Una delle affermazioni più ricorrenti quando si parla di sushi è relativa all’importanza che ha il riso nella composizione del pezzo perfetto. Per alcuni incide anche per il 70% sul risultato finale e anche noi di Passione Gourmet lo abbiamo sempre sostenuto con forza. Ci stiamo riferendo a quello che è definito “shari”: consistenza del riso, temperatura, quantità, acidità. Sono tantissime le varianti possibili che si possono incontrare tra i tanti sushy-ya di Tokyo.
Minor peso si tende a dare al “Neta”, cioè il pesce, il topping. Ma il taglio, la frollatura, la quantità e il gusto dato dal neta sono tasselli fondamentali. La frollatura in particolare ha un ruolo principe per raggiungere il gusto e la consistenza migliore.
Bilanciamento, precisione e armonia tra le due componenti vanno a comporre il sushi perfetto.
Kiyota Sushi fa vacillare questa regola non scritta sul rapporto di forza tra Neta e Shari e lo fa offrendo al cliente semplicemente il miglior pescato che nella sua vita possa aver mai assaggiato. Intendiamoci, non si tratta solo di pesce superbo, ma anche del modo in cui viene preparato e servito.
Questo è un tempio del sushi: in questo locale ha officiato per anni Takeaki Niizu, che è stato, tra gli altri, il maestro di Araki (ora trasferitosi a Londra) e Sawada.
La mano è passata poi a Masa Kimura e ora c’è una ennesima nuova generazione dietro il bancone.
Kiyota Sushi è uno dei locali più costosi di tutto il Giappone; molte delle sue fortune sono legate proprio alla qualità assoluta del tonno che viene servito, a detta di tutti il miglior tonno (e il più costoso) che possa essere trovato al mercato del pesce di Tokyo.
La fase iniziale del pasto è dedicata al sashimi: non abbiamo difficoltà a dire che questa parte ci ha letteralmente sconvolto, costringendoci a riparametrare tutte le nostre convinzioni relative alla qualità del pesce e al modo di trattarlo. Un sashimi da 20/20, incredibile per gusto e consistenza.
Poi si passa al sushi: lo shari è delicato, estremamente elegante, ideato per lasciare spazio al pesce che compone ogni pezzo.
Non si ravvisa la stessa tecnica che si può ritrovare, ad esempio, nel sushi di Jiro, un vero Maestro nel corretto bilanciamento tra shari e neta e nella capacità di costruire quello strato d’aria tra riso e pesce che rende ogni boccone entusiasmante.
In alcuni pezzi le quantità non sono risultate perfette (troppo riso o troppo poco) e le due componenti sono risultate slegate.
Ma il pezzo con i ricci di Hokkaido, non comune da trovare come nigiri, rimarrà a lungo impresso nella nostra memoria: un boccone da Re, anzi, da Imperatore, forse uno dei migliori sushi mai mangiati. Così come tutti gli sconvolgenti pezzi di tonno, di qualità incomparabile. O ancora cosa dire degli Shirauo (Ice-fish), serviti sia come sashimi che come sushi, il pesce che più di tutti rappresenta l’arrivo della primavera in Giappone: semplicemente paradisiaci.
Un costo da pagare molto, molto alto, ma una esperienza incredibile, capace di regalare in più di un’occasione quei brividi che tanto ricerchiamo nelle nostre scorribande gastronomiche.
Sorge nella zona di San Giuliano a Mare SanSui Japanese Garden Restaurant, l’intrigante ristorante giapponese che non ci ha affatto delusi, al netto delle premesse non certo incoraggianti. Se già è difficile, anzi quasi impossibile, degustare del buon sushi a Milano, figuriamoci a Rimini! E invece no. Nelle nostre plurime visite, a dire il vero, abbiamo riscontrato una certa alternanza di qualità. La domenica, ad esempio, il riso era poco cotto e mantecato non a dovere, pareva quasi vecchio. di sabato sera, invece, abbiamo trovato un riso perfettamente condito e a temperatura quasi perfetta, oltre i 30 gradi. Ci riteniamo comunque soddisfatti di un prodotto portato a giusta temperatura, cottura e condimento. Il riso tiepido è una rarità dalle nostre parti, purtroppo. Qui viene inoltre servito con interessanti varianti, anche con una Triglia e dei Gamberi dolci fenomenali. Peccato per il Toro, riportato in carta, ma mai presente e disponibile alla degustazione.
Ottimi anche gli Udon, qui assaggiati in una versione asciutta – primaverile – e ottimi anche i dolci, con i Dorayaki decisamente all’altezza. Completano il quadro un servizio informale, ma garbato, gentile e pronto, e una serie di salette, muovetevi molto prima per la prenotazione, davvero in stile giapponese e molto intriganti. Il dominio del ristorante è registrato in Giappone, buona intenzione dei proprietari a fornire un segnale rassicurante.
