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Viaggio in Italia con il cibo di strada (I parte)

di Giancarlo Saran

Il cibo di strada è testimone della vita pulsante delle città

Con l’arrivo della bella stagione inauguriamo una kermesse dedicata al cibo di strada, in una Penisola, la nostra, ricca di prodotti legati a tradizioni antiche. “Quando giro per il mondo è il primo cibo che assaggio per capire l’anima di un paese”, parola di Massimo Bottura, chef tristellato dell’Osteria Francescana di Modena.

Ogni città con le sue figure, come hanno raccontato nel ‘500 il romagnolo Tommaso Garzoni ne “La piazza universale di tutte le professioni” o le tele di Gaetano Zompini, con la vita quotidiana tra le calli veneziane del ‘700. Ora il cibo di strada sta cambiando pelle. Dai trippaioli che si aggiravano a piedi nelle città siamo poi passati ai food trucker, con cuochi ambulanti a bordo di mezzi multicolori (preferibilmente Apecar) e un calendario fittissimo che andava dal Festival di Cesena a Stragusto di Trapani.

Il cibo di strada, però, ha origini antiche, come a Pompei dove, accanto alle terme, si trovavano le Thermopolia, vere osterie attrezzate e, per le strade, si potevano incontrare l’insiciarius, venditore di polpette, o il pistor dulciarius, con fichi e spezie. Dopo l’oscuramento dell’epoca barbarica, con il Rinascimento le città tornarono ad animarsi e con esse i commerci. Come racconta Stanislao Porzio “ovunque si siano raccolte persone per scambiarsi le merci, si è creata la necessità di punti di ristoro”. Nella Napoli del ‘600 il boom demografico diede ulteriore impulso a questa forma di alimentazione ruspante. Molte famiglie vivevano praticamente in strada, posto che le abitazioni erano minuscole e c’era spazio a stento per dormire.

Ma alcuni anni la rivalutazione del cibo di strada sta conoscendo una nuova primavera. “Rappresenta la caratteristica dell’identità locale, l’esatto opposto della globalizzazione, il riscoprire le nostre radici più vere” secondo Andrea Carletti, un architetto che, a La Spezia, ha fondato una società che “reinventa” i mezzi con cui i nuovi ambasciatori del gusto girano l’Italia con divertenti Apecar personalizzati. Questo tipo di ristorazione ha avuto un impulso decisivo con le recenti crisi economiche. I piccoli imprenditori mobili spesso provengono da altri mondi. Architetti, promotori finanziari, etc. Hanno avviato queste attività un po’ per necessità o per semplice passione, affiancando le polpette vendute nei fine settimana a quanto già facevano prima.

C’è chi, come Mario Uliassi, chef stellato di Senigallia, si è inventato “Street Food, Good Food”, roulotte con uso di cucina progettata da Mirko Gabellini, una vita passata nel circus della Formula 1. Gualtiero Marchesi, il fu Direttore di Alma, la Scuola internazionale di cucina di Colorno, nel 2013 volle che i suoi allievi studiassero anche il cibo di strada perché “noi siamo un paese “fusion, con tante cucine, ognuna con i suoi profumi, sapori”. Ecco perché le sempre più diffuse manifestazioni del cibo di strada offrono l’occasione di conoscere prodotti che, altrimenti, sarebbero limitati al loro territorio. 

Arancina o arancino?

Accendiamo i motori, pardon i fornelli, e iniziamo una sorta di viaggio in Italia sulle orme di Guido Piovene con lo spirito di Paolo Monelli, autore de “Il ghiottone errante”, nel 1935. Spalmato in due puntate, non potrà raccontare tutto quel che ci può attendere lungo le strade e le piazze di questa Italia golosa. Incroceremo bocconi diversi, alcuni noti, altri meno. Certe tematiche sono già state descritte in puntate precedenti e di altre si andrà a raccontare più avanti. Palermo, per la rivista Forbes, è la quinta città al mondo per ricchezza e varietà di proposte stradaiole. I suoi mercati di “teatrale vitalità”, come li ha descritti Carlo Levi. La Vucciria (il più noto, assieme a Ballarò) è tra le opere simbolo di Renato Guttuso. Tutta la Sicilia è un giacimento a cielo aperto, basti pensare al melting pot di storie e tradizioni diverse che si sono sedimentate nei secoli, grazie al passaggio di Fenici, Greci, Romani, Arabi e Spagnoli. L’arancina è uno degli ambasciatori di questa Trinacria sempre diversa, tanto che, a Catania, viene chiamata arancino. L’etimo è complesso. Poiché la sua forma rimanda al frutto ecco il declinarsi al femminile, ma anche al maschile, poiché nella lingua locale fa “arancinu”. L’origine è araba, una polpetta di riso a racchiudere un trito di carne. L’idea di friggerla risale agli Svevi, per poterla conservare di più. L’aggiunta del pomodoro arriva nell’800. A Palermo ci aggiungono i piselli e la forma è sferica, per distinguerla da quella ovoidale, dove troviamo invece prosciutto e mozzarella. A Catania la forma è a cono, qualcuno dice perché rimanda all’Etna. Poi, si sa, la vulgata è mordace e quando si dice che uno è “arancinu che’ peri”, cioè un arancino con i piedi, si intende di una persona…  che pende troppo sulla bilancia. Girando per i mercati di Palermo sentirete “l’annanniu” di sottofondo, cioè i vari richiami dei venditori, sia per attirare i clienti che per salutarsi tra loro. 

