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Capperi… quante storie!

di Giancarlo Saran

Sono tra gli elementi identitari delle isole vulcaniche siciliane, in particolare Pantelleria e Salina, anche se la loro presenza è diffusa in tutta l’area mediterranea. E sono un po’ simbolo di tutte queste popolazioni costrette a fare i conti, da sempre, con un ambiente tanto affascinante (il mare, il vento) quanto ostico (il vulcano).

Una dietrologia

Ne parlava già Dioscoride, in epoca romana, descrivendone le importanti proprietà diuretiche e, come lui, altri importanti luminari del tempo, da Ippocrate a Galeno. Per Domenico Romoli (detto il Panunto), cuoco tra l’altro di papa Leone X, “i capperi sono contrari alla melanchonia, fan vivace il coito” anche se il loro utilizzo ai fornelli era ancora marginale, come testimonia Baldassarre Pisanelli, medico bolognese, “i cappari conservati nel sale sono più per medicina che per cibo”. Ed in effetti, sia nella cultura rurale che nelle corti nobiliari, erano utilizzati come decotti per depurare fegato e vie digestive. In Sardegna erano la panacea per le varici degli arti inferiori, molto diffusa tra le donne. Con l’infuso di radici e germogli si alleviavano i dolori dei reumatismi. In tintura oleosa erano utili contro le emorroidi come per proteggere i volti più sensibili ai raggi solari.

La moderna scienza farmaceutica ne ha valorizzato alcune componenti quali la quercetina, un antiossidante naturale, o la rutina, che riduce il colesterolo. È un arbusto che sviluppa un apparato radicale molto esteso in profondità, si accontenta di poca acqua e non ama l’umidità, posto che un tempo lo si trovava tra le fenditure della roccia o dei muretti che delimitavano le aree coltivate a vigneto. I suoi semi vengono diffusi naturalmente dal vento come dalle lucertole che, essendone ghiotte, poi depositano i semi non digeriti in anfratti vari.

A dar supporto a quanto natura offriva, si narra che i rurali del tempo facevano a gara nel centrare, con i semi, le fenditure del terreno con le cerbottane, anche se i più saggi prendevano i rametti e, dopo averli protetti con un po’ di muschio, li infilavano nei vari anfratti. La stagione della raccolta va da maggio a ottobre ed è rigorosamente manuale, tanto è vero che, ad esempio a Salina, è tradizionale occupazione delle donne che si alternano tra le prime ore del mattino e dal pomeriggio al tramonto. Sono arbusti molto prolifici, tanto che ogni piantina produce il frutto a rotazioni cicliche di otto-dieci giorni. Quello che noi chiamiamo cappero è, in realtà, il bocciolo. I fiori, per forma e colore, sono sempre stati molto apprezzati tanto da essere definiti l’orchidea del Mediterraneo.

Fascino a cui non è rimasto indifferente un certo Eugenio Montale, con un passo che la dice lunga “fiori rosati che a sottili fili/pencolano da serti di coriacee foglie”. A bocciolo sfiorito rimane il cucuncio, una sorta di piccola bacca piena di semi, detta anche citrulicchiu dagli isolani, ovvero piccolo cetriolo. Sono quelli che si trovano abitualmente ad accompagnare gli aperitivi delle giornate estive. Una volta raccolti i capperi non possono essere consumati subito, in quanto molto amari, ed è il motivo per cui vengono sottoposti a una fermentazione sotto sale che però richiede un primo passaggio su teloni di juta, in maniera tale che i boccioli smaltiscano il calore. Se infatti venissero salati subito si disidraterebbero velocemente e perderebbero le caratteristiche che li rendono di fascinosa golosità. La salatura richiede circa un mese. Tradizionalmente si svolge all’interno delle tinedde, vecchie botti tagliate a metà. I capperi possono essere conservati sotto sale anche per anni e pur se ne esistono versioni commerciali sotto aceto va pur detto che non è la stessa cosa.

