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I migliori piatti di pasta del 2024

Un vessillo della cucina italiana

Come di consueto, Passione Gourmet riserva uno spazio esclusivo alla celebrazione della pasta, presentando il suo annuale wall of fame. Ogni formato e preparazione, che si tratti di pastasciutta, sfoglia all’uovo o dell’impasto più essenziale di acqua e farina, rappresenta un’espressione di una cultura culinaria profondamente radicata nel territorio e nella tradizione. Dietro ciascun piatto si cela un’analisi approfondita, un’arte che intreccia tecnica, memoria e un’interpretazione contemporanea. Questo elenco nasce per narrare tali storie e per dare voce a produttori, artigiani e grandi cuochi che ogni giorno trasformano ingredienti semplici in qualcosa di memorabile.

Con questa filosofia e qualche giudizio unanime da parte dei nostri autori, anche quest’anno ci accingiamo a celebrare i piatti di pasta per noi più emblematici del 2024.

Orazio Vagnozzi

Fusilli, lattuga romana, ostrica e ruta – Antonia Klugmann – L’Argine a Vencò

Piatto incredibile perché gioca sulla contrapposizione tra le note marine, molto intense, date dall’ostrica, controbilanciate dall’erbaceo e “acquosità” della lattuga e l’amaro della ruta a dare una colonna amara a cui il resto si lega.

Leonardo Casaleno

Fusilli cotti 84 ore, conservati in mostarda di datteri e Lagavulin e tartare di piccione – Riccardo Camanini – Lido 84

Più che rimuginare sulla veridicità delle 84 ore di cottura dei fusilli serviti al Lido 84 o sul ruolo che questo dettaglio gioca in un racconto sapientemente costruito per incantare i commensali che si riversano da tutti gli angoli del pianeta in quel di Gardone Riviera, sarebbe meglio focalizzarci sulla vera essenza del piatto di Riccardo Camanini che è una summa di innovazione tecnica, complessità di pensiero e versatilità gustativa. I Fusilli marinati in mostarda e Lagavulin, accompagnati da una tartare di piccione e il suo fondo, sono qualcosa che non si può ignorare. Un piatto in cui la pasta, scotta ma con una struttura callosa da sembrare al dente, è protagonista, comprimaria, contorno e supporto, tutto in uno come un attore che interpreta molteplici ruoli in un film corale. Che poi sono solo quei due fusilli a garantire un assaggio che rimarrà impresso nella memoria.

Antonio Sgobba

Penne all’arrabbiata di prugnole, prezzemolo e acciughe – Gianluca Gorini – DaGorini

Le penne all’arrabbiata reinterpretate dal genio e dall’irriverenza di Gianluca Gorini. Dalla ricetta originale, lo chef, mutua il formato di pasta e la decisa nota piccante a cui si aggiungono le prugnole selvatiche dal gusto lievemente aspro e il prezzemolo disposto in foglie a ricordare le tavole di qualche decennio fa e a chiudere il boccone con la nota dolce che dà respiro al palato.

Claudio Persichella

Cappelletti con pasta di olive amare, ricci e burro all’arancia – Davide Di Fabio – Dalla Gioconda

Pugno di ferro in guanto di velluto in un piatto che rappresenta emblema di sensibilità e capacità tecniche di quel gran chef che è Davide Di Fabio con note sapide, iodate e sull’amaricante andante che si intrecciano in modo da restare assai piacevolmente impresse.

Giovanni Gagliardi

Brodo speziato e raviolini di germano reale – Nicola Portinari – La Peca

La Peca è una grandissima tavola di tradizione e di  territorio. La cucina di Nicola Portinari è personale, forse perché non ha avuto maestri, impermeabile alle mode, capace di passare dal mare alla selvaggina con grande naturalezza. Quest’anno voglio premiare i suoi Raviolini di germano reale, immersi in un brodo di cacciagione che regala durata e profondità ad un piatto impressionante per concentrazione di sapore.

Andrea Mucci

Le fronne di rosa – Lucio Testa – Contrasto

Con lo sguardo rivolto all’indietro verso un classico delle tavole d’antan del Molise, le Fronne di rosa dello chef Lucio Testa si rivelano sublimi, bilanciate tra le verdi ortiche e la cicoria. Ma non solo, perché il sapore amarognolo del condimento di pesto al levistico ne allunga con massima piacevolezza l’onda, mentre la cotenna soffiata smussa il tutto. Un coro unanime di gran bei sapori, tutti ben armonizzati al palato. Proprio il caso di dire: un amaro che sorprende.

Andrea Solari

Tagliatella metodo Massi, ragout di pernice e tartufo nero – Mauro Uliassi – Uliassi

Un intermezzo di grande classicità nel sempre al passo con i tempi Lab 2025, ma la perizia dello chef marchigiano in questa materia è indiscutibile.