Panelle e pani ca’ meusa

Come non ricordare le panelle, frittelline di ceci a farcire la mafalda, un panino con la crosta ricoperta di semi di sesamo, chiamata così in onore di una figlia di Vittorio Emanuele III oppure le stigghiole (budella di agnello infilzate in uno spiedino e poste alla brace) o i babbaluci, lumachine di terra per le quali esiste un preciso rito “cu’ scrusciu” per risucchiarle del loro goloso contenuto. Babbaluci celebrati da Pietro Germi in “Sedotta e abbandonata”, con Stefania Sandrelli. “Babbaluci da sucari e fimmini da vasari mai ti ponna saziari” (non ti potrai mai saziare di babbaluci da succhiare e donne da baciare). Di tutto e di più che potete trovare presso l’Antica focacceria san Francesco, sorta nel 1834, entro un’antica chiesa sconsacrata, liquidazione di una nobile famiglia al loro monzu’ (cuoco) Salvatore Alaimo e un altro Alajmo, Massimiliano, del tristellato Le Calandre, nel padovano, aggirandosi per le vie della città si è ispirato alla rivisitazione di un altro classico, il pani cà meusa (panino con la milza) che ha il suo ambasciatore alla Vucciria con Rocky Basile, un volto mille storie.

Il morsello di Catanzaro

Passato lo stretto arriviamo a Catanzaro. Qui vi aspetta il morsello, un mix di frattaglie di vitello. Leggenda vuole sia stato inventato da tale Chicchina, madre vedova di svariati figli che, al servizio di una nobile famiglia, portò a casa gli scarti gettati dalla cucina di tagli più nobili e sfamò la famiglia. Da sempre spuntino dei manovali locali, servito nelle putiche, piccole osterie di resistenza umana, dopo una preparazione di molte ore. Il morsello si mangia nella pitta, una pagnotta la cui mollica si impregna di sughi e sapori. Così radicato nell’immaginario collettivo da avere tre confraternite. Una, l’Antica congrega dei tre colli, al motto di “in vino veritas, in morzello salus” impone agli adepti un solenne giuramento di fedeltà: il verbale di ammissione su un foglio di carta da fornaio viene timbrato con il mento unto dal sugo del morsello.

Gnumarielli e caciocavallo impiccato

Risalendo in terra lucana incontriamo gli gnumarielli, involtini con interiora di agnello o capretto. Un vero rito, come annotava Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”. ”I macellai confezionavano la carne cotta allo spiedo in carta paglia stretta forte, per mantenerla calda. Gli acquirenti facevano un buco e poi piluccavano un pezzo alla volta”. Tra Basilicata e Irpinia ecco il caciocavallo impiccato. Una storia nella storia. I pastori di un tempo lo ponevano su un treppiede di legno, con il fuoco a latere. A un certo punto se ne tagliava il fondo e poi via di coltello. “Quando comincia a piangere, tutti fanno a gara per raccogliere le sue lacrime su fette di pane abbrustolito”, come racconta Simone Pizza. Adesso, sul web, trovate il kit pronto, di treppiede e cacio dotato, così che l’impiccagione potete tranquillamente farvela a casa vostra.

Tra pani, scagliozze e bombette: benvenuti in Puglia

La Puglia è un altro tempio a cielo aperto del cibo di strada. Un esempio? Il film “Focaccia Blues” di Nico Cirasola racconta una storia vera. Quella di un piccolo panificio di Altamura che, con i suoi prodotti da forno, riuscì a far chiudere il nuovo punto vendita di una nota catena paninara a stelle e strisce. Aggirarsi per Bari vecchia è pura libidine. Mille le tentazioni. A partire dalle scagliozze, frittatine di polenta, inserite da Newsweek tra le 101 meraviglie gastronomiche d’Europa tanto da stregare il cuoco globetrotter Jamie Oliver: “c’è una signora che siede su di uno sgabellino con una pila di fette di polenta che sembrano una catasta di lingotti d’oro”. E che dire degli allievi, seppioline crude, tagliate a listarelle, “callose” quanto basta o le bombette, nelle Murge. Involtini di carne di maiale, aromatizzati con spezie, rivestiti da un salume, farciti con il formaggio e cotti alla griglia. Si trovano nei fornelli, macellerie che, un tempo, erano meta dei contadini, al ritorno dai campi, per avere la carne già pronta senza doversi comprare la legna, buona per l’inverno. All’orizzonte si staglia oramai il Vesuvio. La pausa è dovuta, in attesa della prossima puntata. Stay tuned…  

* In copertina un frammento di Vacanze Romane (1953). Un film di William Wyler con Gregory Peck, Audrey Hepburn ed Eddie Albert.

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