenzero, a regalare ficcante pungenza. In più, grazie al primaverile prugnolo aggiunto a crudo il piatto amplia ulteriormente l’orizzonte verso Oriente, evocando masticazione shabu – shabu, e riscrive il contrappunto carnoso/vegetale nella polifonica struttura della portata. Quanto ai secondi, il Lombo e fegato di cervo in stile Wellington cesellati dalla salsa poivrade, fatta come si deve, esibiscono la grande e maniacale attenzione di Gianluca per le cotture della cacciagione. La mimesi di consistenze tra le due parti del cervo, tanto distanti quanto uniformi nella loro cottura in sfoglia, rivela la proporzione aurea su cui questa forma di Wellington in salsa Gorini è costruita magnificamente.

Ma se dei pre-dessert abbiamo già scritto, appare impossibile non citarli anche stavolta. Di fatto, al servizio del Colombaccio seguono le sue consuete frattaglie, qui appena scottate e timidamente coperte dalla spuma di Barolo chinato e uva fragola. Il risultato è sorprendente poiché le interiora in cottura abbinate all’uva fragola sembrano, in dimensione e consistenza, degli acini. La carne trascende dunque a regno vegetale, e profonda introduce al capitolo dolce grazie all’impiego aromatico della china calissaja e della genziana, resettando il palato per l’atto finale. La pasticceria trova così completezza spaziando sui grandi classici come la Zuppa inglese, fino ai Nuovi asparagi arrostiti alla vaniglia, polline, ricotta e dragoncello. La variante vegetale ritorna anche qui sfruttando la dimensione dolce e minerale dell’asparago atto a reggere la soffice ricotta e il più balsamico gelato al dragoncello.

Così, se abbiamo scomodato il grande Pascoli all’inizio, senza farci mancare un pizzico di ironia dissacrante citiamo in chiusura invece uno tra gli storici bardi romagnoli della musica, Casadei. Con Gianluca Gorini, DaGorini, nella tua casa ancora una volta “Lontan’ da te, Non si può star!”.

IL PIATTO MIGLIORE: Frattaglie, succo d’uva e Barolo chinato.

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Un ristorante che conquista senza compiacere

Un talento puro, dotato di guizzi geniali: una descrizione ricorrente di Gianluca Gorini. Eppure, a ben vedere, l’innegabile estro del cuoco è solo una – seppur la più lampante – delle componenti  che fanno di “Da Gorini” un ristorante che conquista l’ospite. Infatti, la maturità ormai raggiunta si esprime – oltreché per il tramite di una cucina nitida, diretta e immediatamente riconoscibile – altresì attraverso un’offerta gastronomica originale, autentica, una felice commistione tra gli stilemi essenziali dell’alta ristorazione e il calore, nonché la compenetrazione con il territorio, propri delle migliori trattorie, un’influenza impressa nel DNA di famiglia.

In quest’ottica è impossibile non scorgere l’indissoluto legame con il dichiarato maestro, Paolo Lopriore, nonché il lascito della nostra storia culinaria, icone quali la mitica trattoria Cantarelli, capaci – attraverso un’affascinante commistione tra sacro e profano, tradizione e curiosità per il nuovo – di educare i palati di numerose generazioni. Un ruolo fondamentale è ricoperto da Sara Silvani, compagna di Gorini, straordinaria ambasciatrice delle creazioni del cuoco e abile come pochi nello “scorgere” i desideri e le inclinazioni di chi si siede alla tavola del ristorante. Il risultato ultimo è la bellezza di un luogo in cui ci si sente liberi di approcciare la cucina con leggerezza e divertimento, confrontandosi anche con piatti tutt’altro che semplici – rotondità eccessive e piacioneria qui non trovano spazio – senza quel pregiudizio o freno spesso indotti dalla soggezione che certi luoghi possono incutere.

