Valutazione
Pregi
- La possibilità di abbinare al percorso una proposta cocktail (probabile primato in città).
Difetti
- Cestino del pane sottotono.
- A tratti sala e storytelling rimangono intrappolati nella loro fredda essenzialità.
De la Cuisine ou de l’Art
La cucina come arte. Proiezione che continua a dividere finanche il mondo gastronomico; quale possibilità che le due dimensioni combacino, sfiora l’immaginario collettivo solamente, senza attecchirvi. Eppure, tutta “contemporanea”, la prossimità di vocazione delle due si è fatta stringente: a veicolare messaggi è anche l’haute cuisine; da lontano microcosmo di cucinieri vissuti nell’ombra, si riscopre universo di maître à penser chiamati sotto i riflettori a sensibilizzare l’opinione pubblica sul “mondo”. Nel fine dining più illuminato, la distinzione post-rinascimentale fra genio creativo e artigianato sembra assottigliarsi; in alcuni casi, scomparire. Così, per quanto la questione resti di quelle spinose, risulta non trascurabile l’impatto della prospettiva artistica sull’espressività culinaria degli ultimi decenni: ne è traccia indelebile il Dripping di pesce di Gualtiero Marchesi, ispirato dalle tele di Jackson Pollock.
Tra chi si sente artista e chi artigiano, si iscrive curiosamente alla seconda schiera Marco Martini, Chef e patron dell’omonimo ristorante con sede al The Corner, hotel locato tra la Piramide Cestia e il Colosseo. Approccio un po’ insolito per uno che ha frequentato l’istituto d’arte e la cui proposta è figlia di un principio estetico che va impreziosendosi di fantasie dai colori vividi e sgargianti. Come il rosso brillante di una coccinella. Sono le sembianze fatte dessert dell’ottima Zuppa inglese in carta; nell’attuale interpretazione del cuoco, la “pellicola” all’alchermes di botturiana estrazione viene ora punteggiata di nero, a richiamare la corazza dell’insetto, mentre la ceramica di servizio del dolce, quasi sulla falsariga nipponica del gyotaku, completa il pattern con testa e zampette. Dunque, profilo edibile e visivo si incontrano, con l’eventualità che il confine fra toque e pennello si faccia labile.
L’evocazione culinaria di Marco Martini
La strategia di comunicazione del vecchio allievoAnche detta "seppiolina arricciata", l’allievo è, secondo la vulgata comune, una seppia non cresciuta ed è assolutamente tipica della tradizione gastronomica barese che, com'è noto, prevede un largo consumo di pesce e frutti di mare spesso battezzati con termini squisitamente dialettali. Gli allievi comprendono in realtà ben tre specie diverse di molluschi, tra cui i piccoli di sepia officinalis, ovvero della seppia comune,... Leggi di Antonello Colonna però non si affida esattamente allo stesso orizzonte. Anzi. Lo storytelling è asciutto. Il servizio deliberatamente minimalista. Si “bada al sodo”, parola di Marco Martini. Nello stellato di viale Aventino risuona una ritmica di sapori nitida, talvolta intensa e perlopiù pop, raccontando di una cucina che vuole essere riconoscibile, di facile lettura, etimologicamente, laica. Ad alimentarla il ricordo. Declinazioni di ricette cult, principalmente “romane”, in grado di risvegliare le reminiscenze golose di molti. Del resto, che cos’è il cibo senza memoria? Quella di una vignarolaLa Vignarola è una ricetta contadina, basata sulla semplicità della sua preparazione e dei suoi ingredienti. L’origine del nome rimanda al termine gergale “vignarolo” identificativo dell’ortolano. Verdure della stagione primaverile, come fave e piselli, vengono saltate in padella con gli ultimi carciofi, guanciale, lattuga, cipollotto e le altre primizie rintracciabili ai margini delle vigne. Una ricetta che va quasi a... Leggi: qui meno carica al palato e sotto la veste più raffinata di un compound primaverile di piselli freschi, crema di fave fritte e brodo di carciofi, che