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Osteria del Guà

La magnifica classicità della cucina di Marco Culeddu

L’Osteria del Guà si situa in un contesto più ampio. Il locale, infatti, ricopre parte della magnifica barchessa di Villa Pisani, progettata da Andrea Palladio nel 1542, struttura patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 1996. Se parte della barchessa è dedicata al ristorante, parte è stata convertita a relais di classe dove gli ospiti, per lo più stranieri, possono soggiornare immersi nel panorama veneto.

Il dato inquadra il classicismo che si respira da quando si oltrepassa la soglia della villa, retaggio che viene elevato a punto di forza in cucina e, in certi casi, a esercizio di tecnica non meno che impressionante. A impressionare è la mano che sta dietro a tutto questo: Marco Culeddu, classe 1991, di competenze ne dimostra talmente tante che la sua età pare anagraficamente mendacia, poco credibile a fronte di ciò che si esperisce presso la sua tavola.

Emiliano di origine, Culeddu è cuoco cosmopolita che viaggia e sperimenta tra cucine più popolari e tavole fine dining quali quelle di Gianni D’Amato, Emanuele Scarello e Michelangelo Mammoliti, tra i più noti. Il palato è intelligente e applica un principio tanto semplice quanto sottile: adattarsi alla realtà circostante per soddisfare il cliente, non stravolgendo il contesto nel quale si lavora.

La classicità, vivaddio!

Facile a dirsi, più sottile a farsi. Perché il menù che abbiamo provato nella splendida cena presso l’osteria, dall’emblematico nome “MANABEL“, acronimo dei capilettera di tutti i nomi della brigata che lavora in cucina e in sala, sprizza classicità in ogni momento, senza remore né timori, portando il commensale a viaggiare per lo Stivale tramite i suoi piatti più iconici, Veneto in primis, senza per questo sacrificare un’identità che apre a viaggi con orizzonti che arrivano fino in Oriente. E in questo Culeddu dimostra personalità da vendere, utilizzando la tecnica per stravolgere forme e consistenze ma non idee e identità. “Doveva essere un risotto allo zafferano” è emblema di quanto sopra: il più classico risotto alla milanese viene frullato e reso cremosa spuma, con midollo ricostruito e gremolada costellata di chicchi di riso fritto. Risultato stratosferico nello stordimento delle consistenze e nell’intensità dei gusti, con la riduzione di ossobuco a conferire note umamiche non meno che emozionanti. Stesso dicasi per Quadratello, succo di bevarasse e scampi, nel quale i passatelli hanno conferito struttura alla morbidezza dello scampo, con note vegetali delle alghe ad anticipare la riduzione delle veneziane bevarasse in grado di donare una lunghezza iodata talmente intensa che solo la struttura dei passatelli ha sorretto e valorizzato. Piatto temerario e spinto. Nota meritoria va spesa pure per il reparto dolci, con Cioccolato, agrumi e capperi, nel quale la cottura al vapore dei ravioli di bergamotto e cioccolato, di richiamo orientaleggiante, ha mantenuto precise note amaricanti, smorzate e rilanciate dalle creme di accompagnamento, speziate al pepe e sapide ai cucunci (frutti di capperi essiccati). Siamo rimasti dunque assai soddisfatti, anche del servizio squisito e disponibile, e non possiamo che essere certi che l’esperienza provata sia la prima di una serie di evoluzioni che porteranno questa tavola presso traguardi importanti e interessanti.

IL PIATTO MIGLIORE: Doveva essere un risotto allo zafferano.

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La conferma dell’impronta

Su La Peca si è scritto tanto, di tutto, e a ragione. Attraversare tre decadi mantenendosi ai livelli di eccellenza di cui il ristorante si fregia è opera da fuoriclasse. Ma come ogni atleta che si rispetti, la qualità delle prestazioni è frutto di un costante allenamento, di un approccio mentale e fattuale che veda nel lavoro quotidiano il proprio punto di forza. Nella nostra visita abbia assaggiato in anteprima “il menù della Vigilia“. Proposta a base ittica, come nelle migliori delle tradizioni, L’idea poteva dar seguito ad accondiscendenze di sorta, frutto più del bisogno di onorare uno schema prestabilito anziché lanciarsi in una messa in opera innovativa. Nulla di più lontano da quello che abbiamo avuto il piacere di assaggiare. Perché l’intelligenza di Nicola Portinari e del suo staff, coadiuvato dall’impeccabile lavoro del fratello Pierluigi, in sala, consiste tanto nel confermare una riconoscibilità gustativa dai richiami classici, e dunque appetibile anche agli avventori neofiti, quanto nell’innestare sottili ma precise sperimentazioni che non stravolgono l’impianto generale ma lo arricchiscono.

