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Il Sangiovese di Fontodi

Vino
Recensito da Gianluca Montinaro

Nel cuore della Conca d’Oro

Ha appena terminato di piovere, e un arcobaleno sovrasta le colline del Chianti: Panzano con la sua Conca d’Oro. Ed è un segno che proprio là dove Iride, la messaggera degli dei, poggia il suo ‘ratto’ e ‘multicolore’ piede, ci sia uno dei tre vigneti dai quali provengono le uve di una delle etichette più note e celebri della Toscana: Flaccianello della Pieve. Dai giardini di Fontodi si ammira lo spettacolo: la vista abbraccia tutta la Conca, e buona parte dei 220 ettari che compongono la vasta tenuta della famiglia Manetti. Sicché, facendo scorrere lo sguardo dalla base dell’arcobaleno è facile scorgere, in successione, le tre curate vigne da cui giunge la selezione dei migliori grappoli per il Flaccianello. E quindi, più in giù, i pascoli e la stalla delle Chianine, e poi gli uliveti, e di nuovo a mezzacosta gli altri filari della proprietà, sino a giungere, appena al di sotto del cancello che porta alla cantina, alla prima vigna, quella dalla quale prese vita, nel 1981, Flaccianello. Ma se si sposta poi lo sguardo a destra, ecco la romanica pieve di San Leolino. È dai filari reimpiantati nel 2004 (un cabreo della metà del XVI secolo dimostra che su questo appezzamento in antico cresceva la vite) che giunge Terrazze San Leolino, apparso per la prima volta sul mercato con l’annata 2019. E quindi, poco distante, l’altro cru di Fontodi, l’antica Vigna del Sorbo, da cui nasce l’omonima etichetta.

Una tenuta, quella di Giovanni Manetti, che è un ‘piccolo regno’: qui la sua famiglia, e quella di suo fratello Marco, vivono dal 1968. Ma la storia dei Manetti rimonta a ben prima, sino al 1780. È in quell’anno che la famiglia inizia a dedicarsi alla produzione di Cotto Imprunetino. La loro fornace (ora chiamata Manetti Gusmano & Figli) lavora argilla di galestro, e si fa presto conoscere per la sua manifattura di qualità. È il papà di Giovanni e Marco – Dino – ad acquistare il nucleo iniziale di Fontodi, e a produrre i primi vini, già con visione pionieristica («mio papà – ricorda Giovanni – non ha mai usato diserbanti»). La generazione successiva si appassiona presto a questa nuova avventura, sposando sempre più l’idea di una agricoltura rispettosa e sostenibile. D’altronde perché rovinare con prodotti di sintesi il paesaggio della Conca d’Oro? Una terra ‘benedetta’ questa: un anfiteatro naturale di variegati terreni di volta in volta a prevalenza di galestro, di alberese, di pietraforte. Eppoi la buona altitudine, la bella insolazione, la perfetta ventilazione, l’ottima escursione termica fra il giorno e la notta. Insomma un luogo da preservare, in tutta la sua naturale complessità. Ecco quindi che Giovanni Manetti decide, all’inizio degli anni Novanta, di imboccare la strada del biologico certificato, cercando – laicamente – di creare un circolo virtuoso, «un sistema chiuso improntato all’autosussistenza», che leghi fra loro, senza forzature, la terra, gli animali, le piante, il vino, l’uomo. Sicché la prima non è trattata con la chimica, i secondi contribuiscono a mantenere la biodiversità, le terze, inerbite, sono concimate con un compost autoprodotto con gli sfalci delle potature, le vinacce e il letame delle sessantacinque Chianine che la famiglia alleva libere, il quarto viene prodotto rispettando l’integrità naturale delle uve, il quinto mette al servizio dell’intero ciclo le sue capacità (per esempio, giusto per dirne una, tutti i processi in cantina sono effettuati su livelli discendenti, in modo da operare per gravità, senza forzature).

Un esempio che è stato poi seguito anche da altri produttori di Panzano, tanto che, nel 1995, qui è nato il primo biodistretto vinicolo del Chianti Classico, e d’Italia, con lo scopo da un lato di produrre vini salubri, dall’altro di salvaguardare l’originaria armonia di questi luoghi. Un biodistretto «che ora – dice con orgoglio Manetti – raggruppa ventitré aziende, su 700 ettari». Le vigne di Fontodi, che hanno un’età media di quarant’anni, sono tutte allevate a guyot, «scelta che ci permette di controllare le gemme», e si estendono su 100 ettari. La raccolta e la selezione delle uve viene compiuta manualmente da persone che lavorano con la famiglia Manetti da tanti anni, e che conoscono le vigne alla perfezione: «E questo fa la differenza – ricorda Manetti – sia nella gestione delle piante, sia al momento della vendemmia e della vinificazione, che avvengono per partite separate. Perché, per ottenere un buon vino il territorio è più importante della cantina».

