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Enigma

Il ritorno di Albert Adrià e la ricerca di un nuovo baricentro

Vi è stato un momento in cui abbiamo temuto che l’epidemia avesse messo la parola fine a un capitolo fondamentale della storia della gastronomia: la dissoluzione della galassia “El Barri” deve aver sicuramente toccato nel profondo Albert Adrià che, però, ha fortunatamente trovato lo stimolo per riaprire la punta di diamante della sua enclave, Enigma. Il nuovo corso non rappresenta tuttavia il tentativo di fingere che nulla sia accaduto, al contrario si percepisce nitidamente il desiderio di ripensare l’offerta gastronomica, un percorso che – al momento della nostra visita – non era ancora giunto a un esito definitivo. Il confronto con il “vecchio Enigma” evidenzia l’eliminazione delle “tappe” – compresa la parentesi iniziale nipponica – e un maggior numero di coperti in sala (leggermente chiassosa); dopo una prima fase alla carta si è invece tornati a un unico menù degustazione.

Dalla frammentazione alla sintesi

Il ripensamento di cui si è detto riguarda anche – soprattutto e necessariamente – la cucina in senso stretto, tant’è che il percorso attuale, se “visto dall’alto”, fa trasparire la volontà di fornire una ricostruzione unitaria del complessissimo pensiero di un cuoco che ha vissuto infinite fasi e dettato rivoluzioni. I ristoranti di cui era composto il gruppo di “El Barri” consentivano ad Albert Adrià di frantumare l’intreccio, l’Enigma di oggi invece è sintesi, con un unico filo conduttore rappresentato dall’ingrediente, il fulcro intorno al quale ruotano le diverse modalità di rappresentazione. In questa prospettiva, si parte dalla citazione de El Bulli – i Ravioli liquidi di earl grey tea – , passando per momenti più golosi e tondi (ma non per questo meno interessanti) – come Dadinho di tapioca e formaggio con riccio di mare e Zuppa di pollo e cocco all’orientale gelatinizzata e riccio di mare – per culminare in esercizi di genialità, ammiccamenti all’appassionato: Asparago, merluzzo e salsa pil-pil – l’asparago in due cotture (bollito e al forno: tecnica micidiale, non esibita) e il merluzzo sintetizzato nella testura gelatinosa della pelle e nella salsa (le due anime del prodotto secondo la tradizione spagnola) -, Piselli lacrima di Maresme con siero di mozzarella e aria di rosa – elogio alla sensibilità nei confronti dell’ingrediente – Spaghetti freddi di basilico con dashi e Iyomozarella –  due capisaldi di tradizioni gastronomiche fondamentali (spaghetto al pomodoro e soba) ricondotte ad unità con naturalezza e credibilità sbalorditive (ci sono la gestualità, l’umami del brodo così come del pomodoro, la parte olfattiva..) -, Midollo di tofu e brodo di carne – il sapore del midollo è nel brodo mentre la testura è nel tofu – e Kuzusuizen con salsa di inchiostro di calamaro – anche qui, il calamaro è solo nella salsa, la testura è data dal kuzu (salta alla mente il calamaro del Lab 2020, insuperato).

La parte finale – dolce – del percorso avrebbe forse potuto osare un po’ di più. A distanza di un mese e mezzo dalla cena, la gran parte dei piatti sono impressi nella memoria – non accade spesso, no? – a riprova di come Enigma sia a tutt’oggi uno dei centri nevralgici della cucina d’oggi, cui manca solo la definitiva messa a fuoco. Il ritorno è d’obbligo.

IL PIATTO MIGLIORE: Piselli lacrima di Maresme con siero di mozzarella e aria di rosa.

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Il temporary restaurant a Parigi

Dove più che al ristorante la contaminazione e l’inclusione (parlando di ingredienti, ricette, tradizioni) diventano due fattori imprescindibili per aspirare al successo dell’impresa che si vuole intraprendere? Lo sanno senza alcun dubbio Alain Ducasse e Albert Adrià che, insieme a Romain Meder e Jessica Préalpato, han dato vita a Parigi a un temporary restaurant senza precedenti: Admo Les Ombres. Un nome che unisce le iniziali di Adrià-Ducasse-Meder-Ombres e che battezza il luogo che, per soli cento giorni (l’ultimo servizio cadrà infatti il 5 marzo), delizierà il palato dei gourmet e dei gourmand di tutto il mondo. Un progetto ambizioso che ha creato ovviamente tante aspettative – qualcuno potrebbe persino dire troppe – e generato una mole di news, post e stories sui social senza precedenti.

