Un criterio di scelta nel panorama vitivinicolo italiano post-pandemia
Il mondo del vino negli ultimi decenni ha abituato il mercato a un processo di graduale crescita della qualità e di conseguenza a un motivato incremento del valore della bottiglia, auspicabilmente con effetto su tutta la filiera, dall’uva al calice a tavola. Fra le discussioni sul cambiamento climatico e l’incremento della richiesta dei mercati emergenti, per il miglioramento del prodotto ci stavamo abituando alla riduzione delle quantità e dunque al completo esaurimento delle partite di vino immesse sul global market. Poi è arrivato il Covid.
Attilio Scienza, fra i massimi esperti di viticoltura, in un’intervista durante la pandemia rifletteva su quanto le epidemie abbiano avuto un impatto sulla storia dell’umanità, in particolare proprio sull’agricoltura. Venendone fuori, dovremmo tutti assumere uno status di nuova responsabilità nel rapporto con l’ambiente e i prodotti della natura. Auspicabile, certamente; ma è pur vero che tutte le società, le grandi masse umane nei loro territori antropizzati, tendono ad assumere un comportamento proporzionale appunto alla propria quantità di massa, intesa come concetto fisico (quantità di materia, peso); dunque conservano un’immensa inerzia che dopo lo svolgimento di un fenomeno, quale che sia, riconduce allo stato iniziale.
Di certo il Covid ci ha dato l’occasione di riflettere tanto. Sul mercato, sull’economia e sulla salute fisica e mentale dell’uomo e, in queste lunghe riflessioni, durante i due lockdown fra 2020 e ‘21, abbiamo anche pensato a quale possa essere un criterio guida nella scelta del vino da parte del consumatore, visto l’incremento della qualità e il conseguente aumento dei prezzi al consumo. Nel mentre, incrociando le dita, fra vaccini e immunità di gregge, possiamo provare a dire che la pandemia sia finita. Durante le chiusure buona parte delle cantine hanno continuato ad accogliere – con prudenza e cautela – la stampa e così il mondo dell’informazione ha continuato a raccontare il vino, seppure, come sappiamo bene, con lo stop praticamente totale della ristorazione si sia stappato molto meno. Ciò ha comportato un prolungamento forzoso dei vini in autoclave e per gli spumanti sui lieviti le soste sono diventate conseguentemente molto più lunghe (unica nota positiva per gli amanti dello champenoise o metodo classico di grande complessità). Ma la preoccupante conseguenza, soprattutto per le piccole cantine, è stata quella di non avere recipienti ove stoccare il vino dell’ultima vendemmia. Con l’onere di prendere decisioni anche drastiche; mentre l’OIV stimava che un arresto dei principali canali di distribuzione avrebbe portato a un calo complessivo del 35% dei volumi di vendita e a una perdita pari al 50% in valore, le aziende vitivinicole oltre a pensare di abbassare i prezzi, tendevano a smaltire con la distillazione o persino a buttare il prodotto. Non è il caso di ripercorrere qui le drammatiche ore del periodo più buio dell’Europa dalle grandi guerre, ma di certo non tutto il vino nuovo è potuto finire in bottiglia ed essere propriamente consumato.