Una cucina fatta di materia, contrasti e gesti

Il fulcro della cucina di Gianluca Gorini è la materia – di qualità fuori dall’ordinario – interpretata e valorizzata perlopiù attraverso la composizione di contrasti, l’utilizzo magistrale delle infinite sfumature dell’amaro e la gestualità, intesa come capacità del cuoco di intervenire – quando necessario – sull’ingrediente, talento quest’ultimo evidente soprattutto nelle cotture. Una conferma della sensibilità di cui si è detto è rappresentata da Tortello ripieno di mandorle amare, burro profumato al vermouth, albicocche acide e rosmarino, passaggio che sorprende per la capacità di individuare un perfetto equilibrio tra note amare, dolcezza, grassezza, la complessa aromaticità del vermouth, acidità e balsamicità: ogni singolo ingrediente è percepibile al palato, in una sequenza serrata e precisa. Una meraviglia è, poi, Trippa stufata con birra bitter, cervello poché, vongole e salsa alla marinara, con la sapidità della salsa a controbilanciare le note amare della trippa e le cervella a pulire il palato nonché a duettare, in termini di testura, con le interiora. Un piatto in cui il binomio mare-selva raggiunge un raro livello di sofisticatezza. In Spaghettone mantecato con pesto di montagna, crema di patate ed ostrica al naturale colpisce, invece, il felice accostamento tra le note balsamiche della resina di cipresso e l’ostrica, ingentilita dal rapidissimo passaggio in acqua bollente, tecnica presa a prestito dall’amico Mauro Uliassi (vedi “Insalata di ostrica, pesto di rucola, rucola, limone, borragine” del Lab 2022).

Ma Gorini è, poi, incredibilmente abile nella preparazione delle carni, come dimostra l’agnello in tre servizi (allevato da un artigiano straordinario, Michele Varvara), in cui il boccone cotto sui carboni eccelle in termini di cottura – maillard e la conservazione dei succhi da manuale – nonché di valorizzazione della proteina attraverso l’utilizzo di ingredienti vegetali, battuto di pomodori e olive affumicate, decisivi nell’elevare la complessità gustativa.

Da ultimo, non si può fare a meno di citare l’originalità dei pre-dessert, in questo caso Rognone di agnello, panna e fragole: ci si attende uno schiaffo e invece arriva una carezza, un binomio “anni ottanta” capace di levigare le asperità del rognone, un assaggio in cui – sulla lunghezza – prevale una dolcezza misurata, perfetta introduzione al fine pasto che, tuttavia, risulta quasi superfluo.

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A casa di Gianluca

Balsamica. Pungente. Polifonica. Cromatica. Basterebbero questi quattro aggettivi per definire la cucina che Gianluca Gorini propone nel suo ristorante daGorini (sì, scritto proprio così, tutto attaccato). Basterebbero, e sarebbero apparentemente sufficienti per passare ad altro: a tracciare, per esempio, un ritratto dei singoli piatti. O a descrivere il calore degli ambienti. O a soffermarsi sull’atmosfera del locale… Eppure, dietro quell’errore di spaziatura che un proto avrebbe corretto con solerzia, si cela una valida chiave per tentare una disamina più complessa di un’esperienza ai tavoli di questo locale che, indubbiamente, spicca per personalità nel panorama di vertice della nostra italica ristorazione.

Perché, quindi, daGorini e non da Gorini? Cosa cela questa effrazione alla consuetudine grammatica? Il «da» segnala, secondo usi secolari che potrebbero essere codificati in un ipotetico vocabolario storico della ristorazione, una ‘sosta’. Una ‘sosta’ presso ‘qualcuno’ – in questo caso «Gorini» – che è il gestore o il proprietario dell’insegna. Un calore di casa, quindi, anima questi luoghi e, all’ospite, non resta che varcare la porta o, metaforicamente, il vuoto ‘spazio tipografico’ fra il «da» e il ‘nome’ di turno per ristorarsi e riposarsi dalle fatiche del viaggio e della vita.

La scelta fatta da Gianluca Gorini è, invece, altra, e non dettata né da iconoclastia futurista verso le regole e i dettami né tantomeno in spregio al viandante. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quei battenti per decenni hanno attraversato persone che giungevano anche da molto lontano per gustare i piatti che lì, proprio lì dove ora c’è daGorini, Giuliana e Moreno Saragoni proponevano in quella che un tempo era la loro Locanda del Gambero rosso, tempio indiscusso di ospitalità e civiltà.

