Passione Gourmet La Terrazza - Portofino (GE) - 2021 - Passione Gourmet

La Terrazza

di Gianni Revello

Tutto torna: come Luigi Taglienti nella sua Liguria

Un giorno d’estate del 2010. Esco dalla spiaggetta libera di Paraggi dopo un bel bagno nell’ancor popolato di pesci, splendido, tranquillo piccolo Golfo (andavo molte volte d’estate, adesso meno), c’è lì giusto a due passi il ristorante dell’Hotel Eight, butto un’occhiata sulla carta, mi fermo incuriosito, bastano poche parole risonanti area linguaggio-gusto (testo ricco o scarno, poche o tante le parole, non importa, da come sono scelte e accostate si capisce in buona misura come si mangerà, quello che passa per la lingua, sia prima che dopo, non può mentire).  

Mi informo. È arrivato per una consulenza stagionale, e sarà presente in loco per parte della settimana, uno chef molto giovane che non conosco, Luigi Taglienti. È già stellato a Cuneo, ma di lui non si parla molto. Decido di prenotare per la sera, ma non sceglierò alla carta. Come mi piace, …se sento il richiamo (alla Jack… London!): carta bianca!

Quello che arriva (ho conservato il testo e ricordo in buona misura i piatti) di portata in portata mi lascia sempre più sorpreso, ed è dir poco. Otto piatti: Gambero rosso di “Santa” con burratina e ciliegie. – Scampo di Oneglia, banana flambata, brina di Ace. – San Pietro, pesche, brodo di San Pietro con tè verde.  – Riso ai crostacei profumato al limone.  – Spaghetti, aragosta, champagne rosé. – Pescatrice in civet come in Piemonte. – Baccalà pensando a una Burridda di stoccafisso alla ligure. – Kandinsky di cioccolato bianco con ricci di mare

Non sto a raccontar tutta la tiritera, che tra l’altro ormai si sa è un po’ fasulla, tutta la tiritera dei gusti, fondamentali o meno, che non vorrei annoiare ancora una volta ogni altro palato mentale (la primogenitura del concetto di palato mentale è di Adrià, fine anni Novanta). Piuttosto, nel giovane Taglienti: tecnica già matura, originalità degli accostamenti e dei rimandi, idee, alcune delle quali riviste poi altrove. Cucina in libertà d’assoluto politeismo, il tratto allora e oggi più saliente. Tecnicamente e nel pensiero molto salda, e allo stesso tempo fuori dai massimi sistemi, dunque rinfrancante di fronte ai nuovi di epoca in epoca dettati ideologici volti a spiegare al cuoco quel che dovrebbe fare, nello specifico oggi …per la squadra, per il prossimo, per la comunità, per il paese, per il bene dell’umanità, …per il Pianeta! E dire che per tutto basterebbe …l’arte.

In ogni caso, ho poi seguito negli anni Taglienti nella sua crescita, in special modo a Milano. Lo tengo, assieme a non pochi amici, nel novero ristretto dei più bravi del Paese, dunque un valore che va anche al di là dei confini. Non solo, ho letto, non ricordo dove, di qualche gourmet (ma non sarebbe arrivato il momento, questa parola, di rottamarla?) che lo considera il cuoco più sottovalutato d’Italia. Le sedi dove ha esercitato la sua arte non sono state poche. Mi viene in mente il recente “Filosofia della casa” di Emanuele Coccia, dove verso la fine dice che ormai la nostra casa è dappertutto. Dappertutto, dunque, anche il ristorante. Fatto sta che con Taglienti parlandone abbiamo concluso che lui s’è portato avanti 🙂

Ma arriviamo alla casa attuale, lo Splendido di Portofino, dal 1901 a tutt’oggi uno degli hotel più belli d’Italia.

La cosa migliore è leggere i testi ufficiali:

Sono felice di accogliere nella mia cucina la brillante creatività dell’amico Luigi e onorato di poter annoverare alcune sue creazioni nel Menù de La Terrazza. Le sue radici liguri si rinnovano così a Portofino, terra meravigliosa che lega ulteriormente la nostra unione in cucinaCorrado Corti – Executive Chef Hotel Splendido

Allo Splendido ci venivo da bambino, ricordo l’odore dei fiori, dell’acqua salata della piscina sulla pelle e gli occhi accecati dal sole. Ci sono tornato più volte come semplice cliente deliziato dalla cucina di Corrado e affascinato dalla vista strepitosa. Tornare a vivere e lavorare nella mia terra, è stato un desiderio ricorrente negli ultimi anni. Portare la mia visione e la mia conoscenza allo Splendido, è un sogno che si avveraLuigi Taglienti – Project Chef de Cuisine Hotel Splendido.

