Valutazione
Pregi
- Una cucina milanese, ad alto tasso di personalità.
- Velocità di pensiero e d’azione.
- La sua intelligente "gastronomia di periferia”.
Difetti
- Utensili e stoviglie non sempre adeguati alla corretta fruizione del piatto.
Una Manna dal cielo
Siamo nella prima periferia milanese, in Piazza del Governo Provvisorio, così battezzata a seguito dell’insurrezione passata alla storia come le Cinque Giornate di Milano. Qui, quando Matteo Fronduti ha aperto il suo ristorante, non c’erano neanche le magnolie; piuttosto, una struttura sosteneva l’edificio di fronte, pericolante e, alla sera, lo chef, che ha le physique du rôle per farlo, accompagnava i clienti alle rispettive automobili. Oggi, a onta del covid, la piazza sembra vivere la sua prima primavera e, ci piace pensare, ciò sia anche, e soprattutto, per questa “manna” che, appunto, è di nome e di fatto il suo locale.
Non la leggendaria panacea che Dio dispensò agli ebrei rifugiati nel deserto ma una sostanza concreta fatta di “fuoco, furore e mal di schiena”, così come si legge sulla sua spassosa pagina Instagram. Quanto alla realtà non virtuale, si consuma qui una cucina libera dai vincoli e dai pregiudizi, capace di esercitare sulla materia una tecnica che non disdegna, se necessario, di esasperarne grassezze, gravità, ruvidezze o umori, soprattutto se si tratta di ingredienti proverbialmente disforici come la testina di vitello, il piedino o la casseola e, così facendo, trasformarli in puro deliquio. Ciò è possibile, chiaramente, non solo attraverso questa caratteristica della cucina di Fronduti che, s’è detto, si esalta esasperando i suoi stessi limiti, ma anche attraverso la capacità di elaborare contrasti intelligenti e concreti, capaci di miscidare con disinvoltura l’alto col basso, il nobile col volgare, il ricco col povero. A beneficio di entrambi.
L’alto col basso
Più o meno pacificamente, s’intende, ciò accade nel suo riassunto di cassoela, un’antologia in cui trovare tutti i tagli rinverditi dalla verza, sottaceto e in crema, e rinvigoriti da cotture sagaci, o nella testina di vitello, che inaugura le danze, croccantissima, coi cannolicchi e il loro brodo e la mela verde a polverizzare qualunque riferimento e proiettare il boccone in una dimensione alpina, straniante ma credibilissima.
Inaspettatamente filologica la soupe à l’oignon dedicata a Valéry Giscard d’Estaing – ci siamo dimenticati di chiedere a Fronduti perché mai – filologica, si diceva, perché dalle cipolle viene ricavato, tramite aggiunta costante di acqua, un fondo concentratissimo, quasi caramellato, cui fa da contraltare il morso croccante e quasi nodoso del groviera gratinato. Molto ben congegnati i ravioli di gallina, col brodo affumicato e le alghe, come a mimare un lapsang, mentre grandissima consapevolezza, e non senza un legittimo intento encomiastico, viene dimostrata nel risotto Quasi Milano – con pistilli di zafferano e midollo crudo – di cui Fronduti rappresenta uno dei massimi esponenti in città.
Ritmato e vivace, come tutto, del resto, qui dentro, il servizio di sala.