Inclusività e armonia, con un ma

Leggendo il menù e assaggiando i piatti si ha subito una sensazione positiva, data sicuramente dal fatto che non si avverte competizione o prevaricazione di una cucina, o di uno chef, rispetto ad un altro. È un’orchestra inclusiva, senza “prime donne”, uno scenario perfettamente armonico che sarebbe bello ritrovare in ogni ambito della vita quotidiana.

Il panorama di cui si gode da questo sito di elezione è veramente di grande effetto. La Torre Eiffel si trova lì, a pochi metri dal soffitto tutto a vetrate del ristorante Les Ombres, situato sul tetto del Musée du Quai Branly – Jacques Chirac. Il servizio è di livello anche se mai ingessato, affidato a un gruppo di giovani (finalmente!) e promettenti professionisti della sala. A disposizione dei clienti due menù, da cinque o sette portate, con o senza abbinamento vini.

Grande materia prima, impiattamenti originali, concentrazione dei sapori e la giusta importanza tributata al pane, che qui diventa addirittura una portata. Caratteristiche che, in effetti, ci si aspetta di trovare in un ristorante di tale livello, per un’esperienza che, nel complesso, vale la pena fare ma con alcuni ma. I piatti sono frutto del pensiero di due teste, di due stili, che non sempre convergono in un gusto di amalgama coerente. Alcuni passaggi, come l’Aragosta, colpiscono più per l’apparenza che per la sostanza del gusto. E altri sono si interessanti, ma quasi mitigati, addolciti, arrotondati per compiacere ai molti clienti che si affannano a visitare questo esperimento temporaneo che, però, necessita forse di maggiore amalgama e attenzione da parte degli illustri attori in gioco. La nostra impressione è che ci sia un approccio poco approfondito ed organico, e che il risultato sia molto inferiore alle aspettative generate.

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Il paradigma dell’autunno

Chiamato legnasanta in napoletano – pare infatti che il frutto aperto ospiterebbe la caratteristica immagine del Cristo in croce – legata all’iconografica cristiana è anche la sua interpretazione sicula, nel cui seme spaccato dimora un germoglio che somiglierebbe, appunto, alla mano della Vergine Maria. Prodigo tanto di superstizione quanto di virtù (diuretico, energizzante, integratore di vitamine e protettore del fegato), il caco è il paradigma indiscusso dell’autunno, ma nelle cucine d’autore campeggia quasi sempre tra i dolci…

Ouverture

Moma, Andrea Pasqualucci e Federico Cucchiarelli, Roma

Nonostante la lapalissiana dolcezza su cui insiste questo antipasto, da lodare è senz’altro il tentativo da parte dei due chef di delocalizzare un frutto che, proprio nella sua manifesta natura, se opportunamente contrappuntato potrebbe prestare il fianco a tutto il pasto.

Lume, Luigi Taglienti, Milano

Uno dei più grandi interpreti de La Grande Cucina italiana capace di condensare Liguria, Piemonte, Lombardia e tutta Milano, in un sol boccone. Un piatto, questo “minestrone”, capace di parlare sottovoce dell’impressionate talento e della personalità di Luigi Taglienti.

Il piacere della carne

Idylio by Apreda, Francesco Apreda, Roma

Una cucina che dimostrato di poter fare fusion in maniera intelligente e audace, mantenendosi sul filo del minimalismo e del manierismo, con classicità e personalità. Come queste costine di vitello, quintessenza di sapori tardo-autunnali.

Pre-dessert

La Madia, Pino Cuttaia, Licata

Tutto un piccolo compendio di autunno nella cucina delle memorie d’infanzia di Pino Cuttaia. Qui, le castagne si trasformano in wafer da inzuppare in una zuppa di caco e chicchi di melograno.

Enigma, Albert Adrià, Barcellona

Stupirà attribuire questo piatto al re dell’avanguardia. Eppure pochissima audacia alberga nel caco di Albert Adrià, se non la sua collocazione, in un decrescendo di sapidità tra l’ultima portata salata, a base di pomodoro, e la carrellata dei dolci.

Villa Naj, Alessandro Proietti Refrigeri, Stradella

Una cucina dinamica e creativa, territoriale ma capace di svincolarsi, guardando altrove e soprattutto a Oriente, da cui attinge spunti e contrappunti acidi e amari, nonché il rinnovato interesse per l’elemento vegetale, ora centrale, come in questo delizioso predesset, tutto frutta e spezie.

…e tartufo

La Peca, Nicola Portinari, Lonigo

Un grande ristorante, che continua a scrivere la storia dell’alta cucina di “lusso” con un quid tutto suo: il senso di familiarità che solo la vera eleganza sa trasmettere. Emblematico, questo piatto, quintessenza di topos autunnali sia ricchi che poveri; sia alti che bassi.

