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Tecnologie radicali e il Fragolino sotto banco

Vino
Recensito da Gae Saccoccio

La vita digitale offesa

Adam Greenfield è uno scrittore e urbanista americano. Qualche anno fa ha scritto Radical Technologies un libro molto importante dove tenta di interpretare la nostra contemporaneità fluida e che Brian Eno ha definito “un testo fondamentale”.

Una serie di sistemi tecnologici complessi modella la nostra esperienza della vita quotidiana in modo inedito rispetto a qualsiasi epoca precedente, e a malapena riusciamo a capire come funzionino (…)

La tecnologia dell’informazione digitale occupa sempre più spazio nelle nostre vite. Dà forma alle nostre percezioni, condiziona le scelte di cui disponiamo e ricostituisce la nostra esperienza dello spazio e del tempo. Ci richiede di controllare saperi arcani, spingendoci dentro un costante ciclo di obsolescenza e aggiornamento che, con sorprendente rapidità, rende insensati i nostri più diligenti tentativi di restare al passo. Inibisce persino la nostra abilità di pensare al futuro e di conferirgli senso, tendendo a riconfigurare ogni discorso sulla realtà che vogliamo vivere nei termini di una scelta tra diverse gradazioni di sviluppo tecnico. L’estensione della sua capacità di organizzare la vita quotidiana è una delle cifre della nostra epoca, e per quanto potere apparente essa ci offra, i nostri tentativi di controllarla lasciano la maggior parte di noi in preda a un senso di sopraffazione e di sfinimento” 

Adam Greenfield, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana (Einaudi).

Post-umani in cerca d’autenticità

In estrema sintesi Greenfield ci sta suggerendo che la tecnologia digitale predomina il nostro quotidiano. Esercita una violenta sopraffazione sulle vite di tutti noi perché procede a un ritmo troppo veloce rispetto al nostro passo umano per cui ci troviamo sempre indietro, inadeguati e sfiniti. Oppressi. Annullati nella nostra volontà di comprendere, interpretare, re/agire. In tutto questo è la struttura percettiva stessa del nostro mondo interiore ad essere messa a dura prova. La psiche vacilla. La coscienza regredisce. Il palato immiserisce. La capacità critica di resistere agli assalti globali di queste “tecnologie radicali“ espanse cede il passo ad una resa patetica e senza speranza. La resa definitiva dell’uomo al post-umano come preconizzavano già artisti, filosofi e critici della cultura anni fa. Post Human era il titolo di una mostra organizzata 30 anni fa da Jeffrey Deitch che al tempo puntualizzava:

Ciò che sappiamo è che presto i progressi tecnologici ci costringeranno a sviluppare un nuovo codice etico. Avremo bisogno di costruire una nuova struttura morale che indicherà a ogni individuo come comportarsi di fronte alle scelte enormemente importanti che dovrà operare in termini di alienazione genetica e di ampliamento computerizzato delle facoltà cerebrali. Dovremo prendere decisioni non solo riguardo a che cosa sembra bene, ma su cosa è bene e su cosa è male rispetto alla ristrutturazione della mente e del corpo.

Nel frattempo che questa ristrutturazione della mente e del corpo è ancora in atto, i rischi di essere manipolati nei comportamenti e condizionati nella psiche da parte di una super-volontà esterna organizzata sotto forma di algoritmi insidiosi non è più distopia paranoica alla Philip K. Dick ma è diventata la nostra realtà giornaliera. Una realtà deformata e asettica. Il falso e l’inautentico spadroneggiano indisturbati ormai in ogni società umana. Città, paesi, periferie e campagne sono quasi del tutto gentrificate. L’adagio di Adorno nei Minima Moralia “non si dà vita vera nella vita falsa” è diventato da decenni il nostro pane quotidiano. Un pane bruciato da farine industriali sterilizzate. Un pane ingegnerizzato che non nutre più anzi è un cibo senza vita che intossica e depreda la salute. Siamo sempre più manipolabili e plasmati nei nostri presunti gusti estetici, desideri istintivi, preferenze politiche, tendenze sessuali, propensioni alimentari, ispirazioni spirituali. Esposti ad un bombardamento costante di informazioni avvelenate all’origine. Pseudo informazioni, fatti e conoscenze che alla resa dei conti non sono altro che squallida propaganda, slogan, marketing, tentata vendita mascherata da disinteressata comunicazione social. E intanto la cosiddetta Intelligenza Artificiale sembra aver trasformato tutto il restante attorno a sé in una vera e propria Stupidità Autentica che impera sovrana su tutto e su tutti.