Alessandra Vittoria Pegrassi

Agnolotti di ossobuco – Enrico Croatti –  Moebius Sperimentale

All’interno di un bellissimo carré di vetro trasparente a mezz’aria, negli spazi di un ex opificio rimaneggiato e accomodata al piacevole banco sociale di Moebius Sperimentale, mi hanno sedotta gli Agnolotti ricolmi di ossobuco, ad opera del romagnolo e travolgente Enrico Croatti che qui congiunge ad hoc, il Piemonte alla Lombardia, incarnando la loro fusione ideale grazie alla ricchezza della farcia bilanciata dalla delicatezza della pasta fresca ingolosita da una poderosa crema allo zafferano.

Carlo Nicolò

Pasta e Verza – Niko Romito – Reale

Una pasta che incarna appieno i concetti di assoluto ed essenziale, ormai capisaldi della filosofia culinaria di Niko Romito. Un ritorno alle origini, ai sapori amari contadini sferzanti, decisi e incisivi con l’innesto del rafano che dona la giusta piccantezza e un’infinita goduriosa profondità di gusto. Servita asciutta con affianco un brodo denso che sembra di carne ma che, invece, è realizzato con foglie di verza essiccate; da mangiare alternando un boccone di pasta e un sorso di brodo per ricordare una pasta in brodo non in brodo.

Claudio Marin

Fusilloni 84 ore conservati in mostarda e Lagavulin, colombaccio crudo e suo fondo (con foie gras) – Riccardo Camanini – Lido 84

Riccardo Camanini riesce a ricondurre a unità elementi e influenze che si direbbero inconciliabili. Un piatto, questo, che della pasta stravolge la struttura materica, la presunta funzione e la consuetudine dei comprimari. A ogni nuovo assaggio (e, quindi, con il protrarsi del tempo di conservazione della pasta nella mostarda) gli equilibri gustativi mutano meravigliosamente, con le note piccanti che lasciano spazio a una sempre crescente rotondità, controbilanciata dall’aggiunta di una foglia di rucola inizialmente non presente  (un piatto mai uguale a sé stesso). 

Danilo Giaffreda

Pasta con le sarde – Dario Fisichella – Villa Naj

E’ il piatto che chiude la degustazione da nove portate denominata Viaggio prima del dessert. Una scelta coraggiosa talvolta non compresa per via della sua robustezza. Eppure è la carta d’identità dello Chef che qui, nell’Oltrepò, ha infuso nei suoi piatti non poco della sua sicilianità. Ma se altrove le radici si limitano ad affiancare o innervare ingredienti e suggestioni dell’Oltrepò, nella Pasta con le sarde, solare e intensa, l’omaggio è inequivocabile e di grande effetto.  

Davide Bertellini

Non dire cassate – Karime Lopez e Taka Kondo – Gucci Osteria

Il piatto concepito da Karime Lopez e Taka Kondo di Gucci Osteria Firenze parte chiaramente dal dolce tipico siciliano in cui i medesimi ingredienti sono rielaborati per creare un piatto di pasta che viene cotta in un brodo di dashi e acqua di pomodoro e poi viene finita in padella con un pesto di pistacchio, crema di mandorle e del cedro candito. A completare il piatto della ricotta salata affumicata al tè Lapsang Souchong. Un piatto che rompe gli schemi e propone la pasta in una versione tutt’altro che tradizionale.

Eugenio Marini

Linguine Cavalieri, pomodoro fermentato, peperone, ostrica – Valentina Rizzo – Farmacia dei Sani

A vederla così, sembra una classica «pasta al sugo», avvolgente comfort food all’italiana. E invece, già dall’olfatto che richiama il peperone, si scopre altro. La Chef Valentina Rizzo porta agli estremi una caratteristica del pomodoro da sempre temuta nelle case, l’acidità, mostrandone la dirompenza per mezzo di una latto-fermentazione. Dalla spinta iodata dell’ostrica grattugiata — l’illusione del formaggio — si giunge a una combo agro-esplosiva tanto scomoda quanto seducente.

Fiorello Bianchi

Fusilloni 84 ore conservati in mostarda e Lagavulin, piccione crudo e suo fondo – Riccardo Camanini – Lido84

Se si ha la fortuna di varcare il cancello del Lido84, Riccardo Camanini ti fa salire su un’altalena dalla quale, come un bambino, non vorresti mai scendere, con Oscillazioni (titolo menù degustazione) ampie, vertiginose, adrenaliniche. Piatto strabiliante il Fusillo ‘cotto’ per 84h: un fusillo in mostarda di datteri e whisky Lagavulin, con tartare di piccione e salsa al foie gras. Un piatto che rivela una dolcezza profonda o meglio una profondità nella dolcezza, in termini di complessità, che lascia senza parole. 