«Questo è il luogo dove ho scelto di vivere e lavorare, con mia moglie e mio figlio», dice con sicurezza Gianluca Gorini. E, difatti, daGorini, calore umano e senso dell’accoglienza traboccano di stanza in stanza, avvolgendo l’ospite, tanto l’abituale quanto il saltuario, in una bella atmosfera di pace e convivialità. Un sentimento ulteriormente rafforzato dalla cortesia del servizio e da tutte quelle altre accortezze (come una bella carta dei vini, qui peraltro assai personale) che concorrono a rendere ‘grande’ una sosta.

Come interpretare, quindi, quello ‘spazio’ mancante che sembra ‘chiudere’ invece di ‘aprire’? La risposta può arrivare considerando la garbata timidezza di Gianluca, riflesso della sua profonda introspezione: nel suo ‘donarsi con ritrosia’ a chi giunge alla sua porta, proponendo il meglio della propria cucina. Quest’ultima è il precipitato del suo carattere: salda ma gentile, complessa ma comprensibile, sensibile ma razionale, emozionante ma rigorosa, impetuosa ma pacata. All’ospite, se davvero vuole goderne, è pertanto richiesto un piccolo sforzo, un po’ superiore rispetto al semplice, facile attraversamento di uno spazio ‘già’ vuoto. La soglia fra «da» e «Gorini» subito si squarcerà se solo ci si metterà ‘in sintonia’ con lo spirito della casa, cogliendone l’animo, rispettandone la sensibilità e aprendo la mente al piacere dell’esperienza.

daGorini: un grande futuro, ora e domani

daGorini non ci sono provocazioni né rivoluzioni, anzi. Il dettato gastronomico rimane, nella sua base classica e d’alta codificazione, intoccabile. Così, per esempio, l’animella di vitello è croustillant comme il faut e la sfoglia del cappelletto (siamo in Romagna: qui i tortellini non esistono) è tirata come azdora (massaia) comanda. Ma ciò che arriva in tavola è ‘altro’ rispetto a un rassicurante e opulento ris de veau in stile vecchio tre stelle francese o agli abituali cappelletti in brodo di cappone.

La nota ‘difforme’, che è poi la cifra stilistica daGorini risiede nella magistrale orchestrazione polifonica (e, si badi bene, non sinfonica) di molteplici sensazioni gusto-olfattive che virano i piatti su accenti fortemente balsamici, amari, acidi e piccanti. Se, quindi, la cornice rimane ‘consueta’, così come lo sono anche i soggetti principali delle composizioni, a scompaginare la notazione è l’ampio uso di erbe, radici, cortecce, spezie, semi, agrumi e fiori. Aromi e profumi presenti nelle pietanze tanto nella loro singola essenzialità quanto rielaborati, come – per esempio – nei casi dei «sassolini» di bitter che si ritrovano nel gambero rosa marinato in salsa ponzu con salsa del suo carapace, dragoncello e carpaccio di cocomero disidratato o dei vermut bianchi e rossi che fanno capolino, rispettivamente, nei cappelletti ripieni di cacciagione con composta di pesca acerba e fiori di gelsomino e nel semifreddo al raviggiolo con amarene sciroppate e croccante alle noci.

Il risultato è duplice: da un lato cornici e soggetti appagano a livello di centralità del gusto e piacevolezza complessiva. Dall’altro le difformità tengono allerta la bocca sfuggendo facili rotondità. D’altronde è lo stesso cuoco, in apertura della sequenza, a dichiararlo senza infingimenti, servendo una ‘rossissima’ minestra di frutta e verdura (cocomero, susina, lampone, ciliegia, cavolfiore, ravanello, scalogno…) in diverse lavorazioni (a freddo, marinate, fermentate, ecc.) e consistenze, con estratto di susine alla verbena e bottarga: «Questo piatto serve a risvegliare le papille gustative».

Da questa scarica percettiva, che apre lo spazio fra il «da» e «Gorini», il percorso è poi tutto ‘in discesa’: fra rosse e verdi – le pietanze si susseguono da un erbaceo risotto al finocchio con estratto di camomilla e pasta di limone (con la nota della clorofilla in primo piano) a quella animella con sedano croccante, insalatina di rucola e acetosella e fiocchi di canapa sino a un complesso e appagante filetto di trota alla brace ripassato in aglio, olio e peperoncino, con insalata di melone e carota, semi e mandarino piccante, e la sua pelle croccante.

