Filigrana di una pagina di storia
Alcuni nomi risuonano di una certa riverenza, che è un rispetto intrinseco alle sillabe che li compongono. È l’ossequio consapevole di chi riconosce in quel nome il coraggio di un particolare gesto. La genialità dell’intuizione, l’arditezza della scommessa e la sfrontatezza del passo che, per primo, iniziò la storia del Brunello di Montalcino.
Biondi Santi deve molto a una sorta di eredità, tramandata di padre in figlio, che si basava su conoscenze agronomiche ed enologiche degne dei migliori scienziati. Il tutto nacque da un’inclinazione di Giorgio Santi – vissuto tra la fine del 1700 e i primi decenni del 1800 – che ha dedicato molto tempo allo studio del territorio senese dal punto di vista botanico e pedologico. Esplorava i terreni e ne studiava i profili, amava la natura e, per questo, spesso si addentrava in essa, approcciandola innanzitutto con il metodo dell’osservazione. Così la famiglia Santi iniziò ad accumulare conoscenze e studi, implementati e approfonditi dalle generazioni seguenti.
Quella per l’agronomia era una passione viscerale, trasmessa quasi a livello genetico nelle discendenze della famiglia Santi. Clemente Santi – nipote di Giorgio – si formò come farmacista e guadagnò una certa notorietà all’epoca come scrittore. Eppure, il campo e il mondo agricolo erano un’attrazione potente anche per lui, che scelse di dedicare moltissimo tempo e moltissime energie a questo tipo di attività presso le terre di cui era possidente. In particolar modo, Clemente amava dedicarsi alla Tenuta Greppo, di proprietà della madre. Qui Clemente metteva in pratica gli insegnamenti del nonno, tanto che nel 1869 un suo “Vino Scelto” – identificabile come un antenato del Brunello – dell’annata 1865 venne insignito della medaglia d’argento dal Comizio Agrario di Montepulciano. Un riconoscimento che tracciava già la direzione di un vino che sarebbe entrato nella storia. Non solo in quella della famiglia Santi, ma anche in quella del mondo vinicolo tutto.
Nell’800 fu Ferruccio Biondi Santi – il quale decise di accostare il cognome paterno Biondi a quello materno Santi – a iniziare un percorso di attività vitivinicola strutturato, solido e coerente. Investì e azzardò, facendo leva sulle competenze proprie dei Santi e su quella lungimiranza che rende un uomo creativo, un imprenditore. A lui si riconosce soprattutto la capacità di avere osato, di aver aspettato quel vino che affermava la sua longevità ad ogni prova di vinificazione, ad ogni esperimento, ad ogni sorso. Ferruccio sapeva che quell’uva era fatta per il tempo. E lui la voleva accompagnare nel percorso.
Per questo Ferruccio Biondi Santi vinificava il Sangiovese in purezza, varietà che è stata identificata con il Brunello solo verso la metà del 1800. Fino ad allora, infatti, il termine Brunello stava ad indicare una vite, anziché un vino.
Le annate firmate Biondi Santi sono come i capitoli di un antico manoscritto. Uno di quelli solidi, spessi, pesanti perché pieno di pagine cariche di narrazioni che viaggiano da una trama all’altra. Il fil rouge è quello di uno stile iconico ed elegante. Sono vini che hanno considerato – forse tra i primi – l’elemento del tempo e che, eppure, oggi sembrano essere vini senza tempo. Un ossimoro che ritorna nelle caratteristiche che disegnano l’equilibrio in un calice di vino. Come quello scolpito nella finezza eterea del Brunello di Montalcino Riserva 1983.
Si tratta di uno dei vini preferiti da Jacopo Biondi Santi, che definisce l’83 “un’annata monumentale”. Animato da uve sane e ben mature, in uscita da una primavera mite e piovosa e da un’estate invece piuttosto calda, pone elegantemente l’accento sull’immancabile acidità che definisce i vini firmati Biondi Santi. Le viti, all’epoca, superavano i 25 anni di età. Ricolmata negli anni 2000, questa Riserva ora si mostra per ciò che è diventata con l’affinamento, svolto in botti di Slavonia per un tempo di 36 mesi prima del lungo – anzi, lunghissimo – riposo in bottiglia.
Questo imponente vino di una grandissima e ricchissima annata ha donato note e sfumature inedite, affiancate da aspettative confermate e, anzi, rinvigorite. Sentori di marasca, rosa canina e una punta di viola nel finale, lasciano lievemente il passo a cacao, spezie, tabacco e una traccia di cuoio, ancorché rinforzato e lanciato nel sottobosco piovoso in cui compare una deriva di tartufo nero pregiato. In bocca è in principio esile ma lungo, con la vigoria di un tannino teso. Persiste, al palato, con una profondità unica. Un grande, anzi grandissimo, Brunello.