Passione Gourmet I Brunelli di Montalcino de Le Potazzine - Passione Gourmet

I Brunelli di Montalcino de Le Potazzine

Vino
Recensito da Gianluca Montinaro

Sulla vetta di Montalcino

«Quando siamo arrivati quassù, nel 1993, nessuno li voleva questi terreni». Il «quassù» è a 510 metri: una altezza, seppur non da Monte Bianco, comunque discreta, se solo si considera che erano anni, quelli, durante i quali tutti cercavano terreni ‘laggiù’, molto più bassi, perché più adatti – pensavano, ‘loro’… – a coltivare la vite. «Gigliola, che ci vai a fare, lassù?», chiedevano, ‘loro’. «Ma – rispondeva ‘lei’ – intanto ci vado a vivere». E il posto, «quassù», in effetti è bello: la vista spazia, la ventilazione in estate è magnifica eppoi… eppoi… perché non provare a piantare una vigna, magari ‘piccina picciò’? Sicché Gigliola Giannetti – perché è di lei che stiamo scrivendo – decide di metter giù, proprio in concomitanza con la nascita della sua prima figlia, Viola, le sue barbatelle: appena tre ettari, giusto attorno alla romantica casa in pietra a vista. Sangiovese grosso, ovviamente: perché qui siamo a Montalcino! E perché Gigliola, che – prima di aprire una enoteca nel centro del paese (che tuttora gestisce: Vineria Le Potazzine, piazza Garibaldi, 9) – aveva anche lavorato come segretaria per la famiglia Biondi SantiFranco Biondi Santi è per me una figura indimenticabile», soggiunge sottovoce), ne conosce bene le caratteristiche: «quando ero bambina aiutavo i miei parenti, in primavera, a voltare e legare i giovani tralci: e dovevo farlo bene!».

Poi, tre anni più tardi, nel 1996, arriva la seconda figlia: Sofia. Anche per lei, per equità fra sorelle, Gigliola acquista altra terra: due ettari, a Sant’Angelo in Colle. Però senza scendere troppo da «quassù»: appena un poco più sotto, a 420 metri. Mentre le bimbe crescono (e diventano ‘le potazzine’, ovvero le cinciallegre – così le chiama la nonna – con un soprannome vezzeggiativo che ormai è diventato secondo nome proprio), la mamma – «quassù» – con i suoi cinque ettari, «tutti iscritti a Brunello», vuole provare a fare vino. La terra sembra buona: galestro, argilla, una discreta presenza di ferro… Una sfida, però: «quassù» l’uva matura poco, e male, le dicono ‘loro’. Ma Gigliola ci crede. Sarà per Viola e Sofia. Sarà per le cinciallegre, che qui volano, eccome! Sarà per il loro canto, che inonda l’aria, in primavera. Dai, proviamoci! Ma, a chi rivolgersi? A chi chiedere un consiglio? Ed è così, come in ogni storia che si rispetti, che entra in scena il ‘saggio’. Solo che qui il ‘saggio’ non scende dall’alto (come il deus ex machina del teatro classico): è un uomo in carne e ossa. E si chiama Giulio Gambelli. Ovvero colui che conosce il Sangiovese meglio di se stesso (e che, difatti, ha contribuito in maniera fondamentale a creare sia molti fra i più blasonati vini toscani sia il mito di Montalcino). Gambelli insegna Gigliola e alle piccole ‘potazzine’ che il vino si fa in vigna: non ci sono formule da recitare durante la fermentazione o ‘magheggi’ da praticare con i legni. Se il terreno è adatto, se la vigna è sana, se l’uva è bella, se gli acini sono buoni… allora il vino non potrà che riuscire bene. Di cosa aver paura – quindi – se non del lavoro da fare?

Escono le prime annate, a fine anni Novanta: e il successo arride a Gigliola e alle sue ‘potazzine’. Certo, in quegli anni c’era chi predicava il verbo barriquare, «ma noi abbiamo sempre tirato diritto per la nostra strada». E perché cambiare, vien da pensare? In fondo, «quassù» si sta così bene. Così bene che le ‘potazzine’ hanno recentemente acquisito un altro mezzo ettaro ancora più «quassù», a 580 metri: «quando lo abbiamo visto ce ne siamo innamorate, non potevamo non prenderlo: un luogo magnifico!». Mentre scrivo queste righe rammento una poesia di Giovanni Pascoli: La cinciallegra (1905). Che canta per annunciare un incontro. Che canta per prefigurare un’emozione. Che canta per ricordare una passione… mentre lei che ode il canto – è forse Gigliola? – si avvede che «il babbo è indietro con le sue faccende: / gli legherò due viti o tre, se crede…».