Le reiterate pungenze, variamente declinate che, quasi, non forniscono tregua al palato, appaiono smorzate solo in due casi, quasi due tappe ‘defaticanti’. Dal grasso distendersi delle lumache gratinate al verde (con la loro consistenza ‘cremosa’ ma comunque vivificata da un magistrale pesto di cipresso) con pancetta croccante e foglie verdi e dalla succulenza di un agnello di eccelsa qualità proposto in più servizi (costoletta cotta sui carboni con miso d’orzo, salsa all’aglio dolce e timo; spiedino ripieno delle sue interiora con cumino e paprica; pancia brasata; spiedino di lingua; il tutto accompagnato da «contorni all’italiana»: cipolline sottaceto con polvere d’alloro; millefoglie di patate croccanti e fondenti; funghi galletti saltati).

In chiusura si vira di nuovo sul ‘rosso’: Fucsia, ovvero zuppetta di rabarbaro al gin con crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, come a ricordare che il viaggio si conclude costantemente da dove si è partiti, ma sempre con una maggiore consapevolezza e una maggiore conoscenza.

Consapevolezza e conoscenza che Gorini, trentotto anni appena, dimostra di acquisire ogni giorno di più, e che probabilmente porteranno la sua ricerca verso traguardi ancora maggiori. Dire che direzione imboccherà è, forse, al momento un azzardo, ma lo studio che Gianluca sta compiendo sui tanti prodotti di questo territorio incuneato fra Romagna, Marche e Toscana, un abbozzo di percorso pare già lo stia tracciando. Un sentiero che potrebbe dipanarsi sulla falsariga di quello di altri cuochi – ora nell’empireo della ristorazione – che, dopo aver tanto sperimentato e dopo essersi rapportati con mode e modi anche assai lontani, si sono rivolti alla loro terra e alle loro tradizioni (Massimo Bottura, Norbert Niederkofler, Ciccio Sultano et Mauro Uliassi docent), rielaborando la prima e riempiendo di nuova linfa la seconda, alla luce di una gioiosa contemporaneità.

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La tradizione rivisitata di Gianluca Gorini

Nonostante la giovane età (37 anni), Gianluca Gorini vanta un curriculum di prim’ordine: in cucina da quando di anni ne aveva 15, sui fornelli del ristorante di famiglia, lo chef marchigiano (o come ama definirsi lui: “cuoco”) completa la propria formazione presso le importanti realtà di Paolo Teverini, Francesco Bracali, Paolo Lopriore, ma anche al Monsieur Max di Alex Bentley, a Londra.

Ristabilitosi in Italia, l’anno di svolta è il 2013, quando prende in mano le redini de Le Giare, a Montiano. L’esperienza dura fino al 2017, momento in cui Gorini rileva l’ex locanda Gambero Rosso a San Piero in Bagno e la trasforma nell’odierno DaGorini, che conduce con successo coadiuvato dall’aiuto, in sala, della moglie Sara Silvani. Il connubio può dirsi oltremodo riuscito: a novembre 2019, a meno di due anni dall’apertura, è infatti giunta l’assegnazione della prima stella Michelin.

L’inquadramento di cui sopra non è semplice aneddotica, ma è strumento utile a definire il tipo di personalità che anima la sua cucina: coraggiosa nel puntare su una reinterpretazione della tradizione filtrata attraverso l’originale registro dell’alternanza tra acido e amaro, ma al contempo lucida nel garantire riconoscibilità e immediatezza al fine di non spiazzare il commensale. A ciò si unisce, poi, un uso della componente vegetale tutt’altro che marginale, ma teso a creare un vero e proprio sostrato di gusto tra le portate.

Tra acido e amaro, un percorso con piatti coraggiosi e indimenticabili

Nel corso della nostra visita abbiamo avuto modo di vivere un percorso felice e riuscito, in cui l’indiscutibile padronanza della tecnica ha dato vita a piatti tanto ragionati a livello ideale quanto precisi a livello palatale.