Bisogna anche dire che la produzione italiana copre circa la metà del mercato e deve confrontarsi con una concorrenza dove i costi della manodopera, dalla raccolta prevalentemente meccanizzata, ma anche la qualità finale del prodotto, sono completamente diverse. Pur se la produzione è concentrata prevalentemente in Sicilia, vi sono altre piccole enclave con le loro storie. Ad esempio in Sardegna, a Selargius, come in Puglia, ma vi sono anche i capperi emigranti. Quelli che, da secoli, allietano la comunità di Lugo di Romagna. Qui, verso fine Ottocento, il comune ingaggiò gli abitanti più volonterosi affinché li raccogliessero lungo le vecchie mura cittadine. L’attività è tornata in uso in anni recenti, ma per capperi che, raccolti e lavorati da premurosi volontari, non vengono messi in vendita ma valorizzati quale pregiato omaggio del sindaco a ospiti di riguardo o come fonte di bene augurio per i novelli sposi.

Ma è ora tempo di lasciare i muretti lungo le pareti vulcaniche e di entrare in cucina…

Qui possiamo trovare il cappero elaborato in diversi modi e di cui non si butta via niente, ad iniziare dalle foglie, che possono essere usate come componente croccante su diverse preparazioni. I cucunci, oltre che come sparring partner all’aperitivo, possono essere tostati e trasformati in granella da spargere a piacere. Anche i fiori, fritti in pastella, possono essere una piccola coccola golosa. I capperi, una volta dissalati sotto acqua corrente, sono estremamente versatili. Quelli dal taglio più piccolo possono essere consumati interi, vuoi a decorare uova sode come insalata russa o salsa tonnata. Per quelli di taglia medio grande è consigliabile tritarli un po’, così da esprimere al meglio le loro proprietà. Li possiamo incontrare nella pizza, siciliana o napoletana, come abbinati alla pasta, puttanesca in primis. Ma è la cucina locale isolana che fa la differenza. Lavorandoli a pesto, con mandorle, olio e basilico, a Salina li troverete abbinati a spaghetti o fusilli, ma anche nell’insalata pantesca, con pomodori e patate lesse. Sulla caponata poi le declinazioni del territorio si sbizzarriscono a iosa, tanto che l’accademia italiana della cucina è arrivata a censirne oltre una trentina di varianti. Nato come piatto della cucina baronale, con le verdure che andavano ad accompagnare il pesce (il capone, da cui il nome), si è radicata nella cucina popolare con le sole verdure, e la melanzana protagonista, ovvero la violetta lunga palermitana, che sopporta meglio la doppia cottura, soffritta prima e spadellata poi. Nella variante agrigentina oltre a peperoni, olive e pomodori, ecco miele e pinoli; mentre in quella trapanese entrano in gioco le mandorle, o l’aglio e patate in quella catanese. A Pantelleria ecco la sciakisciuta, arricchita da formaggio e uova. Vi è anche la versione agnostica (cioè senza melanzane) ai carciofi. Caponata talmente in spolvero che, sul finire dell’Ottocento, grazie anche alla forte richiesta dei migranti oltreoceano ne è nata la versione industriale, denominata caponatina, per il taglio più piccolo degli ortaggi.

Autentico e seriale peccato di gola del commissario Montalbano, che se la godeva ai quattro palmenti. Così ne racconta Andrea Camilleri: “Appena aperto il frigo la vide, la caponatina. Naturali, spontanee gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida.” Più di così può solo la cucina stellata. Ed ecco scendere in campo Massimiliano Alajmo, il tristellato delle padovane Le Calandre, con una sua invenzione che è entrata nella leggenda: risotto, capperi e caffè “da gustare rigorosamente con il cucchiaio di legno”. La lista stellare può proseguire con Mauro Uliassi, di Senigallia, e la sua ricciola alla puttanesca. A questo punto come negarsi i capperi al conseguente dessert. C’è ampia scelta. Si può andare dai cannoli eoliani (con ricotta di pecora, capperi canditi e granella di pistacchi) della dolceria Rundo di Salina e, giusto per finire in bellezza, ecco pure il gelato ai capperi (con l’immancabile ricotta complice). Ed è proprio il caso di lasciarsi sfuggire un ca…pperi quanta goduria!  

* In copertina, capperi in fiore a Salina. 

 

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