Ecco quindi un punto di riferimento, per chi ama la movida riminese, e vuole rimanere al passo con le migliori notti milanesi. Non ve ne pentirete affatto.
Masashi Suzuki, lo chef di questo delizioso localino dietro a porta Venezia, è una vecchia conoscenza: per anni chef del Finger’s Garden, ora ha aperto il suo locale, un sushi bar -anche se è particolarmente riduttivo nominarlo così- con pochissimi coperti in una delle zone più chic di Milano.
Al massimo una decina abbondante di avventori, per sei giorni su sette, possono avere il privilegio di degustare una selezione di sushi speciale dello chef, fatti davvero molto bene. Riso ad una temperatura corretta, proporzioni tra pesce e riso perfette, ingredienti di ottima qualità. Forse migliorabili la qualità e il condimento del riso, da cui ci saremmo aspettati molto di più.
Ma il vero fiore all’occhiello è ovviamente il menù omakase, un misto di sushi, sashimi, tempura e molte delle altre preparazioni tipiche del sol levante, mixate secondo l’estro giornaliero di Masashi San.
Qui il neta dei singoli nigiri è fatto dallo chef, e non è dunque necessaria la scodellina di salsa di soia a lato; questo è uno degli innumerevoli dettagli che vi faranno comprendere come questo luogo si stagli sulla quasi totalità dei locali di questo tipo sparsi per Milano.
Non ultimo, tutt’altro, un plauso al servizio: gentile, premuroso, dedito e ossequioso. In perfetto japanese style.
Vi divertirete certamente in questo luogo essenziale, in cui potrete respirare tutta l’aria autentica del Giappone più profondo. Fatta di tanta gentilezza, ossequioso e quasi religioso silenzio, che vi porterà a tavola uno dei migliori sushi dello stivale.
New York.
Chi non vorrebbe, una volta nella vita, svegliarsi nella città delle mille luci e sentirsi al centro del mondo?
Quanta energia, quanta autostima ti pervade in quei momenti, forse anche troppa.
Difficile restare indifferenti al cospetto di tanta esagerazione, di tanta offerta, di tanta frenesia.
Ci abbiamo anche vissuto per qualche tempo, ma ogni volta che ci rimettiamo piede, ci sentiamo piacevolmente prigionieri di un’aurea ricca di strati e substrati, una cipolla di situazioni, etnie, opportunità.
Ecco, New York per noi rappresenta questo, e la scena gastronomica ha la stessa potenza, trasmette la stessa energia, un sacco pieno che contiene e mescola strade, luci, gente, cibo. Tanto cibo. Senza restrizioni, filtri, problemi di sorta. Perché quando ci si trova di passaggio in questo ombelico urbano, nessuno si farà mai problemi di cosa il proprio organismo possa ingerire. Se sia giusto o sbagliato, morale o meno.
Qui si prova tutto, per un viaggio andata e ritorno dal pianeta del “junk food”, ovvero del cibo spazzatura nella più ampia accezione, fino ad approdare in lussuose tavole coccolati dalle mani di cuochi sopraffini.
Perché se è vero che a New York il meglio lo riservano hamburger, hotdog, bagel, pastrami, cheesecake o pancakes (sebbene questi siano imprescindibili), è altrettanto vero che in queste strade, che sia un attico o uno scantinato, possiamo trovare tra i migliori sushi al mondo, una grandissima pizza, un magnifico piatto di spaghetti.
Perché New York è un vero e proprio crocevia di mondi che coinvolge anche e soprattutto il cibo, un luogo senza confini tra culture gastronomiche.
Quella che segue è una piccola lista stilata dopo aver filtrato e ripassato al setaccio consigli di amici, gente e guide locali, guide internazionali, esperienze pregresse e istinto.
Un piccolo assaggio di quello che vi aspetta se deciderete di addentrarvi nella variegata e poliedrica offerta gastronomica -rigorosamente di qualità- di questa città.
Cominciamo con un buon consiglio per una mattinata alternativa. Avete voglia di una colazione dei campioni? Mai provato un nutriente bagel? Il migliore dell’Upper East Side, secondo i newyorkesi è quello di Tal Bagels.
In verità una piccola catena (ma di qualità) che serve un ciambellone caldo e croccante con un companatico per tutti i gusti. Aperto dalle 5:30 alle 20.30, ne trovate ben quattro dislocati tra nord e sud in Manhattan.
Le cream cheese sono fatte rigorosamente in casa.
Così come le affumicature del salmone e dello storione.
Ecco la nostra scelta: salmone e cream cheese all’erba cipollina. Abbastanza classico. Buonissimo.
L’insegna di uno degli shop, nel nostro caso al civico 977 della 1st Avenue, a due passi da Gramercy Park.
Scendendo un po’ più a sud, in pieno East Village trovate Crift Dogs.