La vigna e il vino

Le vigne de Le Potazzine sono impiantate con una densità di seimila piante per ettaro, con sistema d’allevamento a guyot «che – dice Gigliola Giannetti – meglio degli altri permette di interpretare l’annata». E sono seguite con la massima cura. Senza però smanie interventiste: qui si lavora per esprimere al meglio il terrroir e il vitigno. Ed è proprio l’altitudine – il «quassù» – a proteggere la vite: gli sbalzi termici tra il giorno e la notte, garantiscono ai grappoli sia eccellenti livelli di acidità sia un ottimo sviluppo dei terpeni (ovvero le biomolecole che donano l’aroma). Inoltre, i venti che soffiano dal mare mantengono asciutte le piante, riducendo di molto il numero di trattamenti necessari nell’arco dell’anno. A metà giugno circa, Gigliola e le ‘potazzine’ individuano i grappoli che saranno lasciati in pianta, procedendo alla vendemmia verde con il resto. La raccolta delle uve, che si svolge su tre o quattro lotti, a seconda dell’annata, non avviene mai prima della seconda metà di settembre, perché qui «la maturazione fenolica la facciamo in pianta». Il mosto passa quindi un po’ in acciaio, un po’ in tini di legno. Qui parte la fermentazione, innescata naturalmente dai lieviti: ovviamente le temperature non sono controllate perché i vini devono poter svolgere completamente, a loro proprio agio, gli zuccheri. L’unica pratica di cantina che viene compiuta, in questo passaggio (che può durare venti, trenta o anche cinquantasette giorni, come accaduto nel 2022: insomma il tempo necessario, o come avrebbero detto gli antichi greci, il kairòs, il ‘tempo debito’), sono i rimontaggi, effettuati periodicamente (e quindi via via diradati a mano a mano che gli zuccheri si trasformano in alcol). Terminata la fermentazione alcolica, si attende a quella malolattica (in parte indotta perché si porta la temperatura della stanza a 25°). Il vino (Rosso di Montalcino compreso) passa poi in botti grandi di rovere di slavonia (prodotte da Garbellotto) da 30 e da 50 ettolitri. E qui resta per almeno una quarantina di mesi, prima di farne altri sette in bottiglia.

La produzione totale della tenuta si aggira intorno alle trentamila bottiglie, di cui solo la metà sono Brunello.

La degustazione

Come avviene solo nelle aziende più celebri e consolidate ove non si ha timore ha mostrare i propri vini mentre sono ancora in via di crescita, la degustazione è iniziata assaggiando dalle botti le quattro annate che ora riposano in cantina: 2019, 2020, 2021, 2022.

L’Anteprima dei Brunello di Montalcino (atto a divenire)

Se quest’ultima è stata obiettivamente la più ostica da leggere, con la sua fittissima trama tannica e la spiccata acidità, la 2021 si è invece già presentata con una compostezza impressionante. Il bouquet, seppur ancora involuto, è apparso già intenso e fine, dispiegandosi su note balsamiche, erbacee (come di macchia mediterranea) e floreali. Se inizialmente, in bocca, sono state le sensazioni legate al minerale e al tannino a predominare, è seguita poi una inaspettata, suadente morbidezza polialcolica che, distendendo le papille e riequilibrando le percezioni, ha accompagnato con pulizia il sorso, allungandone tanto la verticalità quanto la struttura.

Le annate 2020 e 2019 (entrambe dichiarate dal Consorzio da cinque stelle) si sono proposte, fatto assai interessante, in modo diverso (sarà bellissimo assaggiarle nuovamente fra qualche anno, dopo che avranno avuto modo di affinare in bottiglia), mostrando gustativamente come si possano raggiungere ‘equilibri’ differenti, percorrendo strade differenti. La distinzione fra le due pare risiedere nell’intensità della prima e nella agilità della seconda. In altre parole la 2020 si presenta con un ampio spettro olfattivo nel quale predominano percezioni balsamiche, fruttate e floreali, e con sorso pieno e già appagante, ricco di struttura, sostenuto da una tannino levigato che tende all’integrazione, da un fine minerale sassoso e da una acidità ben modulata. La 2019 (che forse sarà la prossima Riserva) ha un che di più ‘misterioso’. Il naso appare intrigante e con una verticalità che pare presentarsi, di volta in volta, come travestita: di macchia, di fiore, di erba, di spezia e sin anche di un tocco di vinosità. In bocca il vino tende a svelarsi un poco di più, all’insegna di una sottile finezza che pare legare tanto il mondo delle durezze quanto quello delle morbidezze. Sicché il dialogo fra le due parti pare trasformarsi in un minuetto di contrappunti: con la mineralità che abbraccia i polialcoli, e il vellutato tannino che si accompagna alla nota calorica. Il tutto all’insegna di un equilibrio e di un’eleganza estrema, quasi rarefatta.

