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Alla ricerca del vino perduto

Vino
Recensito da Gae Saccoccio

Io cerco la strada, svolto in una via, ma, soltanto nel mio cuore.

Marcel Proust

I fatti della vita

Sono convinto del fatto che solo tra i grandi artisti ci siano i pochi eletti in grado di addentrarsi nelle viscere del mondo, penetrare i misteri della vita e della natura come Orfeo nell’oltretomba.

Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo.” 

Odore e sapore sono verità del tutto personali, entità indistinte e impalpabili, sono le segnature dell’anima che contraddistinguono le predilezioni che ognuno di noi rivolge verso cibi, vini, persone, ambienti, situazioni.

C’è un’altra pagina memorabile da la Recherche che testimonia l’ironia, l’empatia verso i più umili e l’incredibile sensibilità dello scrittore francese per i piaceri della tavola, cioè “il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita”. Proust qui non si limita a stilare un elenco sterile di bontà gastronomiche, ma descrive con viva partecipazione Françoise, la cuoca di zia Léonie a Combray e il suo amore per il cibo, vero e proprio nutrimento dell’anima. D’altra parte è un pezzettino di biscotto intinto in una tazza di tè o tisana al tiglio ad aver suscitato nella mente del protagonista le memorie vivissime del suo passato, generando nella sua coscienza come dal nulla, tutto un mondo perduto che è il mondo della sua infanzia. Dalla cenere del passato il vino dei ricordi.

Alla base consueta di uova, costolette, patate, marmellate, biscotti, che ormai nemmeno ci annunciava, Françoise aggiungeva infatti – seguendo i cicli dei campi e degli orti, gli effetti della marea, le vicende del commercio, le cortesie dei vicini e il suo proprio genio, in modo che il nostro menu, simile a certi quadrilobi scolpiti nel XIII secolo sul portale delle cattedrali, rifletteva un poco il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita: un rombo perché la pescivendola gliene aveva garantito la freschezza, una tacchina perché l’aveva vista bella al mercato di Roussainville-le-Pin, dei cardi al midollo perché in quel modo non ce li aveva ancora fatti, un cosciotto arrosto perché stare all’aria aperta stimola l’appetito e fino alle sette c’era tutto il tempo per digerirlo, degli spinaci tanto per cambiare, delle albicocche perché erano ancora una primizia, del ribes perché entro quindici giorni sarebbe finito, dei lamponi che il signor Swann aveva portato di persona, delle ciliegie, le prime cresciute sul ciliegio del giardino dopo due anni che non dava più frutti, del formaggio alla crema che una volta mi piaceva tanto, un dolce alle mandorle perché l’aveva ordinato il giorno prima, una brioche perché toccava a noi offrirla. Quando tutto questo era finito, creata appositamente per noi, ma dedicata più specialmente a quell’intenditore che era mio padre, una crema al cioccolato, ispirazione, attenzione personale di Françoise, ci veniva offerta, fuggitiva e lieve come un’opera di circostanza nella quale lei aveva profuso tutto il suo talento. Chi avesse rifiutato di assaggiarla dicendo: «Basta, non ho più fame», sarebbe immediatamente retrocesso al rango di quegli zotici che persino di fronte a un’opera donata loro da un artista badano al peso e alla materia, mentre il valore risiede tutto nell’intenzione e nella firma. Lasciarne anche una sola goccia nel piatto avrebbe testimoniato di una villania simile a quella di chi s’alza in piedi prima della fine dell’esecuzione sotto gli occhi del compositore.

Il vino perduto di Alberto

I cicli dei campi e degli orti, le vicende del commercio e tutte le altre variabili temporali definiscono una continuità piuttosto organica nella storia dell’uomo occidentale. Una continuità organica che si è dissipata con l’avvento dell’industrializzazione e la scomparsa dell’universo contadino. Non è mia intenzione attaccare con la trita lagna de il passato è meglio del presente, il futuro farà ancora più schifo. Tantomeno ritengo che i vini rustici del passato non necessitassero di un perfezionamento tecnico-enologico, sì, ma tecnica ed enologia usate con coscienza senza gli abusi e le mistificazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Gli odori e i sapori a cui possiamo fare riferimento oggi nei casi più fortunati sono imitazioni contadine ben realizzate da parte dell’industria, quando non sono delle contraffazioni belle e buone. La produzione del vino ha subìto e sta subendo in maniera esponenziale questo sconvolgimento di “riproducibilità tecnica” che snatura necessariamente la matrice degli odori e dei sapori all’origine, sacrificando l’aura artigianale sull’altare del rifatto in serie o della falsa copia.

Nella bassa modenese c’era uno dei più straordinari contadini filosofi di mia conoscenza, Alberto che ricostruiva e utilizzava nel suo orto attrezzi della millenaria civiltà contadina. Alberto che citava a memoria passi nell’originale greco da Esiodo, Omero, Senofonte e i Presocratici. Alberto che incarnava col suo esempio vivente la verità rurale di un’agricoltura davvero sostenibile così come delineata dagli insegnamenti di Plinio, Catone, Columella fino al grandissimo ma ahimè dimenticato professor Draghetti, agronomo anticonformista inviso agli accademici filistei, che nel suo fondamentale Principi di fisiologia dell’azienda agraria (Bologna, 1948) intendeva la fattoria agricola come un organismo vivente radicato sulla naturale fertilità dei suoli.

I due primi maialetti che ho avuto da ragazzo li avevo chiamati Craxi & Spadolini. Mi ha dato un gusto quando ho dovuto scannarli.” 

Alberto, ho scoperto qualche giorno fa che non c’è più, fulminato dal Male dei nostri tempi. Una schicchera al cervello se l’è portato via in poche settimane. Il ricordo del pranzo passato con lui, la memoria del vino bevuto assieme fatto da lui nella sua vignetta resteranno sempre dentro di me. Un rosso aspro e vivo, beverino e campagnolo, un vino umile, senza pretese e senza etichetta, fuori dal commercio forse qualche bottiglia venduta sotto banco nei mercati di paese frequentati da Alberto dove portava principalmente le sue verdure. Un vino popolano ma senza trucchi né inganni. Un vino perduto come i cibi magici di Françoise. Un vino sanguigno che ancora oggi si può ritrovare qua e là, andando alla ricerca degli ultimi contadini filosofi appartati, sparsi sui monti, i mari e i campi della nostra straziante civiltà mediterranea.

Marcel Proust. “Alla ricerca del tempo perduto 1. Dalla parte di Swann”, (traduzione di Giovanni Raboni)

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