Giampiero Prozzo

Spaghetto, Ghiande, Caffè, Tabacco, Orzo – Salvatore Bianco – La Terrazza

Da soli sei mesi a capo di una folta brigata giovane e motivata, Salvatore Bianco attraverso i suoi due menù ristora, diverte e convince. Tra i piatti che già si prefigurano quali signature del suo nuovo corso c’è lo Spaghetto. Pulizia al palato, crescendo di intensità dal primo impatto olfattivo all’ultimo boccone, grassezza che si risolve in un retrogusto persistente ed elegante. Ma la vera sorpresa è l’invenzione. L’interazione degli elementi a ricostruire quello che non c’è: il tartufo.

Giacomo Bullo

Spaghetto inoculato, prugnoli, cardoncello e crema di nocciole – Michele Valotti –  La Madia 

Il nome del locale ne racchiude stile e contenuto: La Madia. Situata nella borgata montana di Brione, nelle prime alture bresciane, è lo scrigno del cuoco autodidatta Michele Valotti. La sua cucina riflette l’indole di questo cuoco dannatamente curioso e sperimentatore, sparigliando le carte conosciute fino ad un attimo prima per il singolo ingrediente.  L’elemento vegetale è il preferito, manipolato con intelligenza per rivelare acidità inaspettate e sfumature amaricanti. Lo Spaghetto inoculato, prugnoli, cardoncello lattofermentato e crema di nocciole fa risuonare vibrante l’identità di una frittata di pasta grazie alla sua arrostitura, su cui innestare una nuova carnosità del cardoncello abbinando alla nobile untuosità della pasta di nocciola. Il tocco finale dell’origano di montagna riporta ad un classicismo tutto mediterraneo di rara fattura. Frittata di pasta Reloaded! 

Gianpietro Miolato

Linguina, seppia e finocchietto – Francesco Sodano – Famiglia Rana

Francesco Sodano compone un piatto che regala al palato una nota appagante e golosa senza scadere in facili accondiscendenze, grazie all’equilibrio tra le note iodate e la consistenza tattile della parte ittica, e il rilancio balsamico finale che prepara il palato al boccone successivo. Eleganza, un pizzico di avanguardia e una tecnica non meno che millimetrica al servizio del cliente, nella piena celebrazione degli ingredienti della portata proposta. Un piccolo capolavoro.

Gianluca Montinaro

Da Gragnano a Bangkok – Massimo Bottura – Osteria Francescana

Cosa c’è di più “italiano” e di più emblematico di uno spaghetto al pomodoro, piatto che è il totem per eccellenza della nostra tradizione nazionale? Guai a toccarlo, sotto pena di scomunica! E proprio per questo solo un genio come Massimo Bottura poteva “rileggerlo” e farlo diventare “altro”: uno spaghettino tiepido con cinque pomodori (Ciliegino, Datterino, San Marzano, Cuore di bue, Giallo) con basilico thai, zenzero e succo di cocco. In un incontro fra Occidente e Oriente, che si rivela essere esplosione di profumi e di sapori, di gusto e di piacere!

Gherardo Averoldi

Suono N’uovo – Massimiliano Alajmo – Le Calandre

La masticazione quale veicolo sonoro e il suono quale completamento dell’esperienza gastronomica. Dotato di tappi per orecchie e ad occhi chiusi il commensale potrà immergersi, in maniera quasi ipnotica, nella materia attraverso la stimolazione mandibolare derivante dal guscio polverizzato, unito all’impasto della classica pasta all’uovo. Completano il piatto la fonduta di castelmagno, le erbe aromatiche sbriciolate e un brodo doppio di gallina in accompagnamento.

Valerio De Cristofaro

Spaghetto con fondo di triglia, foie gras spadellato e caviale – Massimo Viglietti – Relais le Jardin

La corona del miglior piatto di pasta 2024 va allo Spaghetto con fondo di triglia, foie gras spadellato e caviale proposto da Massimo Viglietti. Mangiando questo piatto sembra di ascoltare la marcia trionfale dell’Aida. Un piatto dalla spiccata opulenza, ma dall’incredibile equilibrio. La presenza del fondo e della complessità carnosa del fois gras sono squisitamente alleggeriti dalla sapidità del caviale. La ricchezza non viene sprecata, ma sapientemente armonizzata in un glorioso trionfo di sapore. Opulenza allo stato puro. Spaghetto con fondo di triglia, fois gras spadellato e caviale. Sicuramente ostentante, ma nulla è sprecato o lasciato al caso.