La degustazione

Ovvio che tutto questi aspetti abbiano poi trovato un evidente riscontro nella degustazione durante la quale si è potuto apprezzare da un lato la coerenza stilistica complessiva (i vini fuggono le facili rotondità, esprimendosi piuttosto nella complessità di tutte le loro componenti minerali) e, dall’altro, le differenze date dal terroir e dalla sua interpretazione. L’assaggio – centrato sulle ultime annate, da poco imbottigliate – ha preso il via con l’unico bianco secco della maison: Meriggio, Colli Toscana Centrale Igt 2022. Blend di Sauvignon (90%) e Trebbiano (10%) provenienti dal vigneto La Rota. Il vino, che fermenta e matura sui propri lieviti metà in acciaio e metà in anfora (prodotte dalla fornace di famiglia, secondo l’antichissima tecnica del lucignolo) per sei mesi, si presenta con un profilo aromatico di vibrante freschezza (le escursioni termiche fra il giorno e la notte enfatizzano l’espressività dei terpeni). Le classiche note erbacee del varietale si distendono però su una mineralità evidente e fine, quasi da Valle della Loira. Il bouquet, seppur non amplissimo, si delinea elegante fra note di fiori bianchi e gialli (la ginestra è percepibile), rimandi di erbe aromatiche (timo, ma anche ortica) e frutta (mela cotogna e agrume), sposati a una soave verticalità. In bocca a prevalere sono ancora la freschezza (che sfugge però l’acidità) e la mineralità, che trovano poi un equilibrio nelle sensazioni caloriche e pseudocaloriche che accompagnano il sorso in fine di bocca con pulizia e bella lunghezza.

Il Sangiovese secondo Fontodi

Si è poi passati alla batteria dei rossi, tutti Sangiovese in purezza. Filetta di Lamole Chianti Classico Docg 2021 arriva dai vigneti terrazzati di Lamole, con i suoi secolari muretti a secco che impediscono il dilavamento e conservano il calore diurno, mitigando l’escursione termica notturna, qui importante perché i filari si spingono anche a una altitudine di 600 metri. Il terreno è ricco di galestro e alberese, e fornisce ai vini una forte trama minerale che esalta le caratteristiche varietali del Sangiovese. Il naso rapisce per la netta viola mammola, per il frutto croccante (mora e susina rossa) e per la piacevole sensazione balsamica nella quale si possono intravedere lievi accenni di speziatura (il vino affina per diciotto mesi in legno). Il sorso è guidato con abilità dalle ‘durezze’: la vivida freschezza e la gagliarda mineralità appaiono in primo piano, senza però ineleganze o forzature. La soddisfazione della beva si esalta ulteriormente in centro di bocca quando il vino tende a ‘rilassarsi’, concedendo spazio ai polialcoli che presto disegnano una architettura di medio corpo, tanto agile e snella quanto leggiadra e ‘affusolata’. Se, in questo quadro di complessiva piacevolezza, è forse solo il tannino ad apparire ancora un po’ giovane, ciononostante non appare fuor di luogo, esaltando anzi le precipue caratteristiche di Filetta di Lamole.

Fontodi Chianti Classico 2021 Docg è l’etichetta che – con le sue oltre centocinquantamila bottiglie – copre quasi la metà della produzione di Fontodi. Nasce dall’assemblaggio delle uve di diversi vigneti e, dopo aver fermentato e macerato in acciaio, matura per almeno un anno e mezzo in legni di differente grandezza. È un vino che, benché si tenda a berlo giovane, meriterebbe di riposare in cantina per alcuni anni (anche una decina), per essere apprezzato nel pieno della sua espressività. In effetti – come anche accadrà per le tre etichette successive – deve sostare un poco nel bicchiere, prima di ‘concedersi’. La prima olfazione delinea un ventaglio ‘compresso’: sì fine, sì ampio ma ‘monodimensionale’ (si aprirà poi, ormai al termine della degustazione, con soave ricchezza). Al naso sono chiaramente percepibili la viola, la rosa e – pare – un tocco di iris. Attorno danzano gli immancabili fruttini rossi e neri, dalla bella croccantezza, qualche tocco di pepe, una leggera sfumatura di bosco e di macchia, una decisa verticalità. Ed è proprio quest’ultima a dirigere il sorso, che presto disvela una struttura ampia ed elegante, giocata fra note caloriche, pseudocaloriche e una fine acidità, con ancora un tocco di astringenza tannica. La chiusura è ampia, lunga e profonda, nonché assai pulita.

