Il calabrone entra nella stanza illuminata, va a battere velocemente contro la lampada, le pareti, i mobili. Rumore secco delle sue zuccate. Dopo un po’ si acquatta per riprendere le forze. Ricomincia contro la lampada, le pareti, i vetri, e daccapo contro la lampada. Infine cade sul tavolo, zampe all’aria, la mattina dopo è secco, leggero, morto. Non ha capito niente, ma non si può dire che non abbia tentato.
Ennio Flaiano
Natura cultura e paradisi perduti
La scollatura traumatica tra Natura e Cultura è un processo ormai millenario, implacabile. Dice bene Massimo Montanari, Il cibo come cultura (Laterza, 2004) che “nell’esperienza umana, i valori portanti del sistema alimentare non si definiscono in termini di naturalità bensì come esito e rappresentazione di processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la reinterpretazione della Natura. (…) Ciò che chiamiamo cultura si colloca al punto di intersezione fra tradizione e innovazione. È tradizione in quanto costituita dai saperi, dalle tecniche, dai valori che ci vengono tramandati. È innovazione in quanto quei saperi, quelle tecniche e quei valori modificano la posizione dell’uomo nel contesto ambientale, rendendolo capace di sperimentare realtà nuove.”
L’uomo nel suo percorso storico-evolutivo da cacciatore nomade/raccoglitore ad agricoltore stanziale, trasforma le proprie attività di sussistenza economica, da una fase di predazione a una di produzione, definendo così gli equilibri ambientali in cui si muove, adattando il paesaggio alle proprie esigenze pratiche ed innovazioni tecniche. L’invenzione dell’agricoltura e la domesticazione di piante e animali a suo tempo è stato un momento traumatico nello sviluppo delle civiltà storiche, separando inesorabilmente l’uomo “civile” dal mondo degli animali e degli “uomini selvatici”. Il dominio dell’uomo sulla natura origina dalla necessità naturale di trarre beneficio per sé e le proprie famiglie, gruppi sociali, popoli, comunità. Gran parte dei miti di fondazione delle varie culture del mondo antico rappresentano in leggende e in racconti popolari l’invenzione dell’agricoltura come una vera e propria violenza perpetrata a Madre Terra attraverso l’utilizzo tracotante di aratri e opere d’irrigazione, da qui i tanti rituali di fecondità alla base di mitologie e religioni che presumibilmente servivano come valvola di sfogo psichica attraverso cui espiare il senso di colpa atavico per aver deturpato per sempre il “paradiso perduto delle origini”.
Il retore è nudo
È evidente che in questa prospettiva impietosa, viene smascherata tutta la stucchevole retorica di questi tempi nevrastenici che ci sciroppa un ideale artificioso di agricoltura quasi solo in chiave bucolico-pastorale. Perciò è davvero complicato in questi tempi così sospetti, esporsi con concetti quali: tradizione, territorio, identità senza cadere nella ridondanza più sinistra se non addirittura suonare banali, ipocriti o fasulli come la carta-moneta contraffatta con cui anche le grandi compagini industriali – sostenute dal demoniaco marketing – ripagano il proprio sempre più disattento pubblico in massa cavalcando l’onda emotiva della tipicità a chiacchiere o del burocratico posto d’origine protetto. Un meccanismo davvero diabolico questo per cui anche idee più nobili, le giuste pratiche o le buone esperienze affinate nell’arco dei secoli a misura umana e non su massiccia scala industriale, sono però inevitabilmente banalizzate dall’abuso di triti slogan commerciali (pasta madre, fermentazioni spontanee, lieviti indigeni, ancestrale, anfora, col fondo etc.), “espedienti paralinguistici” svuotati di significato per essere più o meno oscuramente diffusi grazie alla persuasione pubblicitaria e alle tecniche di propaganda che risciacquano a batteria il cervello dei consumatori bombardati quotidianamente da false promesse e consumistiche gioie mai mantenute.