Gianni Revello

Salsa verde, pacchero e ristretto di maiale – Carlo Cracco e Luca Sacchi – Cracco

La pasta in Italia è feticcio. Il vantaggio è che con poco conforta. Il problema è che stordisce. Come risolvere? Mangiandone poca, d’alta qualità e in piatti dov’è… contorno! Vedi il capolavoro di Cracco-Sacchi, di pura derivazione marchesiana, due paccheri due, bolliti, dai quali appena spunta poco ristretto di maiale alla brace, ma protagonista assoluta la salsa verde, acidità e ancor più evidente, spiccata, la parte balsamica del prezzemolo!

Luca Turner

Suono N’Uovo – Massimiliano Alajmo – Le Calandre

Il genio è anche guizzo ed intuito. Se questi poggiano su solide basi esperienziali e creative possono sfociare nella realizzazione di un piatto che tende a resettare i parametri dei sensi coinvolti. Vista, gusto, olfatto, tatto, e …udito. Massimiliano Alajmo è andato oltre e ha concepito Suono N’Uovo, una tagliatella che sciaborda alla masticazione. Quasi un chiudersi con il proprio IO, occhi chiusi, orecchie tappate (sì, si mangiano con i tappi alle orecchie); un’immedesimazione ancestrale che riporta il gusto al senso della memoria più profonda.

Leila Salimbeni

Mare di plastica – Gianfranco Pascucci – Pascucci al Porticciolo

Un piatto buonissimo non solo al gusto ma anche alla masticazione: il morso al fusillo oppone resistenza per poi sfaldarsi nell’umami salivante, elettrizzante del nero di seppia, così come fa la seppia stessa, callosa. E benché il suo signature dish sia ormai conosciuto a tutte le latitudini, ancora si rinnova l’attualità a ogni assaggio, forte al palato come forte è il messaggio: 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno negli oceani (secondo quanto riportato da Overview WWF). E Pascucci, che di mare ci vive e fa vivere, cosparge il piatto di una pellicola trasparente di obulato (il foglio di amido della cucina giapponese) per un effetto mimetico che, attraverso il piacere, fa anche riflettere.

Pascoli e Casadei a casa Gorini

L’olio cantò con murmure sommesso; un acre odore vaporò per tutto. Fumavano le calde erbe da presso, nel tondo ch’ella inebbriò del flutto stridulo, aulente; e poi nel canovaccio nitido e grosso avviluppava il tutto.” Con queste due terzine cristalline, rubate a Giovanni Pascoli, il poeta traccia sentori, umori e gesti di quel “desinar” romagnolo che si trova ben raccontato nel titolo, omonimo, di questa sua poesia. Si percepiscono nettamente, in una sequenza squisitamente descritta, gesti e i suoni che permeano le parole scelte. Partendo da tali, preziosi versi, inquadriamo dunque la nostra ultima visita, in veste primaverile, al ristorante daGorini.

È stagione volubile la primavera. Abbacinata dai primi soli e subito redarguita da repentini temporali. L’aria qui a San Piero in Bagno è tanto frizzante quanto brillante, come lo è il talento di Gianluca Gorini che del luogo ne ha fatto prima che impresa, anche famiglia. Dal parcheggio alla soglia, le facciate di pietre delle case, con le loro vie, sono i letti sui cui scorre goloso l’aroma di brace che scaturisce dalla prolifica cucina. L’aroma segna la rotta, difficile sbagliarsi, di materia e dimora: capisaldi su cui il talento di questo cuoco ci ha abituati, ma non assuefatti. La stagione in questione per il suo nuovo menù sembra essere diretta emanazione del carattere di Gorini, gentile ma al contempo robusto, intellegibile eppur tecnicamente complesso. Proprio come le n-mila sfumature dello stesso, impetuoso verde, che cangiante dipinge le colline dell’Appennino tutt’intorno, l’istinto di Gorini è in grado di mutuare concretezza dalle esperienze e dal luogo in cui opera. Parafrasando il tutto in una rosa di eloquentissimi piatti.  