L’assaggio è poi proseguito spostandosi nella soprastante sala di degustazione. E qui si è aperto con il Potazzine 2021, un Sangiovese Igt Toscana prodotto esclusivamente da vigne non iscritte. Vinificato in acciaio, il Potazzine è un vino dal carattere immediato ed espressivo, ma tutt’altro che banale. L’approcciabilità del bouquet – che facilmente si apre sul varietale tipico (si potrebbe dire: da manuale) del Sangiovese, e quindi viola mammola, ginestra, piccoli frutti rossi, macchia ed erbe aromatiche – è intrigante e piacevole. In attacco di bocca le parti dure giocano un ruolo da protagonista, con la freschezza e il tannino un passo avanti alle note minerali. Ma ecco poi che la morbidezza polialcolica riequilibra il sorso, dandogli un incedere intenso e fine, seppur non lunghissimo.

Il Rosso di Montalcino

Discorso assai diverso è per il Rosso di Montalcino Doc 2021. Frutto di una ottima annata, da due parcelle vinificate separatamente (La Prata e La Torre), questa etichetta viene prodotta, per precisa scelta aziendale, declassando quasi la metà della produzione (passandola poi in legno per un anno, cosa che non è richiesta dal disciplinare). Ciò significa, in altre parole, che il Rosso de Le Potazzine è, a tutti gli effetti, un piccolo Brunello. E del Brunello, più che di un ‘mero’ Sangiovese, ha le caratteristiche. L’intensità del prospetto aromatico è notevole, come anche la sua complessità e la sua eleganza. La frutta rossa è succosa, e si muove dalla mora all’amarena. I fiori diventano molteplici (e fra i molti rimandi di viola, si avverte quasi una fragranza di rosa). La macchia mediterranea si fa calda e profumata. Il tutto accompagnato da una verticalità netta e percepibile. In bocca il vino si presenta ricco ed elegante al contempo: la freschezza è ben modulata, il tannino setoso e integrato, la mineralità netta e pulitissima, con la struttura poliacolica e le sensazioni caloriche a sostenere una impalcatura improntata all’equilibrio, alla finezza e alla persistenza. Sì, perché è proprio quest’ultima a colpire: le sensazioni – soprattutto quella minerale – tornano e ritornano in fine di bocca con nettezza e morbidezza.

Le nuove annate

Di grande fascino, poi, l’assaggio comparato dei Brunelli di Montalcino 2018 e 2017 che si presentano, ossimoricamente, ‘simili ma diversi’. L’impronta stilistica rimane la medesima, ed è ben percepibile (espressione del varietale e del terroir secondo principi di pulizia e armonia, tanto al naso quanto in bocca), muta invece l’interpretazione dell’annata. La 2018 si presenta con aromi netti e ampi, elegantemente definiti fra piccoli frutti rossi e neri, un tocco di arancia sanguinella, suadenti ritorni floreali (c’è la viola, sì, ma pure la rosa), balsamici e appena un accenno di morbida speziatura, il tutto sostenuto, e come indirizzato, da una finissima verticalità. La prima sensazione, all’assaggio, è la soddisfazione di beva: il vino infatti si esprime subito con disarmante ampiezza ed eleganza, con le parti dure che paiono già in perfetto equilibrio con le sensazioni caloriche e pseudocaloriche. Il tannino è setoso, la freschezza ben modulata, il minerale gagliardo e leggiadro al contempo, con i polialcoli a sostenere l’impianto strutturale con garbata armonia. La finezza è notevole, come lo sono anche la complessità e la lunghezza. La 2017, figlia di un’annata di più difficile interpretazione, si muove invece su un registro differente. La rosa appare un po’ appassita e i piccoli frutti sembrano parzialmente in confettura. La macchia mediterranea si fa più evidente e gli accenni speziati diventano più numerosi: si avvertono gli inebrianti aromi del chiodo di garofano e dei legni profumati. Il vino entra in bocca misterioso, e suadentemente si lascia scoprire con delicatezza. È ancora una volta la mineralità a farsi avanti con una splendida sensazione di assolato galet. Il tannino appare vellutato più che setoso. E la freschezza sembra incedere con perfetta compostezza. La struttura è imponente: la morbidezza avvolge il palato e accompagna il sorso in centro di bocca, con incedere ampio ed elegante. È poi in fine che si percepisce di nuovo la linea acida, a sostenere il sorso e ad allungarlo in molteplici, finissimi rimandi.