La fine del calabrone
Alla fine dello scorso luglio (30-31) nell’ambito di Ein Prosit Summer Edition 2021 a Tarvisio assieme a Raffaele Bonivento di Meteri abbiamo presentato una degustazione di Malvasia intitolata Malvasie senza confini. Tra le diverse tipologie di malvasia del Carso, dell’Istria, della Vipavska Dolina c’erano anche due malvasie eoliane entrambe di Salina, entrambe dell’annata 2019. Abissale Vignedimare di Nino Caravaglio e Ancestrale I una malvasia macerata di Giuseppe Piero Mascoli che ha casa-cantina a Malfa accerchiata da circa 2500 m² di vigneto. Nino Caravaglio aiuta Giuseppe nella vinificazione dell’Ancestrale I. Sono vigne promiscue di uve Malvasia, Catarrato e Inzolia di 50-60 anni d’età, vinificate in un’anfora di terracotta da 750 litri, con una macerazione sulle bucce di circa una quindicina di giorni. Giuseppe a proposito del suo Ancestrale I dal colore ambrato intenso, ama citare l’esoterico René Guénon e la sua idea dei livelli di anonimato visto che “nasciamo senza affermazione” ma soprattutto Guénon identifica l’anonimato in un sentimento comune di bellezza che è la cifra stilistica dell’arte tradizionale, vedi l’architettura medioevale definita dal sopraumano per cui l’io dell’artefice si fonde nell’unità divina – l’unità per sempre perduta di Natura e Cultura? – mentre tanta arte e artigianato contemporanei sono caratterizzati da un anonimato grigio, infraumano, cioè svilito a meccanismo amorfo, dove l’io è svuotato di qualità e identità in nome della quantità industriale, riproducibile in serie. Quindi Giuseppe, lettore accanito di Simmel, Bloch, Benjamin, Adorno, identifica l’anonimato nel suo Ancestrale I come espressione collettiva, come sentimento omerico popolare di un vino che si è sempre fatto così nei millenni e dove la singolarità del vignaiolo non è messa in evidenza quale protagonista-narcisista-esibizionista ma si fa intermediario “anonimo” nella trasformazione fermentativa tra la vigna e il bicchiere. Vengono in mente le parole di Joško Gravner in conversazione sul Tempo con Vinicio Capossela nella chiesa sconsacrata di San Francesco a Udine qualche settimana fa: “Il vino è una materia vivente e di pensiero, creata dalla terra e accompagnata dal contadino.”
In etichetta al Vino I Bianco Ancestrale di Giuseppe Mascoli predomina un labirinto arcaico, un simulacro tragicomico alla cui potente portata metaforica non si sfugge. Questa malvasia è un labirinto di contraddizioni dolci e amare. Labirinto della conoscenza e dell’oblio. Labirinto che riproduce il caos dell’esistenza insensata di noi pietosi insetti umani che non capiremo mai niente del vino e dell’arte figuriamoci della vita o della morte… ma non si può dire che non abbiamo tentato, come il povero calabrone di Flaiano.
Dalla degustazione di fine luglio a Tarvisio avevo riportato a Roma un fondo dell’Ancestrale I in bottiglia che ho lasciato tappata in un angolino buio e fresco di casa. L’ho riassaggiato l’11 ottobre, cioè settanta giorni dopo, ritrovando un vino ancora sostanzialmente integro quasi come l’avevo lasciato, succoso e fragrante. Una malvasia “ancestrale” appunto, fusione sovrumana di Natura e Cultura. Un vino che non teme l’ossidazione come la gran parte dei vini tecno-enologici moderni, perché è un vino unitario, concepito d’ossigeno, di luce solare, di bucce. Un vino per tutti e per nessuno.
Ottimo. Avevoo mandato qualche nota criptica a Gae e lui si e’ mosso con agilita’, profondita’, e leggerezza (diciamo fra Heidegger e Flaiano) in questo corridoio stretto. Sullo scollamento fra Natura e Cultura, che poi e’ solo gnoseologico, dove molti si sono arenati (incluso Heidegger), suggerisco un tentativo di “rincollamento” post-umano di Eduardo Kohn, in “Come Pensano le Foreste”, che partendo da una teoria di Peirce e passando per le tribu’ amazzoniche , esplora la selva ontologica dal punto di vista di una foresta…