Multiforme bravura

In questa tornata vogliamo prendere in esame ben sei vivande, utili a raccontare la multiforme bravura di Gianluca Gorini. Il Fritto misto di erbe, foglie e fiori è antologico per la perfetta esecuzione, quanto vario negli elementi impiegati: ortica, borragine, tarassaco, piantaggine, timo limone, prezzemolo, salvia, finocchio selvatico e fiori di acacia. A volo d’uccello su un prato primaverile, con una tempura eterea ma deliziosa nel preservare gli olii essenziali di ciascuna delle erbe, regalando bocconi dal gusto unico. Dopo il fritto, la cadenza impenna con l’Insalata di albicocche in conserva, estratto di mandorla, mandorla verde, limone alla brace, stridoli e sambuco. Esercizio sull’amaro vigoroso dove la succulenza perduta dell’albicocca funge da dolce fondale per l’astringenza tannica della mandorla fresca e ben estratta. Emblema di una nuova primavera in partenza. La citronette al vermouth e i fiori di sambuco alla brace amplificano la vegetale amara rilevanza su cui tutto il piatto poggia, offrendo una versione heavy-metal di San Piero in Bagno. Quanto alla personale pasta ripiena di Gianluca, abbandonate le pieghe romagnole del cappelletto accogliamo stavolta le sembianze tondeggianti di una sorta di Anolino emiliano. Qui ripieno di cacciagione e immerso nel brodo di funghi, alghe, spuntature e prugnoli. Piatto confort rinverdito dal fresco apporto di soia e zenzero, a regalare ficcante pungenza. In più, grazie al primaverile prugnolo aggiunto a crudo il piatto amplia ulteriormente l’orizzonte verso Oriente, evocando masticazione shabu – shabu, e riscrive il contrappunto carnoso/vegetale nella polifonica struttura della portata. Quanto ai secondi, il Lombo e fegato di cervo in stile Wellington cesellati dalla salsa poivrade, fatta come si deve, esibiscono la grande e maniacale attenzione di Gianluca per le cotture della cacciagione. La mimesi di consistenze tra le due parti del cervo, tanto distanti quanto uniformi nella loro cottura in sfoglia, rivela la proporzione aurea su cui questa forma di Wellington in salsa Gorini è costruita magnificamente.

Ma se dei pre-dessert abbiamo già scritto, appare impossibile non citarli anche stavolta. Di fatto, al servizio del Colombaccio seguono le sue consuete frattaglie, qui appena scottate e timidamente coperte dalla spuma di Barolo chinato e uva fragola. Il risultato è sorprendente poiché le interiora in cottura abbinate all’uva fragola sembrano, in dimensione e consistenza, degli acini. La carne trascende dunque a regno vegetale, e profonda introduce al capitolo dolce grazie all’impiego aromatico della china calissaja e della genziana, resettando il palato per l’atto finale. La pasticceria trova così completezza spaziando sui grandi classici come la Zuppa inglese, fino ai Nuovi asparagi arrostiti alla vaniglia, polline, ricotta e dragoncello. La variante vegetale ritorna anche qui sfruttando la dimensione dolce e minerale dell’asparago atto a reggere la soffice ricotta e il più balsamico gelato al dragoncello.

Così, se abbiamo scomodato il grande Pascoli all’inizio, senza farci mancare un pizzico di ironia dissacrante citiamo in chiusura invece uno tra gli storici bardi romagnoli della musica, Casadei. Con Gianluca Gorini, DaGorini, nella tua casa ancora una volta “Lontan’ da te, Non si può star!”.

IL PIATTO MIGLIORE: Frattaglie, succo d’uva e Barolo chinato.

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Un ristorante che conquista senza compiacere

Un talento puro, dotato di guizzi geniali: una descrizione ricorrente di Gianluca Gorini. Eppure, a ben vedere, l’innegabile estro del cuoco è solo una – seppur la più lampante – delle componenti  che fanno di “Da Gorini” un ristorante che conquista l’ospite. Infatti, la maturità ormai raggiunta si esprime – oltreché per il tramite di una cucina nitida, diretta e immediatamente riconoscibile – altresì attraverso un’offerta gastronomica originale, autentica, una felice commistione tra gli stilemi essenziali dell’alta ristorazione e il calore, nonché la compenetrazione con il territorio, propri delle migliori trattorie, un’influenza impressa nel DNA di famiglia.

In quest’ottica è impossibile non scorgere l’indissoluto legame con il dichiarato maestro, Paolo Lopriore, nonché il lascito della nostra storia culinaria, icone quali la mitica trattoria Cantarelli, capaci – attraverso un’affascinante commistione tra sacro e profano, tradizione e curiosità per il nuovo – di educare i palati di numerose generazioni. Un ruolo fondamentale è ricoperto da Sara Silvani, compagna di Gorini, straordinaria ambasciatrice delle creazioni del cuoco e abile come pochi nello “scorgere” i desideri e le inclinazioni di chi si siede alla tavola del ristorante. Il risultato ultimo è la bellezza di un luogo in cui ci si sente liberi di approcciare la cucina con leggerezza e divertimento, confrontandosi anche con piatti tutt’altro che semplici – rotondità eccessive e piacioneria qui non trovano spazio – senza quel pregiudizio o freno spesso indotti dalla soggezione che certi luoghi possono incutere.