L’assaggio comparato dei due cru di Fontodi, Vigna del Sorbo Chianti Classico Gran Selezione 2020 e Terrazze San Leolino Chianti Classico Gran Selezione 2020, svela quella che è la vera anima di questa azienda. Il primo è un’etichetta nata a metà degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso, e proviene da un appezzamento esposto a Sud-Ovest, da viti che hanno ormai sessant’anni. Dopo aver fermentato spontaneamente e macerato in acciaio, matura in barrique e botti di rovere francesi (in parte nuove) per almeno due anni, prima di affinare ulteriormente in bottiglia. Il secondo è invece l’ultimo nato di casa Manetti. Il vino proviene dai filari reimpiantati nel 2004 appena sotto la pieve di San Leolino, e questa 2020 è la seconda annata di produzione. Le due etichette rendono bene l’idea che Giovanni Manetti ha del Chianti: «è inevitabile, nonché giusto, che si vada sempre più verso una definizione territoriale del vino: perché il territorio è più importante delle pratiche di cantina. E il vino deve tendere a rispecchiarlo fedelmente». Sicché le due vigne raccontano storie ‘diverse’, secondo però un medesimo impianto stilistico. Vigna del Sorbo, che affonda le sue radici nel galestro, appare più nerboruto: il bouquet è ampio e fine, con i fiori e la frutta in primo piano, e quindi note balsamiche e di bosco, un po’ di spezia (tabacco) e una verticalità larga e possente. Più stilizzato è invece il naso del Terrazze San Leolino, che nasce su un terreno a prevalenza alberese (arenaria e calcare). La viola sembra come rarefatta, fra richiami di rosa antica, di erbe aromatiche (il timo è ben percepibile), di pepe bianco e quasi di sasso marino. Anche il sorso si dipana secondo distinte ritmiche: cadenzato e ‘militare’, il Vigna del Sorbo mostra tutto il proprio allure nella netta definizione delle sensazioni, quasi scolpite fra una sapidità sontuosa e una morbidezza costruita con sapienza. Proprio per il suo corpo il vino merita di rimanere in bocca un poco più a lungo: solo così se ne riescono ad apprezzare l’architettura equilibrata, l’intensità dello slancio e la finezza della profondità, che chiudono la beva con estrema soddisfazione. Il Terrazze San Leolino pare invece fare il controcanto. La bocca è tesa, come allungata in una espressione minerale più magra e sfilata, ma di tempra estrema, che tiene bene il passo di un polialcolo fitto e morbido, e di un tannino setoso e levigato. Ma è in fondo di bocca, mentre si apprezzano corpo ed equilibrio, che il Terrazze San Leolino mostra la stoffa del campione. Non solo per la lunghezza infinita e la pulizia estrema, ma per l’eccellenza della qualità. Il vino torna e ritorna, come un eco che pare senza fine.

A chiudere, ecco infine il vino-vessillo di Fontodi: Flaccianello della Pieve Colli Toscana Centrale 2020 Igt. Frutto, dagli inizi degli anni Duemila, della selezione dei migliori grappoli di tre vigne ‘benedette’ della Conca d’Oro (in piccola parte vinificati in anfora), questa etichetta rappresenta la quintessenza dello stile della maison: quindi grande carattere e definita mineralità accompagnati a una sensazione di generale levigatezza. È un Sangiovese ‘sentimentale’, quello di Flaccianello: il naso riporta, oltre i classici fiori e frutti (viola, rosa scura, ribes nero, prugna, melograno…) note di spezie orientali (pepe e cardamomo) unite un sentore di erbe officinali e a una grande verticalità. In bocca è imponente, ma non pesante. Subito si avvertono le morbidezze e una complessa mineralità, seguono poi un tannino setoso, una bella sensazione calorica e una freschezza di gioventù che accompagna il sorso con eleganza, ampiezza, lunghezza e pulizia. La percezione generale è quella di un vino di corpo ma che sfugge il pericolo della concentrazione, in una agilità fine e netta che acquista spessore nelle interminabili sensazioni retronasali. Un capolavoro!

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