La portata simbolo è stata senza dubbio il risotto al finocchio, estratto di camomilla e limone, vero e proprio signature dish dell’intero Gorini-pensiero il quale, partendo da una cottura eseguita con acqua di finocchio (estratta a freddo e aromatizzata con anice stellato, finocchietto e scorza di limone)  e passando per una mantecatura con burro acido, parmigiano e clorofilla di finocchietto e una base di limone ed estratto di camomilla, ha alternato la lunghezza amaricante della camomilla, la freschezza balsamica del finocchietto, la sapidità del formaggio, per chiudere con la gentile acidità del limone a pulire e rilanciare al boccone successivo. Né più né meno, insomma, che un piatto da KO tecnico.

Meritorio si è rivelato pure il capriolo marinato, salsa alla senape, cipolla di Tropea, olive di Taggia e frutti rossi, in cui l’acidità della marinatura si è perfettamente accordata per contrasto con la senape, trovando nell’aneto e nel cerfoglio una freschezza finale che ha nuovamente conferito lunghezza e pulizia al palato.

Sul versante dolci ci ha colpiti lo splendido Fucsia: rabarbaro al gin, crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, altro riuscito esempio di innesto d’acidità, questa volta attraverso la duplice natura dei lamponi, in sorbetto e frutto intero, a stemperare la crema di mandorle e ad accordarsi con la leggera patina amara del rabarbaro.

Leggermente inferiore alle aspettative il maialino di mora romagnola alla vaniglia, arachidi, carota e mostarda di agrumi, in cui la mostarda di agrumi è risultata poco incisiva nell’alternarsi al pur ottimo maialino. Ma è un dettaglio che non intacca la resa complessiva del pranzo.

Non possiamo che dirci, insomma, piacevolmente soddisfatti dell’esperienza e ci auguriamo questo sia l’inizio di un percorso che, ne siamo certi, avrà ancora molte gioie da regalarci.

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La materia prima innanzitutto, sull’Appennino romagnolo, a San Piero in Bagno

La libertà di essere esattamente dove si vorrebbe essere, di fare esattamente quello che si vorrebbe fare come lo si vorrebbe fare, senza nessuna costrizione o un semplice condizionamento: tutto questo spesso è ciò che serve affinché uno chef compia il fatidico passo definitivo verso l’affermazione. È senz’altro stato così per Gianluca Gorini. L’abbandono de Le Giare – dove comunque già aveva saputo impressionarci – le riflessioni sul futuro e infine l’approdo a San Piero in Bagno, nei locali rinnovati di quella che fu una delle più note locande dello stivale, finalmente in una struttura tutta sua. Una località un po’ lontana da qualsivoglia centro urbano, ma perfetta per la concretizzazione di un’idea ben precisa, fatta di strettissimo legame con il territorio e i suoi abitanti. Un microclima ideale per la fauna, ancora relativamente vicino al mare, moderatamente in altitudine, ricchissimo di verde, e poi il contatto diretto e costante con piccoli produttori, allevatori, cacciatori in grado di mettere a disposizione una materia prima di vertiginosa qualità. E ancora il controllo diretto sulla filiera, sulle quantità e sulle tempistiche. Tutto contribuisce a gettare delle basi già di per sé solidissime.