Una cucina fatta di materia, contrasti e gesti

Il fulcro della cucina di Gianluca Gorini è la materia – di qualità fuori dall’ordinario – interpretata e valorizzata perlopiù attraverso la composizione di contrasti, l’utilizzo magistrale delle infinite sfumature dell’amaro e la gestualità, intesa come capacità del cuoco di intervenire – quando necessario – sull’ingrediente, talento quest’ultimo evidente soprattutto nelle cotture. Una conferma della sensibilità di cui si è detto è rappresentata da Tortello ripieno di mandorle amare, burro profumato al vermouth, albicocche acide e rosmarino, passaggio che sorprende per la capacità di individuare un perfetto equilibrio tra note amare, dolcezza, grassezza, la complessa aromaticità del vermouth, acidità e balsamicità: ogni singolo ingrediente è percepibile al palato, in una sequenza serrata e precisa. Una meraviglia è, poi, Trippa stufata con birra bitter, cervello poché, vongole e salsa alla marinara, con la sapidità della salsa a controbilanciare le note amare della trippa e le cervella a pulire il palato nonché a duettare, in termini di testura, con le interiora. Un piatto in cui il binomio mare-selva raggiunge un raro livello di sofisticatezza. In Spaghettone mantecato con pesto di montagna, crema di patate ed ostrica al naturale colpisce, invece, il felice accostamento tra le note balsamiche della resina di cipresso e l’ostrica, ingentilita dal rapidissimo passaggio in acqua bollente, tecnica presa a prestito dall’amico Mauro Uliassi (vedi “Insalata di ostrica, pesto di rucola, rucola, limone, borragine” del Lab 2022).

Ma Gorini è, poi, incredibilmente abile nella preparazione delle carni, come dimostra l’agnello in tre servizi (allevato da un artigiano straordinario, Michele Varvara), in cui il boccone cotto sui carboni eccelle in termini di cottura – maillard e la conservazione dei succhi da manuale – nonché di valorizzazione della proteina attraverso l’utilizzo di ingredienti vegetali, battuto di pomodori e olive affumicate, decisivi nell’elevare la complessità gustativa.

Da ultimo, non si può fare a meno di citare l’originalità dei pre-dessert, in questo caso Rognone di agnello, panna e fragole: ci si attende uno schiaffo e invece arriva una carezza, un binomio “anni ottanta” capace di levigare le asperità del rognone, un assaggio in cui – sulla lunghezza – prevale una dolcezza misurata, perfetta introduzione al fine pasto che, tuttavia, risulta quasi superfluo.

La Galleria Fotografica:

A casa di Gianluca

Balsamica. Pungente. Polifonica. Cromatica. Basterebbero questi quattro aggettivi per definire la cucina che Gianluca Gorini propone nel suo ristorante daGorini (sì, scritto proprio così, tutto attaccato). Basterebbero, e sarebbero apparentemente sufficienti per passare ad altro: a tracciare, per esempio, un ritratto dei singoli piatti. O a descrivere il calore degli ambienti. O a soffermarsi sull’atmosfera del locale… Eppure, dietro quell’errore di spaziatura che un proto avrebbe corretto con solerzia, si cela una valida chiave per tentare una disamina più complessa di un’esperienza ai tavoli di questo locale che, indubbiamente, spicca per personalità nel panorama di vertice della nostra italica ristorazione.

Perché, quindi, daGorini e non da Gorini? Cosa cela questa effrazione alla consuetudine grammatica? Il «da» segnala, secondo usi secolari che potrebbero essere codificati in un ipotetico vocabolario storico della ristorazione, una ‘sosta’. Una ‘sosta’ presso ‘qualcuno’ – in questo caso «Gorini» – che è il gestore o il proprietario dell’insegna. Un calore di casa, quindi, anima questi luoghi e, all’ospite, non resta che varcare la porta o, metaforicamente, il vuoto ‘spazio tipografico’ fra il «da» e il ‘nome’ di turno per ristorarsi e riposarsi dalle fatiche del viaggio e della vita.

La scelta fatta da Gianluca Gorini è, invece, altra, e non dettata né da iconoclastia futurista verso le regole e i dettami né tantomeno in spregio al viandante. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quei battenti per decenni hanno attraversato persone che giungevano anche da molto lontano per gustare i piatti che lì, proprio lì dove ora c’è daGorini, Giuliana e Moreno Saragoni proponevano in quella che un tempo era la loro Locanda del Gambero rosso, tempio indiscusso di ospitalità e civiltà.

«Questo è il luogo dove ho scelto di vivere e lavorare, con mia moglie e mio figlio», dice con sicurezza Gianluca Gorini. E, difatti, daGorini, calore umano e senso dell’accoglienza traboccano di stanza in stanza, avvolgendo l’ospite, tanto l’abituale quanto il saltuario, in una bella atmosfera di pace e convivialità. Un sentimento ulteriormente rafforzato dalla cortesia del servizio e da tutte quelle altre accortezze (come una bella carta dei vini, qui peraltro assai personale) che concorrono a rendere ‘grande’ una sosta.