In questo scenario sconfortante di finanzcapitalismo ottuso, il vino non ne esce affatto immune. Anzi, il vino come prodotto agricolo inserito in un sistema commerciale di compravendita, smerci e scambi è un “manufatto” altamente maneggiato e manipolabile così come lo è la nostra coscienza adulterata da decenni di esposizione alle radiazioni micidiali di campagne pubblicitarie o campagne elettorali camuffate da educazione scolastica e da formazione culturale dei cittadini del futuro. Una farsa inquietante che comincia dalla culla e finisce nella tomba. Una messinscena che definisce le nostre vite come gusci vuoti che trasciniamo passivamente sule spalle e quando, se mai ce ne accorgiamo, è sempre troppo tardi.

Il Fragolino della libertà

Oggi che siamo tutti così interconnessi, profilati, geolocalizzati mi pare sia sempre più evidente che la Rete è, sì relazione, ma soprattutto è una trappola mortale di massificazione. Sì, una gabbia dorata nella quale crediamo di interagire liberi ma dove in verità siamo pilotati in tutto e per tutto; dai film che guardiamo ai libri che leggiamo alle pizze che mangiamo ai vini che beviamo alle fiere dei vini dove andiamo. Non c’è alcun modo di sottrarsi a questo pollaio di uniformazione delle aspirazioni e delle tendenze. Possiamo semmai smarcarci un po’. Metterci in viaggio su sentieri meno battuti alla ricerca di chi non si è fatto ancora irreggimentare troppo né burocratizzare dal solito meccanismo produci-consuma-crepa. Vignaioli e contadini utopici fuori dal sistema delle relazioni commerciali preconfezionate dalla Rete. Uomini e donne che azzardano un diverso approccio etico all’agricoltura. Visionari che ricercano un nuovo modello economico di produzione autosufficiente – alternativa e clandestina – così da svincolarsi in qualche modo dalla tragicommedia generale pianificata della standardizzazione del gusto che ha sempre più livellato le nostre vite ad aspirazioni grigie e mediocri, tutte uguali: piatte, insipide, prive d’identità. 

Detto questo, consapevole che tanto è solo fiato al vento, ora bevo un Fragolino prodotto in poco più di dieci bottiglie dai miei amici Solarolo sui monti attorno a Rieti. Un filare d’uva fragola d’alta montagna che matura a 850 metri sul livello del mare. Uva raccolta e messa ad appassire per un paio di settimane. Struggente spremuta delle memorie d’infanzia nel bicchiere Amalfi. Volare con la mente spalancata. Sognare a denti stretti, gli occhi curiosi d’ogni cosa o persona attorno. Un sapore unico, speziato sulla lingua. Una piena soddisfazione giù giù in gola. Zero stucchevole. Nessun residuo zuccherino sgradevole. Gradazione alcolica bassa (non superiore a 10%). Proprio il gusto agrodolce dell’infanzia perduta chissà dove nello spazio e nel tempo andati. Vino di sorrisi e di pianto. Silenzio imperturbabile dei boschi dell’Appennino. Afrore rovente di campagne brulle. Terre riarse, possedute sessualmente dalla pioggia e dal sole. Acidità d’agrume giallo eppure dolcezza delle fragole di bosco. Brezza di monte sulla faccia, a rinfrescare le membra, a rigenerare le viscere. Si sente l’amarognolo accattivante dei vinaccioli, un pieno di verde asciutto succoso a saziare per bene il palato, pure se vinaccioli e bucce sono stati separati subito dopo la torchiatura per evitare la concentrazione del metanolo, per scongiurare di rimanerci secchi.

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