Passione Gourmet Roji, Chef Francesco Franzese, Alex Pochynok, Nola - Passione Gpourmet

Roji

Ristorante
S S 7 bis 186, 80035 Nola (AV)
Chef Francesco Franzese, Alex Pochynok
Recensito da Giampiero Prozzo

Valutazione

14/20 Cucina prevalentemente di avanguardia

Pregi

  • Un esempio interessante di cucina fusion.
  • Materia prima di eccellenza.

Difetti

  • Alcune portate trarrebbero giovamento da una semplificazione generale.
  • Sala esterna rumorosa.
Visitato il 02-2017

“Una strana coppia ed una scommessa da vincere: proporre una solida cucina fusion a Nola, all’ombra del Vesuvio.”

Dopo i decennali rimandi alle grandi tavole francesi, dopo l’orda della rivoluzione spagnola e la breve fascinazione nordica, l’orientamento della gastronomia sembra sempre più spesso conquistato dal rigore e dalla filosofia della cucina giapponese, da quel culto per la materia prima ed un’offerta di preparazioni estremamente variegata, che va ben oltre il popolare sushi.
La tentazione recente poi, almeno in terra nostrana, è quella di far confluire la grammatica zen giapponese con le voluttuose rotondità mediterranee. Operazione rischiosa e di immane complessità, che offre spesso un’idea della cucina nipponica travisata e superficiale.

A Nola, in quella piana del napoletano dove il vulcano incombe, quest’idea ambiziosa invece è centrale, esplicita al punto da affidare a due chef -complementari tra loro- la cucina: Alex Pochynok reduce da Jap-One di Ignacio Ito per l’ortodossia giapponese (timidezza inclusa) e Francesco Franzese, giovane indigeno in ascesa vertiginosa dopo le esperienze culminate come chef de partie da un tale Robuchon non a caso lì al suo fianco, per contaminare, sperimentare, sparigliare. E tutto sembra funzionare.
Giappone dunque. Un alternarsi di rigorose esecuzioni come un’eccellente tempura croccante ma umida all’interno ed una tavolozza di nigiri ineccepibile per disegno e qualità, con finalmente un riso all’altezza per cottura e sapidità. Poi schegge, nelle forme e nei modi. Nella materia grezza come un riccio di intensità assoluta, o nella complessità di un dashi che bagna un raviolo di patata. Nella classica unagi, l’anguilla, laccata alla soya e proposta con quella salinità spezzata dalla cipolla di Tropea gelata, ed anche nel rito dello sciabu sciabu, nell’utilizzo dei funghi shiitake, della salsa ponzu, dello shiso e del katsuobushi per i gamberi di Mazara.
Infine suggestioni, dove più prepotente domina il territorio e la memoria dei luoghi per esempio con l’azzardo del gunkan di Kobe con provolone del Monaco e friarielli, i broccoli napoletani che accompagnano di amaro anche il black-cod al nero di seppia, oppure l’eleganza iniziale del raviolo di astice che ritiene la ricotta di bufala.

Menù stordente per quantità e qualità delle proposte. Approvvigionamento della materia prima accurata attraverso una selezione del meglio che si possa trovare sulle terre emerse e negli oceani, senza badare a costi e distanze. Estetica molto curata anche nei cromatismi dei piatti, sebbene non magnificata da un’illuminazione in sala che vorremmo più adeguata. Qualche ingrediente in eccesso qua e là, forse dovuto anche alla tentazione di una dispensa smisurata di cui si dispone dietro le cucine. Mirate semplificazioni potrebbero giovare all’essenza di alcune preparazioni e centrare meglio il connubio con la filosofia giapponese.
I dessert, quelli forse, dopo tanto coraggio ed artificio appaiono perfettibili. Ci si aspetta un formidabile wagashi con il the verde ad accompagnare, o l’azzardo di una nuova prospettiva dolce in chiave partenopea e dunque quella “semplice” composizione di petit patisserie di buona scuola che chiude il viaggio sconta una certa banalità. Bella la scelta di bollicine oltre le solite etichette, servizio in sala in costruzione, rapporto qualità prezzo assolutamente soddisfacente. E la scommessa è appena iniziata.

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