Passione Gourmet Caffè La Crepa - Passione Gourmet

Caffè La Crepa

Trattoria
piazza Giacomo Matteotti 14, Isola Dovarese (CR)
Chef Franco Malinverno
Recensito da Gianluca Montinaro

Valutazione

Pregi

  • Il fascino d’antan del locale.
  • la cortesia del servizio.
  • La valorizzazione delle ricette padane.
  • La materia prima di qualità.

Difetti

  • Alcune imperfezioni esecutive dei piatti.
  • La carta dei vini, sin troppo personale.
Visitato il 05-2022

Il paese, la piazza, la trattoria

Chi è padano di nascita sa bene che, nelle piazze dei tanti paesi, paesini e paeselli (buon esempio dello Strapaese di Mino Maccari e Leo Longanesi) della Pianura, è facile – anzi, è difficile assai il contrario – che si incontri un locale che funge da osteria e trattoria. Insegne ‘storiche’, che quasi sempre risalgono a prima della guerra, e spesso addirittura all’Ottocento, quando ancora l’industrializzazione non aveva sfregiato le terre del Po.

Ebbene, e gli esempi potrebbero essere innumerevoli, in quelle osterie, su quei banconi e a quei tavolini che affacciano sullo slargo cittadino, si sono succedute generazioni e discussioni: la politica e lo sport, l’amore e l’amicizia; la religione e il lavoro. E si sono succeduti pure, di padre in figlio, di madre in figlia, pranzi familiari, feste di ricorrenze comandate, banchetti d’anniversario. Luoghi quindi che, nei propri muri e nei propri storici arredi, custodiscono il vissuto storico e sociale di una terra e dei suoi abitanti, con le loro idee e i loro slanci. E che nelle loro cucine, con altrettanta cura, serbano il ricordo di piatti antichi e di ricette di famiglia.

Non ci si può non emozionare – quindi – quando si varcano le soglie di questi luoghi. Quando si vede che le giovani leve, secondo capacità, indole e inclinazione, raccolgono il testimone di genitori e nonni. Come non ci si può non dolere quando, per i casi della vita, uno di questi baluardi di storia ‘cambia pelle’, o chiude i battenti.

Caffè La Crepa: il passato vivo e presente

Per fortuna, e lungimiranza, più che viva è una di queste insegne: il Caffè La Crepa di Isola Dovarese (CR), della famiglia Malinverno. Adagiato su una magnifica piazza d’impianto gonzaghesco, in quello che secoli fa era il Palazzo della Guardia, questo locale (la cui fondazione risale al 1832) è uno degli esempi più fulgidi di quel ‘vissuto collettivo’ di cui si scriveva sopra. Ma è anche un vivo modello di un modo di intendere la cucina come patrimonio culturale, inscindibile dalla terra circostante e da coloro che l’hanno abitata. In un simile contesto sarebbe riduttivo – quindi – usare il termine di «cucina di tradizione», perché alla Crepa non si propone una banale ‘cucina di tramandamento’, di mera riproposizione. Ma una cucina che, continuamente, attualizza il passato, rendendolo vivo e presente.

Ovvio è che la strada imboccata dai Malinverno non è delle più agevoli. Si deve essere all’erta: il rischio di scivolare verso la banalizzazione e la semplificazione di ‘ciò che è stato’ è sempre in agguato. Come anche si deve evitare quel senso di routine che può portare a disattenzioni e sviste le quali, seppur minime, ‘sfregiano’ piatti che, per poter venire realmente apprezzati nella loro ‘essenza’, non devono essere meno che perfetti.

Del pesce di lago e di altre delizie

Ecco allora che, senza tema di smentita, perfetto si riconferma il “Savaren” (scritto proprio così) di riso con ragù classico e lingua salmistrata, che tanto ricorda un altro savarin, ormai mitico, sino a quattro decenni fa cucinato in un’altra osteria di paese, poco lontano, appena oltre il Po, a Samboseto… Alla Crepa la superficie del chicco è liscia, la cottura da manuale (né troppo, né troppo poco), la mantecatura comme il faut: per un insieme godurioso e profumato che merita l’applauso.

Più di maniera appaiono invece altre proposte, sì centrate in gusti e aromi ma meno memorabili. La Faraona «alla creta» (si legga, a proposito di questo piatto, il passo a lui dedicato nel lunghissimo articolo-intervista a Mirella e Peppino Cantarelli, firmato da Marco Guarnaschelli Gotti, su un fascicolo di «Panorama» del marzo 1983) – per esempio – sconta un eccesso di untuosità. Mentre il trancio di storione – pesce che sino agli anni Cinquanta abitava le acque del Grande fiume, fino a che l’inquinamento, gli sbarramenti e la pesca indiscriminata non lo hanno cancellato dal bacino idrografico padano – appare un po’ troppo impersonale, ‘diviso’ com’è fra il trito di spezie ed erbe aromatiche che lo avvolge e le verdure che lo accompagnano.