Nella ristorazione vediamo chiaramente i caduti di questa guerra al virus: le nostre città sono piene di saracinesche chiuse. Certo, venivamo da anni di consumismo (quasi) sfrenato, sulla scia di una globalizzazione che ci ha concesso tutto, qua in Occidente, mentre alla TV ci proponevano grandi chef e preparazioni degne dei movimenti di pittura più all’avanguardia. Nell’ultimo decennio questo benessere inquieto ha fatto da volano alla domanda di tavoli nei ristoranti, così sono nati locali ovunque, dove si poteva mangiare qualsiasi cosa. Sfavorendo la qualità. La cinica morale per il consumatore è che quella parte di ristorazione non proprio memorabile, talvolta improvvisata che aveva cavalcato l’onda, ha subito una “selezione naturale”. La disgrazia sono i posti di lavoro lasciati sul campo. Mentre accadeva tutto ciò, per fortuna, online si è venduto molto, talvolta moltissimo. E questo ha aiutato. Le vendite su piattaforme come Tannico o Vivino sono arrivate ad un aumento del 100%. Il mercato dei privati ha dunque in parte riscattato il settore vinicolo generando pure un filo diretto produttore-consumatore, fra le cantine e le tavole di casa nostra. È il risvolto più positivo della pandemia che ha dato slancio definitivo ai siti di vendite sul web stimolando più che mai anche le piccole aziende agricole a mettersi in gioco online. Come a dire che nulla è più come prima. Salvo l’usanza dei popoli, dopo tutti i disastri, di tornare sempre alle cosiddette vecchie abitudini. Una sorta di ritorno alla condizione ante rem. Tanto che l’estate scorsa il mondo della ristorazione è decisamente riesploso; l’immenso quanto recondito desiderio di uscire nuovamente di casa, la voglia di evadere dopo le restrizioni governative ha registrato una vera e propria corsa alla prenotazione dei tavoli e dei posti letto, soprattutto nelle più gettonate località turistiche del nostro Bel Paese. Conseguenza il tutto esaurito stagionale. Idem ora per le ferie sulla neve (dove c’è).
Parallelamente, la pandemia ha provocato una distorsione del mercato delle materie prime e dei semilavorati. Con la ripartenza del mondo produttivo è diventato difficile reperire tanti prodotti con i tempi a cui eravamo abituati ante Covid. In campo automobilistico sono mancati componenti provenienti dalla Cina e le auto non arrivano alle concessionarie. Nel mondo vitivinicolo le grandi cantine hanno prenotato cospicue quantità di bottiglie con largo anticipo. Talvolta i piccoli produttori sono rimasti (e rimangono tutt’ora) senza certe tipologie di bottiglie. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Conseguenza: crescita incontrollata del costo delle materie prime e dell’energia per produrle, oltre che del trasporto e dunque inflazione record. Come reagire per il vino?
Una soluzione sostenibile
Intanto abbiamo una certezza: Italia e Francia, nel mondo, sono da sempre il riferimento per il vino. Altro dato: il Made in Italy notoriamente fa la differenza. Per il mobile d’arredo e l’industrial design firmato dai nostri grandi architetti, per le automobili di prestigio costruite praticamente a mano in MotorValley e per la moda con i nostri grandi stilisti; per i nostri prodotti alimentari d’eccellenza e per il vino. Dopo l’ingordigia produttiva italiana nel boom economico degli anni ‘60 – prodotto di massa – posto che ora il Made in China assolve largamente alla domanda mondiale, è palese che dobbiamo rispondere a quella fetta di mercato elitaria che ci sta chiedendo qualità Top, ovvero il cosiddetto mercato del lusso. Eppure, dando colpa al marketing, come pure alle tradizioni dure a morire, le cantine devono ancora rispondere a un mercato interno di bassa qualità, fatto di vino sfuso o venduto in brick che non può e non dovrebbe mai uscire dalla stessa filiera che si occupa di imbottigliare etichette di fascia Top. Non è credibile. Trasponendo in campo automobilistico, sarebbe come immettere sul mercato cheap e luxury car assemblate nello stesso stabilimento. Nel tempo si è resa così necessaria una strategia industriale e produttiva che ha portato i grandi marchi, in tutti i settori, a comprarsi piccoli gioielli, talvolta pesino artigianali, in grado di realizzare eccellenti prodotti di nicchia. Come dire: avere in portafoglio il fiore all’occhiello della produzione. Esattamente come hanno fatto le grandi cantine per distinguere i vini Top, creando nuovi brand, oppure acquistando piccole aziende vitivinicole con etichette già note per qualità e prestigio. Quindi dove sta l’intoppo?