Kaki e cacao

Trattoria Visconti di Roberto Visconti ad Ambivere

Quando la tradizione gastronomica bergamasca si miscida con la passione per l’orto, da’ vita a una cucina semplice, ma squisitamente agreste e domestica.

Dulcis in fundo

L’Osteria all’Orologio, Marco Claroni, Fiumicino

Un dolce eccezionalmente buono, capace di  giocare in punta di fioretto sulla falsariga dolce-salato, non lesinando sulle tonalità aromatiche officinali date dall’intuizione di addizionare di rosmarino il Pan di Spagna.

Pakta, Albert Adrià, Barcellona

Parlando di contrappunti, da sottolineare il delizioso contraltare offerto dallo strategico umeboshi sulla dolcezza del caco, enfatizzato dalla combinazione con la sensazione salata e acida delle prugne. Un dolce tutto in levare.

Enigma, Albert Adrià, Barcellona

In questa occasione, anteriore di un anno rispetto alla precedente, il caco trova una sua degna collocazione tra i dessert, e, precisamente, questa combinazione con rafano e zucca occhieggia tra una banana ossidata e foie gras e un cioccolato e yuzu.

All’Enoteca, Davide Palluda, Canale

Una eccellente rivisitazione del Montblanc da parte del re delle rivisitazioni, Davide Palluda. Un’interpretazione accurata, vestita di tutto punto di altri orpelli autunnali tra cui spicca, oltre alla castagna, proprio il caco.

28 Posti, Marco Ambrosino, Milano

Tutti nel solco del dolce-non dolce sono i dessert di Marco Ambrosino, molto coerenti con la sua personalità  votata alla sperimentazione sulle fermentazioni tra cui spicca, per originalità e carattere, proprio questo gelato di miso di tumminia, tempeh di orzo e gel di kombucha di cachi. 

Marta in Cucina, Marta Scalabrini, Reggio Emilia

Versione “nostrana” del Mont-Blanc, il Monte Cusna di Marta Scalabrini è l’emblema di come elementi chiave della tradizione locale siano utilizzati per dar vita a preparazioni contemporanee, talvolta inaspettate.

Il Portico, Paolo Lopriore, Appiano Gentile

Il senso sociale come struttura formale dell’esperienza gastronomica: questa, una delle ultime strade imboccate dal grande chef allievo di Gualtiero Marchesi, fautore di una cucina conviviale dove il processo creativo viene restituito all’avventore.

Il luogo di Aimo e Nadia, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Milano

Una cucina elegante, classica nel senso più puro e ispirato del termine, che utilizza la stagione in corso per realizzare un affresco dalle tinte vivaci e accattivanti, come questo dolce: una irresistibile miniatura d’autunno.

 

La propria strada tra i giganti

Non sarà certo azzardato definire Federico Zanasi il legittimo erede, benché in salsa italiana, di Ferran Adrià. Di certo, oggi, sarebbe finanche riduttivo: perché lo chef di questa avventura che, lo ricordiamo, è firmata  da Adrià per Lavazza, è riuscito in poco tempo a smarcarsi dal maestro  trovando una propria strada espressiva, naturale estensione di un’identità solida e forte che già brillava sul pass di Moreno Cedroni.

Un’identità di cui, a guardarci bene, anche gli arredi – in stile cinematografico, tra graffiti pop, orologi e ingranaggi – rappresentano l’estensione, merito delle scenografie multiformi di Dante Ferretti e della sua capacità di interpretare luoghi e personalità, di cui peraltro anche il menù stesso appare affollato.

Cominciamo dunque con l’ormai celeberrima, nonché iconografica, oliva sferica, omaggio dichiarato al genio di Cala Montjoi e col gelato al Parmigiano, omaggio, questo, che Ferran Adrià stesso fece invece all’indimenticato Bob Noto. A seguire, una sequenza assai arrembante rappresentata dal ceviche di frutta e verdura, dove il pesce è rappresentato solo dal condimento efficacissimo, peraltro, nel parlare del Perù più profondo. Poi, impossibile non citare la golosissima patata soufflé con carne di vicciola (razza bovina piemontese allevata a nocciole) e salsa tonnata quasi a fare da prologo al blinis modenese con midollo e caviale con cui si torna, idealmente, a ElBulli.