Come interpretare, quindi, quello ‘spazio’ mancante che sembra ‘chiudere’ invece di ‘aprire’? La risposta può arrivare considerando la garbata timidezza di Gianluca, riflesso della sua profonda introspezione: nel suo ‘donarsi con ritrosia’ a chi giunge alla sua porta, proponendo il meglio della propria cucina. Quest’ultima è il precipitato del suo carattere: salda ma gentile, complessa ma comprensibile, sensibile ma razionale, emozionante ma rigorosa, impetuosa ma pacata. All’ospite, se davvero vuole goderne, è pertanto richiesto un piccolo sforzo, un po’ superiore rispetto al semplice, facile attraversamento di uno spazio ‘già’ vuoto. La soglia fra «da» e «Gorini» subito si squarcerà se solo ci si metterà ‘in sintonia’ con lo spirito della casa, cogliendone l’animo, rispettandone la sensibilità e aprendo la mente al piacere dell’esperienza.

daGorini: un grande futuro, ora e domani

daGorini non ci sono provocazioni né rivoluzioni, anzi. Il dettato gastronomico rimane, nella sua base classica e d’alta codificazione, intoccabile. Così, per esempio, l’animella di vitello è croustillant comme il faut e la sfoglia del cappelletto (siamo in Romagna: qui i tortellini non esistono) è tirata come azdora (massaia) comanda. Ma ciò che arriva in tavola è ‘altro’ rispetto a un rassicurante e opulento ris de veau in stile vecchio tre stelle francese o agli abituali cappelletti in brodo di cappone.

La nota ‘difforme’, che è poi la cifra stilistica daGorini risiede nella magistrale orchestrazione polifonica (e, si badi bene, non sinfonica) di molteplici sensazioni gusto-olfattive che virano i piatti su accenti fortemente balsamici, amari, acidi e piccanti. Se, quindi, la cornice rimane ‘consueta’, così come lo sono anche i soggetti principali delle composizioni, a scompaginare la notazione è l’ampio uso di erbe, radici, cortecce, spezie, semi, agrumi e fiori. Aromi e profumi presenti nelle pietanze tanto nella loro singola essenzialità quanto rielaborati, come – per esempio – nei casi dei «sassolini» di bitter che si ritrovano nel gambero rosa marinato in salsa ponzu con salsa del suo carapace, dragoncello e carpaccio di cocomero disidratato o dei vermut bianchi e rossi che fanno capolino, rispettivamente, nei cappelletti ripieni di cacciagione con composta di pesca acerba e fiori di gelsomino e nel semifreddo al raviggiolo con amarene sciroppate e croccante alle noci.

Il risultato è duplice: da un lato cornici e soggetti appagano a livello di centralità del gusto e piacevolezza complessiva. Dall’altro le difformità tengono allerta la bocca sfuggendo facili rotondità. D’altronde è lo stesso cuoco, in apertura della sequenza, a dichiararlo senza infingimenti, servendo una ‘rossissima’ minestra di frutta e verdura (cocomero, susina, lampone, ciliegia, cavolfiore, ravanello, scalogno…) in diverse lavorazioni (a freddo, marinate, fermentate, ecc.) e consistenze, con estratto di susine alla verbena e bottarga: «Questo piatto serve a risvegliare le papille gustative».

Da questa scarica percettiva, che apre lo spazio fra il «da» e «Gorini», il percorso è poi tutto ‘in discesa’: fra rosse e verdi – le pietanze si susseguono da un erbaceo risotto al finocchio con estratto di camomilla e pasta di limone (con la nota della clorofilla in primo piano) a quella animella con sedano croccante, insalatina di rucola e acetosella e fiocchi di canapa sino a un complesso e appagante filetto di trota alla brace ripassato in aglio, olio e peperoncino, con insalata di melone e carota, semi e mandarino piccante, e la sua pelle croccante.

Le reiterate pungenze, variamente declinate che, quasi, non forniscono tregua al palato, appaiono smorzate solo in due casi, quasi due tappe ‘defaticanti’. Dal grasso distendersi delle lumache gratinate al verde (con la loro consistenza ‘cremosa’ ma comunque vivificata da un magistrale pesto di cipresso) con pancetta croccante e foglie verdi e dalla succulenza di un agnello di eccelsa qualità proposto in più servizi (costoletta cotta sui carboni con miso d’orzo, salsa all’aglio dolce e timo; spiedino ripieno delle sue interiora con cumino e paprica; pancia brasata; spiedino di lingua; il tutto accompagnato da «contorni all’italiana»: cipolline sottaceto con polvere d’alloro; millefoglie di patate croccanti e fondenti; funghi galletti saltati).

In chiusura si vira di nuovo sul ‘rosso’: Fucsia, ovvero zuppetta di rabarbaro al gin con crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, come a ricordare che il viaggio si conclude costantemente da dove si è partiti, ma sempre con una maggiore consapevolezza e una maggiore conoscenza.