Probabilmente in primis devono cambiare le abitudini degli italiani, non solo per dare l’esempio al mondo che ci sta a guardare (e che spesso nel bene e nel male imita il nostro italian style); ma anche e soprattutto per godere di più e vivere meglio. Certo, il rovescio della medaglia è il costo dei prodotti Top. Però nel nostro vivere quotidiano si po’ anche solo tendere all’eccellenza, cioè si potrebbe decidere di alzare l’asticella dei prodotti che consumiamo abitualmente. Il cambiamento è un processo radicale che passa soprattutto dalla conoscenza, perché no fin dai banchi di scuola, delle nostre infinite varietà ed eccellenze alimentari e del vino. Ma questo è un altro tema. Nell’equazione già articolata entra anche il cambiamento climatico. Averne la consapevolezza significa seguire le stagioni e prenderle come sono, accettando il divario fra i millesimi che passano alla storia e le annate difficoltose. La natura ci concede una grande annata che si venderà subito tutta, fra ristorazione d’eccellenza nel mondo e poche fortunate tavole di privati. Saturazione della richiesta = crescita del costo della bottiglia. All’opposto, le annate meno felici devono essere esplorative, pensate per allargare la platea con prezzi più favorevoli, magari con un auto-declassamento delle etichette, guardando a un mercato meno preparato e con minore disponibilità, ma che al tempo stesso avrà l’opportunità di accedere a grandi nomi e a vini di prestigio a un costo ragionevolmente più basso. In fondo non è altro che esaltare il rapporto uomo-natura. Perché dovremmo fare i salti mortali per “mascherare” un’annata minore in una uguale alle migliori? Solo per ragioni di fatturato? Piuttosto, dovremmo essere bravi a creare più margine nelle annate Top, allargando la forbice dei prezzi, calmierando le annate minori, così poi da non lasciarle alla polvere sugli scaffali. E faremmo crescere il consumatore medio non solo italiano. Auspicabilmente a tutto vantaggio dell’etica del lavoro in filiera.
Tirando le somme, tutto ciò complica ulteriormente la già complessa quesitone del prezzo di un determinato vino sul mercato. O forse la semplifica?
Il nocciolo della questione è capire quale sia il prezzo corretto di una bottiglia. Lasciando stare gli appassionati, più esperti e smaliziati, il consumatore occasionale che entra in enoteca, come sappiamo può visualizzare Wine-searcher oppure Vivino, trovando il rating di una determinata bottiglia. I dati pre-Covid testimoniavano già 1 milione e 800.000 utenti dell’App Vivino solo in Italia, con un catalogo di oltre 250.000 etichette per quasi 35.000 cantine. Durante il lockdown, tutto si è poi ulteriormente dilatato. Così siti e App si moltiplicano. Fra tutti, la stessa identica bottiglia ha una variabile di prezzi che crea ancora più confusione. Luigi Veronelli parlava del prezzo sorgente, ma oggi nemmeno ciò che dichiara il produttore alla stampa o alle guide, all’atto della presentazione, ne chiarifica il valore; il prezzo allo shop interno della cantina di produzione, può essere già diverso. Poi può capitare che certe enoteche, anche all’interno della grande distribuzione, per scelte commerciali, applichino un prezzo minore del produttore stesso. Il ricarico dipende da come ogni rivenditore concepisce la propria strategia per creare marginalità. Nel complesso ci si mettono pure le ristorazioni, a complicare il quadro, dato che le scelte di ricarico di questo settore sono in genere inversamente proporzionali al costo all’origine. Il compito dunque di chi apre bottiglie non solo per goderne, ma anche per raccontarne, potrebbe essere quello di presentarci le annate migliori, al fine di dettare una sorta di “memoria gusto olfattiva” per aiutare il consumatore nell’interpretazione delle annate minori, sapendo a cosa esse devono tendere. Per chiudere in bellezza questo percorso, desidero proprio cominciare da qua e lo farò ad esempio con il 2016, ad esempio in Piemonte. Incontrando alcune delle bottiglie più significative di questa memorabile annata fra Barolo e Barbaresco.