E poi c’è la cucina, altrettanto solida, una di quelle che una tale materia la sa valorizzare: l’esperienza loprioriana si fa sentire nella perizia della costruzione gustativa e della valorizzazione della materia protagonista dei piatti, con esiti indubbiamente meno estremi rispetto all’esperienza senese, ma certamente non meno originali. Ma forse ancor più evidente, pur nell’affermazione di una personalità propria ben distinta, è l’affinità con certi esiti pariniani (i due sono amici e sono stati tra l’altro protagonisti, a metà maggio, di una spettacolare cena a quattro mani), indubbiamente nella territorialità della materia prima, nelle cotture sempre rispettosissime del prodotto, nell’energico slancio improvvisativo, ma soprattutto nella poliedrica e millimetrica gestione della componente vegetale, sia essa data dall’utilizzo di spezie, erbe, verdure o frutta, e in qualsivoglia forma, preparazione o procedimento di conservazione. Un esercizio mai fine a se stesso, ma decisivo alla costruzione del piatto: consistenze, sviluppo verticale e orizzontale, persistenze, suggestioni dolci, acidule, erbacee, amaricanti, non sembrano esserci limiti alle possibilità offerte. E laddove un cuoco riesce a dominare una materia tanto variegata e complessa con una simile limpidezza e naturalezza, non possiamo che applaudire.  E se il punteggio complessivo rispecchia ancora, a titolo prudenziale, malgrado l’evidente ulteriore crescita riscontrata, la precedente valutazione, ve lo diciamo senza se e senza ma: alcuni dei piatti assaggiati durante le nostre ultime due visite distanziate di circa un mese, presi singolarmente, se la giocano già con disinvoltura al livello superiore, e non mancheremo di seguire con costanza ed estrema curiosità gli ulteriori sviluppi di questa interessantissima cucina.

Gli assoli nel piatto

Sala gestita con un perfetto equilibrio tra empatia e professionalità, tempi di servizio puntuali, rapporto qualità/prezzo encomiabile e carta dei vini corretta e ben prezzata, seppure ancora meritevole di crescita soprattutto in ambito “naturale”.

Passando alla carrellata dei piatti assaggiati, dopo il benvenuto della cucina, che costituisce già una dichiarazione di intenti, l’apertura con una superba Battuta di daino è già segnale inequivocabile che qui con la materia prima si vola altissimi. Di consistenza fondente, quasi burrosa e di sapore delicatissimo, intelligentemente accompagnata con limpida discrezione dalla cucina.

Il successivo Carciofo arrosto con salsa di carciofi, capperi salati e polvere di tè matcha ha tutti i crismi per costituire un piatto che ben difficilmente potrà essere tolto dalla carta: diversificazione texturale (esterno croccante, interno quasi fondente), vivacità gustativa (sapidità del cappero, tannicità vegetale delle foglie esterne) e sviluppo orizzontale (polvere ad apportare ulteriori note amaricanti e lunghezza al palato). Merita una menzione il Mandorlato di baccalà con resina di rosmarino (estrapolato da una seconda visita), che ci ha entusiasmato per la stimolante soluzione texturale e per la sua poliedricità gustativa (iodicità, balsamicità, dolcezza, persistenza molto prolungata), che ne permetterebbe il posizionamento in più punti di un ideale percorso.

Pasta e risotto all’insegna di una golosità più marcata, sempre tuttavia ravvivata da soluzioni vivacizzanti e direzionate a uno stimolante nitore gustativo. L’anguilla cotta alla brace, radicchio marinato all’aceto di pinot nero, riduzione di vino rosso e salsa allo scalogno svolge perfettamente, con le sue note amarognole e acetiche, il suo ruolo di reimpostazione palatale prima dei secondi di carne, all’insegna di un Agnello arrostito profumato alla camomilla con fave, lattuga, pinoli tostati e zenzero, dallo sviluppo orizzontale discreto, ma apparentemente infinito, e da uno spettacolare Piccione allo spiedo, estratto di alloro e cipolla fondente, le cui note leggermente amarognole derivanti dal breve passaggio su griglia romagnola, ulteriormente amplificate da un estratto di alloro fantastico, trovano l’ideale contrappunto nelle suggestioni dolci/acide di una cipolla in parte fritta, in parte presentata sotto forma di spuma con una riduzione di aceto e vino bianco).

Menzione d’onore per la Lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino (estrapolata da una seconda visita), variazione di quel piatto che già ci aveva entusiasmato in altra preparazione in occasione della visita di poco seguita all’apertura del locale: di nuovo all’insegna di una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e di una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali da vero fuoriclasse.

A conclusione della parte salata, uno spaghetto mantecato al burro di genziana, caciotta, scorzetta di bergamotto candito, la cui potente nota amaricante stemperata e nel contempo veicolata dall’amido, cui la freschezza del bergamotto funge da legante, ben reimposta e predispone alle chiusure dolci le quali, pur muovendosi su campi più canonici, si fanno apprezzare per freschezza e quasi totale assenza di stucchevolezza.

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