Consapevolezza e conoscenza che Gorini, trentotto anni appena, dimostra di acquisire ogni giorno di più, e che probabilmente porteranno la sua ricerca verso traguardi ancora maggiori. Dire che direzione imboccherà è, forse, al momento un azzardo, ma lo studio che Gianluca sta compiendo sui tanti prodotti di questo territorio incuneato fra Romagna, Marche e Toscana, un abbozzo di percorso pare già lo stia tracciando. Un sentiero che potrebbe dipanarsi sulla falsariga di quello di altri cuochi – ora nell’empireo della ristorazione – che, dopo aver tanto sperimentato e dopo essersi rapportati con mode e modi anche assai lontani, si sono rivolti alla loro terra e alle loro tradizioni (Massimo Bottura, Norbert Niederkofler, Ciccio Sultano et Mauro Uliassi docent), rielaborando la prima e riempiendo di nuova linfa la seconda, alla luce di una gioiosa contemporaneità.

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La tradizione rivisitata di Gianluca Gorini

Nonostante la giovane età (37 anni), Gianluca Gorini vanta un curriculum di prim’ordine: in cucina da quando di anni ne aveva 15, sui fornelli del ristorante di famiglia, lo chef marchigiano (o come ama definirsi lui: “cuoco”) completa la propria formazione presso le importanti realtà di Paolo Teverini, Francesco Bracali, Paolo Lopriore, ma anche al Monsieur Max di Alex Bentley, a Londra.

Ristabilitosi in Italia, l’anno di svolta è il 2013, quando prende in mano le redini de Le Giare, a Montiano. L’esperienza dura fino al 2017, momento in cui Gorini rileva l’ex locanda Gambero Rosso a San Piero in Bagno e la trasforma nell’odierno DaGorini, che conduce con successo coadiuvato dall’aiuto, in sala, della moglie Sara Silvani. Il connubio può dirsi oltremodo riuscito: a novembre 2019, a meno di due anni dall’apertura, è infatti giunta l’assegnazione della prima stella Michelin.

L’inquadramento di cui sopra non è semplice aneddotica, ma è strumento utile a definire il tipo di personalità che anima la sua cucina: coraggiosa nel puntare su una reinterpretazione della tradizione filtrata attraverso l’originale registro dell’alternanza tra acido e amaro, ma al contempo lucida nel garantire riconoscibilità e immediatezza al fine di non spiazzare il commensale. A ciò si unisce, poi, un uso della componente vegetale tutt’altro che marginale, ma teso a creare un vero e proprio sostrato di gusto tra le portate.

Tra acido e amaro, un percorso con piatti coraggiosi e indimenticabili

Nel corso della nostra visita abbiamo avuto modo di vivere un percorso felice e riuscito, in cui l’indiscutibile padronanza della tecnica ha dato vita a piatti tanto ragionati a livello ideale quanto precisi a livello palatale.

La portata simbolo è stata senza dubbio il risotto al finocchio, estratto di camomilla e limone, vero e proprio signature dish dell’intero Gorini-pensiero il quale, partendo da una cottura eseguita con acqua di finocchio (estratta a freddo e aromatizzata con anice stellato, finocchietto e scorza di limone)  e passando per una mantecatura con burro acido, parmigiano e clorofilla di finocchietto e una base di limone ed estratto di camomilla, ha alternato la lunghezza amaricante della camomilla, la freschezza balsamica del finocchietto, la sapidità del formaggio, per chiudere con la gentile acidità del limone a pulire e rilanciare al boccone successivo. Né più né meno, insomma, che un piatto da KO tecnico.

Meritorio si è rivelato pure il capriolo marinato, salsa alla senape, cipolla di Tropea, olive di Taggia e frutti rossi, in cui l’acidità della marinatura si è perfettamente accordata per contrasto con la senape, trovando nell’aneto e nel cerfoglio una freschezza finale che ha nuovamente conferito lunghezza e pulizia al palato.

Sul versante dolci ci ha colpiti lo splendido Fucsia: rabarbaro al gin, crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, altro riuscito esempio di innesto d’acidità, questa volta attraverso la duplice natura dei lamponi, in sorbetto e frutto intero, a stemperare la crema di mandorle e ad accordarsi con la leggera patina amara del rabarbaro.

Leggermente inferiore alle aspettative il maialino di mora romagnola alla vaniglia, arachidi, carota e mostarda di agrumi, in cui la mostarda di agrumi è risultata poco incisiva nell’alternarsi al pur ottimo maialino. Ma è un dettaglio che non intacca la resa complessiva del pranzo.

Non possiamo che dirci, insomma, piacevolmente soddisfatti dell’esperienza e ci auguriamo questo sia l’inizio di un percorso che, ne siamo certi, avrà ancora molte gioie da regalarci.

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