Il menù degustazione di Luigi Taglienti a La Terrazza

Amuse-Bouches: Pinoli tostati e pestoFossile con mandorla e harissaCondigionMinestrone freddo alla genovese

Qui la territorialità (peraltro centrata in pieno) è solo la cornice, all’interno della quale vale la bellezza, la tipicità, la pulizia, la profondità dei sapori. Il ricordo più nitido è quello del condigion (antenato e parente povero ma felice del più ricco cappon magro), insalata tipica ligure qui nella versione ponentina, più magra (ancor più efficace il sapore pieno e senza sbavature che aveva).

Quintessenza al chinotto

Quanti ricordi ne ho. Agrume per eccellenza del savonese. Il più delle volte candito o, ahimè, sciroppato. Ma indimenticabile ad esempio l’uso provato in un dessert di Cracco, e in un pre-antipasto di Lopriore. O da ultimo in piatti del nostro a Milano al Lume. Inizio del pasto importante con un liquido, caldo o freddo, com’era nel classico. Qui splendida ouverture in stimolazione, il chinotto quintessenza non è sapore domestico.

Gamberi, ricci di mare e carpacci

I due gamberi viola di Santa Margherita semplicemente spaziali, erano stati pescati da non molto e portati su allo Splendido. Di codesti pregiatissimi, che vivono a grandi profondità, poche volte ne ho mangiati di così. Per loro più che mai valida la regola che il gambero è straordinario quando, rari casi qualità-freschezza, il gusto della testa (ci è stata servita da ultimo, a coronamento) è ancora migliore della pur eccellente polpa del corpo del crostaceo.

Antipasto in tre parti liberamente componibili:

a) il salpicon di gamberi;
b) la spuma di ricci, olio, arachidi (semplicemente una delizia);
c) carpacci (straniante, suona monco, e invece è doppio): fassona e tonnetto rosso, anche quest’ultimo di recentissima pesca.

Il mare-terra messo in contesto gioco, che i quattro elementi singoli si possono gustare da soli o in una dozzina di intriganti combinazioni diverse.

Fior fior di zucchine trombetta

La zucchina trombetta è ortaggio tipicamente ligure e dal gusto univocamente distinto (nel senso di bontà marcatamente inconfondibile) tra la gran famiglia delle cucurbitacee. Qui strati su strati, – la crema, – la zucchina brasata, – e il fiore che, ripieno di prescinsoa, focaccia e maggiorana, fa un gran trittico regione. Ma sotto la crema ancora celavasi il bergamotto. E come peana veg questo ottimo fior fiore ci basti.

Pasticcio di scampi e ravioli

Ancora scampi di pesca locale recente, vivi, super.

Fantastici raviolini di preboggion (la raccolta delle erbe spontanee in Liguria avviene da tempo immemorabile, e anche la si faceva con miei parenti tutti), erbe che virano su squisito tipico amarognolo. Il termine pasticcio che qui il nostro chef usa in libertà gagliarda è termine singolare per la modernità in cucina, per antifrasi ricordando nel caso nostro quello delle un po’ famigerate Lasagne alla Portofino (pesto e besciamella; pei ghiotti ghiotti), ruotato invece al presente in ridondante finezza, ossimoro che è dato dalla presenza della bella cremosità sotto i raviolini e dalla perfetta bisque concentrata dello scampo, sopra.

Ma lo stile della cena sta cambiando. E intanto sul mare a Levante è sorta una gran luna piena, che ci farà da incanto crescente fine al volgere della serata.

Peperonata di acciughe

Lo chef alla mattina era di ritorno da Spessore, dove s’era vista (lui, a differenza d’altri della masnada 🙂 , in rispettosa perfetta tenuta da brigade) un’insolita scena nell’accaparrarsi tra cuochi le materie prime, quelle che c’erano c’erano, disponibili per la cena. Orbene, lo chef ha duplicato idealmente la scena creando insolito ensemble di Peperonata alla ligure (ma, ci risiamo, invece della fogliolina di basilico, sopra a corona c’era la foglia di bieta delle torte) sormontata dal meglio dell’azzurro, l’acciuga. Perfetto. Succulenza.

Sì, ma dove stiamo andando? Che non basta, scavavi e, ehi non dichiarata nel testo, sotto la peperonata… una trippa (di vitello) alla ligure. Oibò. Dopo lo sconcerto, altra succulenza, e vieppiù positivamente caotica, in the mood of, succulenza dell’insieme. Allora non posso non pensare al fatto che qui, in tutt’altro contesto, l’intruso facesse bonariamente e sornionamente il verso all’invenzioni della neo-trattoria italiana, invenzioni per le quali qualche giornalista entusiasta (…magari dopo sue tante quaresime parastellate) è giunto a coniar la locuzione, chiarissima in sé, di “carrettate di gusto” (cit.): concetto e pratica da porre all’interno di una deriva anti-marchesiana come mai in tal maniera ve ne furono, e nel ritorno, pur mutato nell’ingrediente (now more hard), sì, nel ritorno all’affastello, al gaudioso ammucchio, già stigma della (invero pure grandiosa …quando non era stracotta) cucina italica d’antan.

