Passione Gourmet Cracco - Passione Gourmet

Cracco

Ristorante
corso Vittorio Emanuele II, Milano
Chef Carlo Cracco e Luca Sacchi
Recensito da Claudio Marin

Valutazione

18/20 Cucina prevalentemente di avanguardia

Pregi

  • Una cucina colta, intrisa di un’italianità che rifugge stereotipi e cliché.
  • La maestria nell’utilizzo di tutti i registri gustativi.
  • La location è meravigliosa.

Difetti

  • Il prezzo del menù è leggermente superiore rispetto ai “pari categoria” (ma ampiamente giustificato).
Visitato il 01-2023

Carlo Cracco e Luca Sacchi: l’indissolubile legame tra passato e presente

Nel 2007, Bob Noto e Alessandra Meldolesi davano alle stampe un meraviglioso libro dal titolo “Autoritratto della cucina italiana d’avanguardia” – introvabile, qualcuno si prenda la briga di dedicargli una ristampa (!) -, un movimento in cui venivano ricomprese le figure di sei cuochi: Lopriore e Crippa – allora indicati come giovani promesse – nonché  Bottura, Cedroni, Scabin e Cracco, già riconosciuti a livello internazionale (affascinante pensare alla diversità dei successivi percorsi). Il cuciniere di Creazzo era stato peraltro il primo italiano a venire invitato a Madrid Fusión – il capostipite dei congressi gastronomici internazionali – nella seconda edizione, quella del 2004 (insieme a talenti rampanti come Blumenthal e Aduriz oltreché mostri sacri quali Marchesi, Senderens e Arzak).

Questa premessa – che non vuole essere una agiografia – è indispensabile per comprendere il Cracco di oggi ed anche per rammentare il ruolo focale che lo stesso ha svolto nella cucina italiana degli ultimi vent’anni, percezione spesso compromessa e falsata dalla memoria a breve termine. L’abbandono della storica sede di via Victor Hugo in favore della galleria Vittorio Emanuele aveva fatto presagire – anche a chi scrive – una transizione verso una cucina meno autoriale, più incline a soddisfare una clientela internazionale, magari autoreferenziale (i piatti iconici a disposizione sarebbero stati sufficienti per poter vivere di rendita). Il pranzo qui descritto ha invece dimostrato il contrario e messo in mostra un cuoco che ha uno stile consolidato (ancora, l’avanguardia che si trasforma in stile) – rinvigorito dall’apporto di un giovane talentuoso come Luca Sacchi, a cui viene lasciato ampio spazio per brillare – e un’offerta gastronomica che si risolve in una celebrazione sobria e sottile dell’italianità, scevra da scorciatoie, una cucina dotta che richiama alla mente le radici marchesiane e le affinità elettive con colleghi che hanno condiviso la stessa scuola (Riccardo Camanini e il Lido 84, su tutti). Sacchi esprime un’italianità declinata a tutto tondo, dalla calda accoglienza – capace di consentire un approccio disinvolto e privo di soggezione ad un luogo di rara bellezza e importanza -, alla densa ricorrenza di ingredienti del territorio (valorizzati in concreto anziché trasformati in appigli per facili narrazioni) e di riferimenti alle nostre radici gastronomiche.

L’abbattimento dei confini del gusto in corsi e ricorsi storici

Il filo conduttore del menù, di Cracco e Sacchi, che abbiamo degustato può essere rintracciato in un originale ed affascinante utilizzo delle note dolci, distribuite su tutto il percorso, una cucina androgina in cui il confine tra le diverse aree del gusto si dissolve. Una voce nuova, il naturale compimento di un percorso in cui i migliori cuochi nostrani avevano posto la loro attenzione sulle acidità, prima, e, più di recente, sui diversi gradienti dell’amaro. In questo senso, è esemplare Mari e montigambero d’acqua dolce (qualità sublime), bisque e fungo cardoncello -, in cui la dolcezza del crostaceo si combina con una trama sapido-agrumata e le note di terra del fungo, per culminare in un sussurro amaro, elegantissimo. In Sogliola al gratin, cavolo nero, ceci e vongole veraci, il pesce – quasi neutro – fa da supporto (anche in termini di morso) alla sapidità iodata delle vongole ed ai sentori, anche qui di terra, del cavolo nero e dei ceci, mentre la nota di dolcezza è conferita dal soffritto (la carota).

Un passaggio di infinita classe è, poi, Coniglio al mascarpone, spinacino e mele, perfettamente descritto da Leila Salimbeni (che l’aveva indicato quale piatto dell’anno) come “manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica”. Ad un tratto ci viene però ricordato che la centralità del gusto nella sua interezza, senza “frazionamenti”, appartiene alla nostra cultura, rievocata dal Timballo – uno scrigno di pasta ripieno di rognone, maccheroncini, prosciutto affumicato, uovo di quaglia, crema pasticcera allo zafferano e cannella -, piatto che simboleggia altresì le innumerevoli influenze che hanno inciso sulla nostra memoria gustativa. La parte finale è coerente con il resto del percorso, come dimostra Gorgonzola dolce, pera e mostarda, un omaggio alle tradizioni lombarde e, nel contempo, un piatto difficilmente collocabile nei rigidi schemi in cui il gusto viene spesso imbrigliato. Una volta terminato il pranzo, viene naturale porre l’attenzione sull’esordio, l’iconica Insalata russa caramellata e ci si rende conto di come sia meravigliosamente coerente l’intero menù, quasi a dimostrarci come l’oggi non sia altro che l’ultima manifestazione di intuizioni risalenti a più di quindici anni fa.

IL PIATTO MIGLIORE: Mari e monti – gambero d’acqua dolce, bisque e fungo cardoncello.

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