Una piccola verticale

Il Brunello di Montalcino 2013 è la prova di come si possa interpretare a livelli eccezionali (considerata l’altitudine delle vigne de Le Potazzine) un’annata complessa come fu questa. All’epoca venne definita ‘classica’: parecchio fresca ma ad andamento regolare. La sfida da vincere era quella di portare l’uva a completa maturazione fenolica, così da avere tannini maturi, cercando al contempo di preservare quella tecnologica (ovvero il corretto rapporto tra zuccheri e acidi). Se in tanti, alla fine, non si dimostrarono all’altezza della tenzone (e difatti, nel corso degli anni, alcuni Brunelli 2013 non hanno tenuto il passo), questo Brunello non solo appare in piena forma ma ancora profuma di ‘giovane’. Ciò è dovuto al fatto che sì il processo di maturazione fu lungo ma l’altezza, la ventilazione, l’irraggiamento ne consentirono il perfetto raggiungimento, salvaguardando l’acidità da un lato e permettendo lo sviluppo corretto dei polifenoli dall’altro. A ciò poi va aggiunto quello che venne fatto (o, per meglio dire, non fatto) in cantina: i vini fermentarono spontaneamente, svolgendo – con i loro tempi – tutta la carica zuccherina. E quindi, passando in botti grandi, ebbero tutto l’agio di far integrare fra loro le diversi componenti. Il risultato è che questo 2013 si presenta nel bicchiere ancora di un bel colore vivido fra il rubino e il granato. E al naso prorompe in una serie di sensazioni, ampie, intense e molto fini, che spaziano dai fiori secchi (la rosa antica è ben presente) ai piccoli frutti rossi e neri in confettura e alla susina scura (croccante e profumata). La macchia è balsamica e le note speziate divagano fra il tabacco e il chiodo di garofano. La verticalità è notevole, e ancor di più si avverte in bocca: netta e diritta sorregge tutto l’assaggio, in stretto dialogo con la struttura – imponente ma non pesante – e con il tannino: magnificamente setoso. L’equilibrio e la pulizia, in coda, sono perfette e invogliano immediatamente al sorso successivo.

La degustazione si è conclusa con il raro (la produzione è di poco superiore alle tremila bottiglie) Brunello di Montalcino 2015 Riserva. Figlio di una grande annata, questo vino, uscito nel 2022, è la perfetta epitome dello stile Le Potazzine. Innanzi tutto bisogna specificare che, sinora, nella storia della cantina, sono state prodotto solo quattro riserve: 2004, 2006, 2011 e, appunto, 2015. Il secondo aspetto è che la Riserva proviene da uve di piante già identificate ben prima della vendemmia. Il terzo aspetto è che la Riserva Le Potazzine fa ben 60 mesi di botte grande, e quindi un anno di bottiglia. Ergo esce un anno dopo che la quasi totalità delle Riserve è già sul mercato. Se queste premesse fanno – quindi – presagire a un particolare pregio, è poi al momento dell’assaggio che questa etichetta sfodera tutta la propria immensa classe, confermandosi fra le vette della produzione montalcinese. Di un magnifico colore rosso rubino, vivido e impenetrabile, e di bella consistenza (la doppia caduta degli ‘archetti’ fa già comprendere che ci si trova davanti a un vino di grande struttura e di buon tenore alcolico), si propone al naso con elegante, quasi rarefatta, bellezza. I profumi, ampi e intesi, sono, al contempo, netti e penetranti ma pure estatici e trasognanti e si muovono dalla frutta rossa e nera (si avverte l’amarena, il mirtillo, la prugna secca dolce, degli accenni di confettura…) ai fiori (viola e rosa secche) alle splendide note balsamiche e speziate (ancora il tabacco da pipa, il chiodo di garofano, eppoi una punta di pepe e di cuoio), alle nuances minerali (come di sasso vulcanico scaldato dal sole), con un che di etereo a raccogliere e sorreggere tutto il bouquet. In bocca il vino è caldo (la gradazione è pari a 15°) e morbido (come anticipato dalla seconda caduta degli ‘archetti’ la struttura è imponente) ma, al contempo, assai fresco e con un tannino magnificamente levigato: presente ma integrato. Equilibrato e molto intenso e molto fine, ha una persistenza enorme: le sensazioni in bocca tornano e ritornano, senza sosta, chiudendo il sorso con pulizia estrema.

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