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La fine del sogno americano è il suo inizio

di Leila Salimbeni

Come sta cambiando New York

In un toccante articolo pubblicato su The Huffington Post Italia il giornalista italiano naturalizzato statunitense Gianni Riotta tratteggia un desolante ritratto di New York, infestata dai fantasmi non solo del passato, ma anche del presente: i nuovi poveri. Prima di lui, e allargando lo zoom, Alessandro Carrera, docente ordinario di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, su Doppio Zero aveva parlato della  pandemia di COVID-19 come della fine del sogno, e dunque del mondo, americano.

Un ritratto escatologico, il loro, dal quale non emerge alcuna speranza latente, nemmeno quella, di natura biologica, relativa all’indefessa capacità delle specie viventi, uomini e virus compresi, di adattarsi ai cambiamenti, anche quando epocali.

Eppure, proprio questa capacità di adattamento è l’essenza stessa della sopravvivenza, nonché la quintessenza di una città come New York che tante volte ha dimostrato, nella sua storia, di saper risorgere dalle sue stesse ceneri, ogni volta più forte di prima, ogni volta più assertiva, anche nel confermare il proprio modello di sviluppo, essenzialmente e compiaciutamente capitalista. E sebbene in tanti, anche tra i più autorevoli, continuino a sostenere che, stavolta, lo spettro della fine del mondo  sia davvero  imminente, alcune piccole rivoluzioni di paradigma stanno dimostrando che proprio la pandemia di COVID-19 sia non tanto la nemesi del sogno americano quanto, piuttosto, la nemesi del modello (capitalista) adottato finora. 

La rivoluzione delle piccole cose

Una rivoluzione di paradigma che ci viene offerta su un piatto d’argento, anzi su un cono gelato, da Alessandro Trezza e Monia Solighetto, di cui vi abbiamo già parlato qui. I due imprenditori che, nel giro di otto anni, hanno conquistato Brooklyn con ben tre locali e due gelaterie, sono stati sia agenti che spettatori di questa rivoluzione sovvertendo completamente il modello che li accoglieva basato sull’immediatezza, sulla replicabilità, sulla spersonalizzazione e sui grandi numeri. No. Loro hanno lavorato sulle piccole proporzioni, sulla personalità, sulla differenza e sul lungo periodo in una società dove “tutto è immediato” e spersonalizzato: una società che fa dell’uguale e dell’efficienza una necessità, a scapito dell’individualità e, di conseguenza, dell’individuo.

Loro, per tutta risposta, si sono invece creati una nicchia di resistenza che, in poco tempo, ha preso il giro trasformandosi in una costellazione dalla vocazione senz’ombra di dubbio imprenditoriale ma, anche, intrinsecamente umanista ed epicureista, visto che ha a che fare con l’uomo e col suo piacere, inteso non tanto come godimento sensuale, ma come equilibrio interiore.

A cominciare dalla natura del loro rapporto, che non è solo di tipo societario ma anche affettivo: “Quando siamo arrivati erano tutti stupiti anche solo dal fatto che moglie e marito decidessero di lavorare assieme, è una cosa molto inusuale qui”, ammette Monia. Quando poi è emersa la volontà di lavorare con gli agricoltori locali, di conoscerli personalmente, di eliminare gli intermediari, i due si sono meritati l’appellativo, tanto calzante quanto propizio, di “freaky Italian dreamers”.

Il motivo è piuttosto semplice. I due hanno infatti scommesso sulle persone invece che sul profitto, imponendo un modello alieno (freaky) che, invero, s’è rivelato vincente, tanto più in tempo di pandemia.  “Così, sin dal primo giorno ci siamo reinventati tramite un chiringuito – sorride n.d.a – che ci ha permesso di continuare a lavorare, in tutta sicurezza, mentre tutto intorno a noi si chiudevano le saracinesche delle grandi catene che, per adeguarsi alla situazione, hanno impiegato oltre tre settimane di tempo ulteriore”, spiega Alessandro. Il risultato? Che i piccoli e i creativi non hanno chiuso nemmeno un giorno e anzi sono progrediti, in un tessuto che ha spazzato via i grandi, rallentati, come si capisce, dalla loro stessa mole.

Il seme di un Nuovo Mondo

Insomma anche se ci duole ammetterlo il momento storico ci ha dato ragione, tanto che la necessità che abbiamo oggi è quella di spingere ancora di più l’acceleratore sull’aspetto qualitativo del nostro lavoro. Da gennaio 2017, però, abbiamo visto manifestarsi il peggio dell’America: si sono costruiti nuovi muri, nuovi confini, nuove disuguaglianze e, complice un Presidente con una visione invasiva del mondo, si è smesso di parlare di ambiente, di salute e, in ultima analisi, dell’uomo. Sembrerà strano, ma qui la politica si avverte in maniera molto forte: qualunque modifica della tassazione o del sistema scolastico ha una conseguenza immediata sulla quotidianità. A questo proposito, non si parlerà mai abbastanza dell’importanza che ha avuto l’orto di Michelle Obama per l’immaginario e per la cultura alimentare americana. Oggi, finalmente, sapere che la moglie di Biden voglia ripristinarlo, è una cosa bella, che fa e farà del bene a questo popolo” conclude Monia.

Questo, insomma, per dirvi che se anche il mondo come l’abbiamo conosciuto finora dovesse finire, da qualche parte germoglia il seme di un mondo nuovo che sarà sicuramente più verde, anche se un poco più piccolo.

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