La degustazione
Damilano Barolo Cannubi 2016 ; Barolo Liste 2016; Barolo Cerequio 2016
La lunga storia di queste colline coltivate a Nebbiolo origina proprio intorno alla Menzione geografica Cannubi, subito sotto al paese di Barolo, dove oggi si dividono le parcelle due grandi nomi anticamente imparentati come Borgogno e Damilano, la cui attuale riserva Cannubi 1752 riporta proprio il primo anno in cui è testimoniata l’esistenza di questa eccellenza vitivinicola piemontese. L’annata 2016 per Damilano si declina in particolare in Cannubi, Liste e Cerequio, sostanzialmente già nel pieno della loro crescita espressiva, nella rosa dei Barolo che distingue in etichetta anche le sottozone Brunate, Raviole nel comune di Grinzane Cavour e Lecinquevigne con Terlo, Albarella, Le Coste e Sarmassa sotto Barolo, La Cavourrina sotto Grinzane Cavour.
Liste è un Barolo “vecchio stampo”, che concede meno forza di tannini a favore di una più slanciata nota balsamica, fra dettagli speziati e di tabacco nero, mentre Cannubi esprime eleganti note fruttate e sottobosco, lasciando in questa fase a Cerequio l’onore di sprigionare più forza tannica. Se si dovesse andare alla cieca, cioè a bottiglie bendate, la degustazione confermerebbe che ogni Menzione è diversa, ogni parcella del territorio esprime il Cru di appartenenza in tempi e modi differenti. Il più pronto in questa fase è dunque Cannubi.
Ettore Germano Barolo Vignarionda 2016; Barolo Lazzarito Riserva 2016
Due bottiglie diverse fra loro, entrambe premiate con 4 Viti AIS, rispettivamente Vignarionda nel 2022 e la Riserva Lazzarito nel 2023, da sottozone del comune di Serralunga, rivolti a sud-ovest, in declivio dalla strada di crinale del paese. Si caratterizzano per uno spettro olfattivo decisamente ampio, con qualche nota in più di spezie orientali per Vignarionda, ma soprattutto uno straordinario equilibrio per il Lazzarito: largo, mail troppo caldo, dalle piacevoli quanto delicate note erbacee iniziali fino alla lunga persistenza di frutto finale, tanto da poterlo considerare pronto, senza il timore di perdere troppi dettagli nella sua lunga futura maturazione. Forse sono lontani i tempi dei Barolo che richiedevano lunghi affinamenti, ma per avere la massima espressione dal Vignarionda 2016, qualche anno ancora lo possiamo aspettare, ne varrà certamente la pena.
Mascarello Giuseppe e Figlio Barolo Monprivato 2016; Barolo Villero 2016
Un nome quello della famiglia Mascarello rappresentato da Elena, Giuseppe e Mauro che da secoli, più precisamente dal 1881 lavorano terre che sono divenute vigne storiche, come le sottozone Monprivato e Villero, nel comune di Castiglione Falletto. Scendendo di poco dal punto più alto del paese, in direzione ovest, i due poggi ove di si trovano le vigne, sono entrambi rivolti a sud-ovest; il primo è davvero un piccolo Cru, mentre Villero è più esteso, al confine con Bricco Rocche. Punteggio pieno con 4 Viti AIS nel 2022 per entrambi, Monprivato appartiene alla famiglia Mascarello dal 1904 con vigne piantate fra i primi anni ’60 e la metà dei ’90, mentre Villero ha impianti decisamente più recenti, risalenti alla fine degli anni ’80. Siamo arrivati a un punto fermo del Barolo. Per usare una parola inglese, senza far torto a nessuno, Monprivato è il Barolo Reference. Complessità olfattiva iniziale di sottobosco scaldato dal sole, ampio spettro di fiori carnosi, fra dettagli di fragoline di bosco e ribes rosso. Le storiche botti grandi ingentiliscono i tannini che in annate così riuscite determinano un equilibrio di spezie che riverbera nel retrogusto. Ma il palato rimane sempre prevalentemente fresco, mai ridondante pur esprimendo tutte le aspettative del rigore vitivinicolo piemontese.