Ma del trippa di vitello con abitator dell’acque ricordo un fastoso Trippa, pioppini, frutti di mare (fasolari, tartufi, vongole, cozze) di Gennaro Esposito del 2012 e un vertiginoso Trippa, caviale ecc. di Paolo Lopriore del 2008. Ecc. ecc. …E vogliamo allora parlare dello storico intruso della carta, con trippa, ma stavolta di merluzzo, salame (sì, salame) e baccalà, del Louis XV, a Montecarlo?

Dopo la “Peperonata” lo slittamento aumenta, un criterio dell’arte è giusto il salto, la sorpresa, il rischio della leggerezza (quella di pensiero, scanso equivoci), che è quello dell’ultima e più bella tra le “Lezioni americane” di Italo Calvino. Si va col vento qual mongolfiera (esperienza che ho fatto e che a tutti consiglio), padroni non della direzione ma quasi solo delle altezze, gestendo il fuoco e la zavorra.

La Luna ora da qui si vede anche riflessa sul mare. Ma al tavolo la luce, ben sufficiente per l’occhio, non lo è più per le foto.

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Colpo di teatro. Piomba in scena il sociale, no, il suo spettro (Hommelette for Hamlet di Carmelo, Bene!). È in veste di condivisione! Altro feticcio della neo-tradizione, ma qui reso eccessivo e decontestualizzato fin quasi a strappar le risa. Padellata, ma grande grande (…più di quelle che danno quegli altri bravi – non manzoniani – a Paraggi), una padellata d’un profluvio di frutti di mare (guarda un po’: fasolari, tartufi di mare, vongole; ma cozze no) tutti di qualità super, serviti per tutto il tavolo. Da bagnare, traendo da capiente pentola a parte, in faconda pulizia, con loro liquido di breve cottura, intriso di spicchi leggermente aciduli di pomodorino. Da lusso d’antan (ma anche odierno) di buona buona risto-trattoria sul mare. C’è voluto un po’ di tempo frutto a frutto (rigorosamente al meglio con le mani portando alla bocca, ancora all’antica) un po’ di tempo a quasi finirlo (tutto impossibile).

Una pausa condita dalla bellezza della terrazza e del panorama e vissuta in un tempo lento di straniamento felice
E tutto questo che già nella cena è stato, e quello che ancora verrà, è ciò che via via diventa pasto memorabile, ristoro che non scinde mente e corpo. Né tutto il compitino, materico o di concetto. Né le troppe, e non più a tempo, arie, benché di bravura.

Lepre, inchiostro di seppia

E siamo all’unicum, inedito capolavoro, piatto clou della cena. La Lepre Royale, maestro della quale da anni è il nostro Taglienti a Milano, e chi non l’avesse provata ora se ne dolga! Lepre solita perfetta cottura e composizione, ma, ma, ma …Lepre royale marina! Via il foie gras. La salsa (fulcro del piatto): al 50% il sangue della lepre e il nero di seppia, al 25% un jus di canocchie, al 25% un jus de crustacés. Salsa, come qui opportuno, assai meno gelatinosa, più light della royale classica. E tra la salsa qualche fungo galletto, e frutti di mare. Per questo scomodo ancora una volta l’emergente, nel colto e nel pop, maître à penser Emanuele Coccia: “In quanto essere metamorfico, ogni specie è una sorta di zoo o giardino botanico ambulante, una collezione, un patchwork di tratti che appartengono a un numero imprecisato di altre specie.”

Il piatto di Taglienti ne sembra l’illustrazione:

Ibisco, barbabietola, pompelmo al basilico

Dessert leggero, fresco, quello che ci vuole per finire. Idem l’Anguria al Camatti.

Per un cuoco avere una buona tecnica è la base di tutto, e si sa che già saper positivamente ben copiare è difficile e auspicabile. E però dice a ragione Sol Lewitt “banal ideas cannot be rescued by beautiful execution”, dunque importante per un bravo cuoco è arrivare ad avere uno stile proprio e non copiare. Ma avere una libertà anche sul piano stilistico (già lo dicevo a proposito di Taglienti, proprio su Passione Gourmet, molti anni fa) è un di più. Lo spiega Adrià nel suo volume sulla cucina di El Bulli fine anni Novanta, primi Duemila. Ci sarebbe solo da aggiungere, che un po’ nella cucina manca, una presa d’ironia …quella che avverte sempre del rovescio della medaglia (ancora Calvino).

P.S.: dell’eccellenza del luogo e della vista ho detto, non ho detto dell’eccellenza del servizio, lo dico adesso.

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