Qualche dubbio solleva l’antipasto, il Piatto di pesce all’isolana, non perfetto come meriterebbe di essere. Costruito come una tavolozza sulla quale sono ‘dispiegati’ i pesci delle acque che circondano Isola Dovarese, ognuno in una sua specifica preparazione, propone: luccio in salsa, anguilla marinata, tartare di salmerino, tinca e alborelle in carpione. Sorvolando sul fatto che il salmerino non è pesce di pianura ma esclusivamente di alta quota, lascia perplessi la presentazione. Posti tutti sulla medesima stoviglia, i liquidi dei cinque assaggi fanno presto a mischiarsi fra loro, con il risultato che tutto sa un po’ di marinata e di aceto. Un peccato.

Un’ultima nota la merita la carta dei vini: vasta, spostata decisamente sulla filosofia del naturale e del biodinamico, e assai di ricerca. Una carta così tanto personale che, chi vuol bere ‘convenzionale’ (anche ad alti livelli), fatica a trovare un ventaglio di alternative sufficientemente ampio.

Una riflessione…

Su cos’è – o cosa dovrebbe essere – la trattoria c’è una certa confusione. E spesso l’uso improprio, o quantomeno impreciso, delle parole non fa altro che aumentarla. La trattoria non è un ristorante. E nasce assai prima di quest’ultimo (per motivi storici e sociali ai quali ora non accenniamo), con il preciso compito di essere luogo di ritrovo con cucina (tant’è che i termini osteria e trattoria, fino a non molti decenni fa, potevano essere usati tranquillamente come sinonimi). Alla stufa regnava la donna di casa che proponeva agli avventori pochi piatti di tradizione, preparati secondo le ricette imparate da madri e nonne, codificate nella pratica da una sorta di ‘palato assoluto’ affinato di generazione in generazione. Gli ingredienti erano quelli di stagione e del circondario, e le pietanze erano di sostanza, curate ma senza fronzoli, in porzioni abbondanti e a prezzi modici.

Cosa è rimasto di questo ‘piccolo mondo antico’? E cosa è, ora, invece, la ‘trattoria contemporanea’?

Il crinale da percorrere, per chi vuol essere vero oste e trattore, non è dei più agevoli, tant’è che per gli avventori è più facile individuare una insegna autenticamente gourmet che una insegna autenticamente ‘trattorista’. Perché, per la stragrande maggioranza dei pubblici esercizi che si autoqualificano ‘trattoria’, la semplicità è in realtà sciatteria. Il ‘tradizionalismo’ è folklore. I prodotti sono di scarso valore. Il sapere gastronomico è assente. E il ‘palato assoluto’ è sacrificato sull’altare di porzioni sin troppo abbondanti e di prezzi preoccupantemente bassi.

All’inverso, proprio perché il sentiero è difficile, altri – molti fra coloro che vorrebbero essere ‘trattori di qualità’ – scivolano nell’inverso: nella fake-trattoria. Locali leccatissimi che parodiano una ideal-trattoria che nei fatti non è mai esistita. Qui la semplicità è di parata. Il tradizionalismo è scimmiottatura. I prodotti, seppur di valore, sono slegati dal territorio. Il debole sapere gastronomico è contaminato da accenti fusion fuor di luogo. I piatti, assai esigui in fatto di quantità, sono proposti a prezzi sproporzionalmente alti.

…e un decalogo sull’ontologia della “trattoria

E allora si ritorna alla domanda di partenza: cosa dovrebbe essere oggi una trattoria? Fornire una risposta sintetica e univoca è arduo ma ci sono – ad avviso di chi scrive – alcuni punti che non si possono eludere. Il primo è che la trattoria ha una ‘missione’: divulgare culturalmente il proprio territorio (storia e usanze), custodendone il passato e creando concrete prospettive per il futuro della tradizione. Il secondo è che la trattoria deve essere riconoscibile per identità e proposte.

Il terzo è che la trattoria deve essere vera e autentica, accogliente e conviviale, senza affettazione e forzature. Il quarto è che le ricette, seppur arrivino dal baule della memoria, non sono sacre: vanno riviste e aggiornate alla luce dell’evoluzione del gusto, dell’ispirazione del momento e delle nuove possibilità che la tecnica mette a disposizione dei cuochi. Il quinto è che le materie prime devono essere di qualità, possibilmente ricercate nel territorio, stabilendo un contatto diretto coi produttori, e non acquistate dai grandi distributori dei prodotti d’eccellenza.

Il sesto è che i piatti, nella loro realizzazione, vanno studiati e contestualizzati con estrema attenzione, alla luce di palato, luogo e stagione, sfuggendo routine e manierismi. Il settimo è che l’attenzione ai particolari deve essere massima. L’ottavo è che gli elementi che concorrono alla creazione della pietanza non vanno snaturati o banalizzati ma esaltati nella loro qualità e genuinità. Il nono è che porzioni e prezzi devono essere correlati e ‘giusti’. Il decimo (visti i tempi che corrono) è che tutto deve essere improntato a un approccio ‘etico’, consapevole e rispettoso. Se così, viva le trattorie!

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1 Commento.

  • Sante Barbati31 Agosto 2022

    Articolo molto interessante e condivisibile nei contenuti. Autore competente e coinvolgente nelle sue pubblicazioni.

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