L’ottovolante gusto-olfattiva continua e raggiunge il primo vertice col katsu sando piemontese, ovvero il panino giapponese dalla consistenza aerea farcito con una cotoletta e con l’ostrica col burro acido al rafano e pepe nero. Molto definiti, si direbbe quasi scolpiti nelle rispettive salienze il granchio e ovuli, così come l’astice “Combal”, omaggio a Davide Scabin, dove il regale crostaceo e il gorgonzola si sposano alla perfezione. Ma c’è spazio anche per la memoria, nonché un certo inaspettato passatismo, nell’animella al “Vecchio Samperi” il cui sapore ricorda le italianissime scaloppine al Marsala della cucina domestica italiana.

In questo quadro, già di per sé animatissimo, molto abbiamo apprezzato la migrazione in veranda per il dessert, ambientazione di un’indimenticabile carosello dove proprio il movimento è al centro della rappresentazione con la scenografica Cheese cake del Tickets e la meringa ghiacciata.

Menzione speciale, anzi d’onore, alla peculiare carta dei vini “sensoriale” dove le bottiglie sono ordinate, appunto, per sensazioni.

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Il passo oltre di Adrià: il coinvolgimento attivo del cliente

Quale elemento – che non faccia parte della classica triade cucina-servizio-ambiente – potrebbe arricchire significativamente l’esperienza di un pasto? Qual è la next best thing in grado di fare davvero la differenza nel mondo dell’alta cucina? Tu; noi; insomma, in una parola, il cliente che siede a tavola.

Non è un caso che una delle più sorprendenti proposte, in questo senso, provenga proprio dalla geniale factory Adrià capace di trasformare una cena in un piccolo evento dove il livello, eccelso, della cucina svolge un ruolo essenziale ma non unico. Questa volta il cliente viene coinvolto, diventa elemento integrante di un processo dove entrambe le parti svolgono una funzione attiva. Come? Attraverso la partecipazione a un percorso itinerante che, dall’accoglienza fino al tavolo finale, e oltre, conferisce una nuova e assai ricercata sfumatura al concetto di coinvolgimento segnando, analogamente a molte esperienze compiute nei ristoranti dei fratelli Adrià, un prima e un dopo.

Performance e illusionismo

Albert Adrià è riuscito a sviluppare un’idea di ristorazione dove l’esperienza gustativa rappresenta una fase importante ma complementare all’interno di un più ampio concept che ha dei tratti non solo spettacolari ma persino ludici e quanto mai prossimi al puro e semplice divertimento. Nella fattispecie, l’eccezionalità del progetto prevede varie soste in un ambiente dai tratti labirintici sapientemente predisposto per creare un ancor più stretto rapporto tra cibo e fruizione di esso in cui differenti tipi di preparazioni vengono eseguite come performance, fino a un’emblematica tappa finale: “la cena” vera e propria. Qui, una serie di piatti presentano ingredienti sapientemente dissimulati, atti a esser decifrati attraverso l’unico ausilio dei sapori rappresentando, così, il fulcro della tanto evocata “enigmaticità” creativa e decisamente ricreativa: né più né meno che un viaggio intorno a ingredienti di impareggiabile qualità, cucinati espressamente ed esaltati attraverso sorprendenti associazioni che ne determinano e ne definiscono ancor di più la loro essenza.

Concretamente, siamo al cospetto di trenta e più assaggi, in un’altalena che varia dall’eccellente al sublime fino al buonissimo,  in un luna park di sensazioni che, in alcuni casi, riescono a lasciare persino stupiti. Come descrivere altrimenti uno splendido foie gras che, arricchito sotto sale della sapidità della colatura di acciughe, chiude un proprio ideale cerchio gustativo nella freschezza del recuit de fonteta che lo accompagna? O ancora, il bonito che col grasso di midollo affumicato è un vero e proprio boccone da re mentre la fragola alla brace con agnello al curry e schiuma di latte rappresenta picchi di verticalità gustativa esemplari. Umami mediterraneo e materia prima è poi  il carnoso – e definitivo – pomodoro della rioja con salsa di sesamo a ricordarci che la selezione è alla base di qualsiasi progetto gastronomico che si rispetti.

Assonanze dissonanti (o dissonanze assonanti) con l’indivia dolce-amara e mandorla amaro-dolce: dove finisce una e dove comincia l’altra? Qui si è in un territorio dove non ci sono confini, anzi, dove proprio l’idea di confine rappresenta un limite e non una delimitazione. Quando poi tutto sembra essere concluso arriva l’ultimo atto che, quasi clandestinamente ci introduce, attraverso un passaggio temporale, alla rievocazione del 41º, locale che fu una delle prime creature post Bulli degli Adrià e di cui questo Enigma è degno discendente, suggellando voluttuosamente una memorabile serata con cocktail di livello pari alla cucina provata.

Qui ci si trova davvero in un luogo immaginifico, interamente concepito per raggiungere vette di divertimento gastronomico di inebriante intensità.

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