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The Quarantine’s Club – Martini

di Alessandro Pellegri

Martini

Parlando del Manhattan, abbiamo nominato la “sacra triade” del cocktail bar. S’intenda, nulla di precisamente definito o codificato, ma nessuno potrà mai dirvi il contrario: le tre colonne portanti, i tre cocktail più famosi della mixology mondiale, sono senza alcun dubbio il Manhattan, l’Old Fashioned e quello che probabilmente è il più importante – senza dubbio il più iconico – dei tre, il Martini.

Come già detto non amiamo sviscerare e addentrarci troppo nella storia dei cocktail, e lo amiamo ancor meno quando parliamo di veri e propri monumenti quale è il Martini. Le attribuzioni sulla presunta nascita e relativa paternità sono a decine, tutte per di più condite dall’aura mistica/iconica (una su tutte, lo “shaken, not stirred” di bondiana memoria) che negli anni hanno aiutato a costruire e alimentare il mito.

Insomma il Martini è, vogliate concederci il paragone, il Rolex Daytona dei cocktail. Se ne potrebbe parlare per ore, ma tra appassionati basta una parola per intendersi su tutto un micro-mondo.

Potete ben capire, quindi, come parlare del Cocktail Martini risulti imbarazzante, dato questo alone di mitologia che si porta dietro; un cocktail dalla semplicità spiazzante, ma che nel tempo è diventato un vero e proprio must. Un drink che riesce a trascendere il “mi piace/non mi piace”, che va oltre la semplice posizione di amore o odio, ma che vede una vera e propria fazione, dalla sua – i martiniani – che codificano un preciso stile di bevitore.

Dichiararsi tali a un bartender, quasi fosse una religione, fa sì che scattino in automatico una serie di dinamiche tali da non rendere necessarie ulteriori spiegazioni. È un vero e proprio benchmark, che permette di far capire dall’altra parte del bancone, con una sola parola, quali sono i cocktail della carta che apprezzerai e quali evitare anche solo di proporti.

Abbiamo parlato di semplicità, perché il Martini altro non è che del Gin in purezza, sporcato da una goccia, poco meno, un sospetto di Vermouth dry.

La sua versione codificata IBA è il Dry Martini, ma di versioni ce ne sono a centinaia, rientranti in decine di scuole di pensiero in merito al suo stile. Paradossalmente, nonostante la sua semplicità intrinseca, è praticamente impossibile trovare due Martini uguali tra loro, ed è uno dei drink più difficili da preparare a casa: se è vero che un Gin&Tonic bene o male viene sempre buono, fare in casa un Martini degno del suo nome è affare alquanto complesso.

Passando dagli orologi alla cucina, concedeteci un secondo paragone: il Martini è lo “spaghetto al pomodoro” dei cocktail, semplice solo sulla carta.

La ricetta IBA del Dry Martini prevede 60 ml di Gin e 10 ml di Vermouth Dry, inseriti entrambi in un mixing glass, raffreddati una trentina di secondi e filtrati in una coppetta Martini, con la finitura di una zest di limone o un’oliva.

Per di più, soltanto nei cocktail IBA le varianti a base Martini sono non meno di una quindicina.

Per complicare le cose, partendo dalla ricetta del Dry, si apre una sorta di infinito diagramma a blocchi: gin più o meno secco, variante con la vodka, vermouth più o meno dry, vermouth inserito nel drink o “in&out” solo a profumare il ghiaccio, stirrato o shakerato (grazie Fleming…), nella variante Espresso/Pornstar/Dirty/French/Vesper/Hemigway, con zest di limone, oliva o entrambe… ce ne sarebbe veramente da scriverne un libro, e talmente tante varianti da cucire un Martini (quasi) su ogni cliente.

Per cercare di fare un po’ di chiarezza in questo mare alcolico abbiamo chiesto a uno che di Martini se ne intende: Lucio D’Orsi, proprietario ed Head Bartender nientemeno di un locale di nome Dry Martini a Sorrento, dedicato, come è facile immaginare, al Re dei cocktail. Un locale che tra le molteplici e interessanti proposte vanta la Carta dei Cento Martini, ovvero cento varianti codificate sul tema Martini.

Il consiglio di Lucio per tentare di replicare un buon Martini domestico è di provare il Direct Martini, invenzione di “The Maestro” Salvatore Calabrese, bartender dal curriculum che riesce ad essere più ricco di aneddoti ed esperienze dello stesso Martini Cocktail.

Racconta Calabrese di un esigente (e particolarmente pignolo) cliente che voleva un Martini “molto secco e molto freddo”, ma quando gliene veniva servito uno molto freddo, il metodo di raffreddamento in mixing glass faceva sì che il drink si diluisse e perdesse la sua componente dry. Viceversa, quando veniva data la priorità al lato dry del cocktail, esso non era abbastanza freddo.

Calabrese quindi  pensò a un metodo per rispondere a entrambe le richieste, con una semplicità a tratti comica: pose in freezer per 48 ore una bottiglia di Gin, insieme a una coppetta Martini. Solo al momento del servizio li tolse dal freezer, versando 60 ml di Gin nella coppetta pre-raffreddata, e sporcando il drink con un cucchiaino di Vermouth Extra Dry. Così facendo, servì un perfetto Martini mantenendo fede a entrambe le richieste: “molto secco e molto freddo”.

Estremamente semplice e diretto, “Direct” perché tutto viene inserito direttamente nel bicchiere. Noi lo abbiamo realizzato con il re dei Gin, il secco e meraviglioso Crown Jewel di Beefeater, finito da un cucchiaino scarso di Martini Extra Dry e una scorza di limone, prima strizzata sulla superficie del cocktail e poi inserita a lato dello stesso.

Varianti

Proporre una variante del Martini, per gli innumerevoli motivi di cui abbiamo parlato sopra, non è certo affare per deboli di cuore: scegliendone una se ne omettono a decine altrettanto interessanti o importanti. Noi ci abbiamo voluto comunque provare, proponendone una versione comunque agilmente realizzabile a casa, molto caratterizzata e ben codificata, ma soprattutto adatta da proporre a chi trova il Martini classico eccessivamente secco: eccovi il Breakfast Martini.

Iniziamo con il premettere che l’inventore del Breakfast è, ed è un caso (o forse no), sempre Salvatore Calabrese.

Viene realizzato shakerando 50 ml di Gin, 15 ml di Triple Sec, 15 ml di succo di limone, e 1 bar spoon di marmellata di arance.

Noi abbiamo utilizzato il come da ricetta 50 ml di Star Of Bombay, unito a 15ml di Cointreau, del succo di limone spremuto fresco e un bar spoon (o due cucchiaini da caffé, se non disponete dello stirrer) di marmellata di arance Callipo, avendo cura di evitare i pezzi di scorza troppo grossi per non rischiare di occludere i fori filtranti dello shaker. Inserire, appunto, tutti gli ingredienti nello shaker, riempito come sempre a metà di ghiaccio. Shakerare per trenta secondi, servire in una coppetta Martini ghiacciata e finire sempre con una scorza, ma questa volta di arancia.

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