abbraccia il calamaro e il suo “lardo speziato” in una versione piuttosto profumata e di inedita delicatezza. Definito “evocativo”, questo stile pare offrire il meglio di sé con Merluzzo, patanegra e arancia amara. Un signature storico dello Chef. Un’evoluzione, in senso lato, del più tradizionale pesce al vapore e maioneseLa maionese (dal francese mayonnaise o dal catalano maonesa) è una salsa madre, cremosa e omogenea, generalmente di colore bianco o giallo pallido, che viene consumata fredda. Si tratta di un'emulsione stabile di olio vegetale, con tuorlo d'uovo come emulsionante, e aromatizzato con aceto o succo di limone (che aiuta l'emulsionamento). La ricetta tradizionale prevede l'uso di olio d'oliva e... Leggi. In tal caso, la cottura tramite grasso iberico lascia campo a una piacevole sapidità di fondo, rivelatrice di interessanti quanto impercettibili rimandi al rancido (c’è chi ne fa un vero taste code), sorretta dalla salsa berneseLa salsa bernese o salsa bearnaise o semplicemente la bernese (in francese sauce béarnaise), è una salsa di condimento di origine francese. Strettamente imparentata con la salsa olandese da cui deriva. Questa la salsa è preparata con burro chiarificato, tuorlo d'uovo, scalogno, dragoncello e cerfoglio. Di colore giallo paglierino o opaco è cremosa e densa. Si accompagna tradizionalmente con piatti... Leggi (quasi uno splash in stile Action Painting) ma pure smorzata dall’elemento ora rinfrescante ora vegetale, nell’ambito di un quadro tattile articolato e dinamico: pelle croccante, gel agrumato, aria di verza viola; una scala di consistenze che si palesa a più riprese gustative, in diverse portate e coinvolgendo spesso riduzioni di vario genere.
Senza adoperare poi ingredienti di lusso, si attinge anche a un repertorio più classico: il Piccione. Dalla cuisson saignant la sua carne, che rimane morbida e viene affiancata dal proprio contropetto crudo. Le note ematiche rilasciate sono ingentilite dalla dolcezza complessiva di un calibrato pairing, bietola e ristretto di granchio all’anice stellato. Il “side dish”, ovvero coscia del volatile fritta – ripiena di polpa del crostaceo – e hosomaki di fegatini, sebbene sposi la logica della circolarità, o piuttosto un proposito di pulizia al palato con l’acidità del roll, non sembra accrescere il valore sostanziale del piatto. Le amuse-bouche d’autore, su tutte Nascita della carbonara e Cornetto di amatriciana, al pari di alcuni assaggi à la carte, denotano invece un progetto culinario invitante indice di maturità tecnica e solida conoscenza della materia prima.
Tuttavia, se la cucina è arte, e come tale rappresentazione che poggia sulle idee e costruisce una connessione con i suoi fruitori (le grandes tables sempre più quali dimensioni “esperienziali”), diviene allora auspicabile che un cuoco di livello vada oltre la forma e al di là dell’esecuzione, indagandone l’essenza. In questo senso, ecco che alcune delle più recenti creazioni di Martini, seppur più pulite nelle geometrie e precise nel gusto, lasciano la sensazione di essere fedele appendice del proprio codice gastronomico, ma altresì di ancorarsi a una comfort zone stilistica che in certi casi finisce per eclissarne propulsione creativa e spirito evocativo, da tempo forza del suo messaggio. L’esito rischia di apparire meno coinvolgente di quei cavalli di battaglia che, nel periodo di Stazione di Posta, lo avevano portato alla ribalta come uno dei talenti più promettenti della sua generazione. Che la tecnica sia sempre mezzo e non fine dell’espressione. Che il cuoco sia libero di sentirsi chef, artigiano, scienziato o, perché no, un artista a tutto tondo; inestimabile privilegio moderno, forse mai afferrabile quanto oggi. E, inevitabilmente, con tutti i suoi paradossi.
IL PIATTO MIGLIORE: Merluzzo, patanegra e arancia amara.