In questo scantinato fanno dei rinomati hot dogs che sono ormai un must della città.
Non temete di impregnarvi in questo piccolo e affollatissimo “junky spot”,
perché i sistemi di areazione funzionano abbastanza bene. Vi bastano pochi dollari per assaporare questa bomba di gusto: “tsunami”: wurstel fatto in casa, avvolto nel bacon con salsa teryaki, ananas e cipollotto.
Se invece volete restare sul classico, agitate le bottigliette del ketchup perché il New Yorker va condito come si deve.
Un prodotto notevole.
Sempre nel cuore dell’East Village, nel riqualificato quartiere di Alphabet City, direttamente da Bangkok, c’è la splendida cucina Thai di Somtum Der.
Con una trentina di dollari si può provare un grandissimo il Moo Ping Kati Sod: costine di maiale marinate e grigliate nel latte di cocco.
O un meraviglioso Pad Thai, come lo Chef’s Signature Wok-fried Seafood Suki, con vermicelli di riso saltati con frutti di mare, verdure e la salsa segreta della casa “suki”. Un paio di assaggi e vi ritrovate in Thailandia.
Restando in tema, un’altra grandissima cucina asiatica fortemente radicata a New York è quella giapponese. In un piccolo ristorante del Lower East Side Ivan Orkin, che presto vedremo nella quarta serie di Chef’s Table in onda su Netflix, ha pensato di rivisitare uno dei piatti simboli del Sol Levante (in verità importato dalla Cina): il ramen.
Interessantissima la storia di questo dinamico ristoratore americano. Dopo essersi recato in Giappone negli anni ottanta per insegnare inglese, si è innamorato profondamente della cultura locale ed in particolare della gastronomia nipponica, tanto da far ritorno a New York dieci anni dopo per studiare le basi della cucina al Culinary Institute of America. Dopo alcune esperienze in città fece nuovamente ritorno a Tokyo per approfondire maggiormente le radici della cultura gastronomica e, proprio a Tokyo, nel quartiere di Setagaya, ha osato aprire il suo primo ramen shop nel 2007, riscuotendo un grandissimo successo grazie ad un imperdibile ed originale prodotto della tradizione rivisitato da un “gaijin”, ossia uno straniero. Nel 2012 ritornò a New York e un anno dopo aprì le succursali casalinghe del suo apprezzato e fortunato progetto.
C’è grande attenzione per il prodotto, ancor prima della trasformazione. Il crudo del giorno viene servito con salsa ponzu aromatizzata allo scalogno, shiso fermentato e wakame.
Ma lasciate spazio per le ciotole con il ramen in brodo. Il “Vegetarian Ramen” presenta un brodo fatto con salsa di soia, brodo vegetale, funghi enoki, pomodoro arrosto, koji tofu e noodles di farina di segale.
Il ramen imperdibile è il Tokyo Shio, con corroborante brodo di pollo e dashi, pancia di maiale, uovo morbido, enoki e noodles di farina di segale, al prezzo di 16 dollari.
Continua.
Il panorama della ristorazione etnica romana, alquanto statico in sé, riesce sporadicamente a regalare qualche piccolo sussulto degno di attenzione. Il segmento che riguarda la ristorazione giapponese, cui non neghiamo essere piuttosto sensibili, sembra essere in una fase di particolare fermento.
Una delle testimonianze più interessanti risiede dall’estate del 2015 nel piazzale del Verano, dove Atsufumi Kikuchi, già al timone di altri indirizzi romani, ha aperto il proprio locale.
La sala principale, molto lineare, forse un po’ troppo, al punto da apparire quasi algida, presenta il classico bancone con sedute dove è possibile osservare in tempo reale le varie preparazioni mentre si chiacchiera con i propri commensali.
Il menù non è legato solo a sashimi e sushi, presente anche in contaminazioni varie come i california roll, ma contempla anche tempura, carpacci e insalate proposte in grande varietà.
Il raggiungimento dell’offerta presente a Londra o Parigi, dove anche i grandi maestri giapponesi decidono di aprire i loro piccoli atelier in cui proporre la loro liturgica e ultraspecializzata abilità, sembra ancora decisamente di là da venire nella capitale, ma il livello del sushi di questo locale è buono, e con un rapporto qualità prezzo interessante permette di passare piacevoli serate a prezzi alquanto ragionevoli.
Mise en place.
Alghe marinate al sesamo.
Omakase Hana: salmone, ricciola, spigola, gambero cotto, capasanta, gambero crudo, tonno.
Tempura moriawase.
Accompagnamento della tempura: soia, mirin e brodo di pesce.
Insalata Kiko: lattuga, cetriolini, erba cipollina, salmone, capasanta, tonno, ricciola, uova di pesce volante e salsa Kiko (invero un po’ troppo grassa).
Daifuku.
Sakè Kikusui.
Particolare.