Produttori del Barbaresco Montestefano Riserva 2016; Rabajà Riserva 2016
Fra i Cru dei Produttori del Barbaresco, trattandosi di eccellenza territoriale mondiale, esprimere una preferenza è solo un fatto soggettivo (o una quesitone di nobili abitudini); certamente alcune sottozone sono più conosciute di altre, così potremmo citare Asili, Muncagöta, Ovello, Pajè. Un metodo di scelta può essere quello di affidarsi alle guide, allora stando a quella dell’AIS, l’annata 2016 premia con 4 Viti 2022 le Riserva Montestefano e Rabajà. Le presentazioni che la Cooperativa dedica alle due sottozone sono rispettivamente <Il Barolo nel Barbaresco> e <Armonia totale>. Certamente il Rabajà per quest’annata può essere preso a riferimento per memorizzare come si devono esprimere le uve di Nebbiolo nel comune di Barbaresco. Siamo nel punto più alto della collina, rivolti verso sud e sud-ovest, sopra a Martinenga. Un vino di cui è difficile separarsi, certamente raffinato nell’olfatto ricco di frutti rossi e percezioni di erbe officinali, analogamente pieno, tannico e di persistenza lunghissima al palato.
Sottimano Barbaresco Currà 2016
Rimaniamo dentro alle scelte soggettive dei Cru più significativi. Nelle annate che passeranno alla storia scegliere una Menzione rispetto ad altre può sembrare persino eccessivo. Ma d’altra parte sarebbe banale affermare che quando si trattano millesimi eccellenti, tutti i produttori sono capaci. Nel comune di Neive, in declivio dal punto più alto della collina, la sottozona Currà guarda a sud-ovest. Analogamente premiato con le 4 Viti Ais 2022, questa eccellenza di Rino Sottimano è un vino emozionante. Una sinfonia di frutti freschi e sotto spirito, erbe e fiori passiti, velate note speziate e di lavanda. Il palato è generoso, in parte astringente in parte morbido e armonioso nel finale. Sottimano Barbaresco Basarin, Cottà, Fausoni sempre nel comune di Neive e Barbaresco Pajorè sotto Treiso sono le altre etichette dei Cru di questa cantina la cui storia risale proprio con Rino Sottimano ai primi anni ’60.
Tenute Cisa Asinari dei LaMarchesi di Gresy Barbaresco Martinenga 2016; Barbaresco Martinenga Gaiun 2016; Barbaresco Martinenga Camp Gros 2016 Riserva
Fra i Barbaresco, anche in questo caso l’annata è confermata dal 4 Viti AIS 2022 per la Riserva Camp Gross. La Menzione geografica Martinenga è rivolta a sud, formando come un alveo attorno alle strutture storiche della cantina dei Marchesi di Gresy-Tenute Cisa Asinari. Siamo al di sotto di Asili, con una esposizione simile a quella di Pajè, una delle sottozone centrali nel comune di Barbaresco. Un vino, la Riserva, a tratti perfetto nelle aspettative di questa DOCG, che come un fratello maggiore conferma esaltandoli, i sentori e le persistenze di Gaiun, con una inaspettata nota di violetta e Martinenga che ancora sprigiona vibrazioni tanniche e riverberi speziati del legno. Appare evidente la filosofia in bottiglia che lega le tre etichette, dunque in annate così riuscite, la scelta può risultare difficile. Affidiamoci dunque come sempre all’ottima cucina piemontese che talvolta può richiamare vini più tannici, in altri casi dei Barbaresco già maturi e arrotondati nelle persistenze finali. Se si dovesse portare il vino in tavola oggi, la scelta è sul Camp Gros.
Tutte queste eccellenti bottiglie dell’annata 2016 sono legate da un comune denominatore: la certezza che ci regaleranno grande longevità, dunque qui ogni investimento, per gli amanti del Barolo è giustificato. Ma ricordiamoci, per creare la nostra memoria gusto olfattiva, le bottiglie vanno aperte, non collezionate.