Tra tradizione e innovazione

Prendiamo Boom di calamaretto, ricotta fermentata al finocchietto, dove il calamaro cacciarolo è ripieno delle proprie interiora, ricotta al finocchietto ad accompagnare: un mix suadente di dolcezza garantita dal ripieno, bilanciato da un lunga nota iodata del nero del calamaro con la freschezza del finocchietto a pulire e rilanciare al boccone successivo. Il tutto non dimenticando la morbidezza della ricotta a conferire una conferma della consistenza. Un piatto goloso, rotondo ed elegante. Quanto sopra, però, non ha impedito di innestare una portata a nostra giudizio squisita nella sua natura sperimentale: Crostacei al vapore, intingolo di mare al pompelmo e mela. Un piatto giocato su sapori intensi, non certo accomodanti, grazie all’intingolo dalla spiccata sapidità e verve speziata, apparentemente eccessiva ma atta a rilanciare nuovamente la nota iodata. Il tutto non dimenticando un gioco di consistenze con la croccantezza della mela capace di smorzare momentaneamente, con l’acidità, la lunghezza sapida per preparare al boccone successivo. Una portata intelligente, temeraria, abile a richiamare eco orientali senza disconoscere precise immediatezze tradizionali.

In chiusura, gran lavoro anche sul versante dolci con Mandorlato, oro e pere: gelato al mandorlato dalle intense note di miele, con fondo di pere a rilanciare la dolcezza, ammorbidendola, tenendo in considerazione la cialda on top, tanto regale nell’aspetto quanto friabile al morso. Un piatto estremamente elegante. Discorso non dissimile ci sentiamo di spenderlo per la Veneziana alle albicocche e rosmarino selvatico, dall’impasto ottimamente alveolato, a tratti evanescente nella delicatezza, con la farcitura del rosmarino a conferire un suadente e persistente retrogusto aromatico.

La Peca insiste e persiste nel proprio percorso di riconferma e sperimentazione, giocando sul confine sottile ma non scontato tra tradizione e innovazione, con la qualità che le è propria da anni e che continua a renderla una delle migliori tavole in Italia.

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Tripudio d’inverno: estratto di un pranzo trimalcionico a La Peca

In una cruda e grigia giornata di inizio febbraio

Seduta al tavolo dell’accogliente e calda sala de La Peca di Lonigo, dopo una sequenza di portate pantagruelica e di alta levatura, mi viene presentato un piatto così declinato: lepre, fegato grasso, nespole al bitter e chips di verza.

La visione d’insieme mi regala immediatamente sensazioni molto piacevoli. Lo sguardo è rapito e attratto da una cromaticità variegata, straordinaria: si va dal rosso rubino della carne alla carrellata di tonalità del verde della verza, passando per l’ ocra – ruggine della composta di nespole al bitter.

Avvicino il viso al piatto per cercare un ritorno olfattivo e un’esplosione di sentori aromatici sale verso di me, esaltandone l’intensità: su tutto, i profumi speziati dati dal bitter di Baldo.

Accosto le mani al piatto e sento che la sua temperatura è calda: il giusto accorgimento per far sprigionare appieno i sapori.

La lepre, a vederla, è soda e compatta; al palato, il sapore è giustamente gustoso, avvolgente, nessuna nota selvatica: ciò che sto assaporando è il frutto di una sapiente frollatura e di una ricercata modalità di cottura, di brevissima durata e a temperatura assai bassa. Adagiata sulla carne, c’è una salsa civet dal timbro sì speziato, ma non invadente e, in bocca, si avverte una consistenza piacevolmente setosa.  Ancora, c’è un gioco serrato tra la componente acida della crema di nespole e quella aromatica del bitter. Di più, ci sono la dolcezza e la grassezza del fegato grasso, resa lieve perchè servito fresco, semplicemente salato, a dare morbidezza al piatto, sposandosi perfettamente alla magrezza della carne.

Su tutto, qua e là, con grande perizia estetica, delle chips di verza, rese croccanti e friabili affinchè pure l’udito abbia la sua felicità, donata dai suoni della masticazione.

Nell’ insieme, il piatto, pur nella sua complessità, presenta un equilibrio di rara fattura e, degustandolo, mi convinco, una volta ancora, che il cibo è gioia, divertimento, allegria, emozione, cultura, storia, soddisfazione. E merito immenso a un ristorante di cui veramente troppo poco si decantano i pregi : La Peca di Lonigo.

L’impronta italiana di un grande ristorante, nel vicentino

Sono ormai 30 anni che La Peca ha aperto i battenti, e possiamo certamente affermare che essa ha lasciato un’impronta indelebile nell’alta ristorazione italiana. Non si è mai mangiato così bene in Italia, lo sentiamo dire da più parti e anche noi ne siamo convinti: ecco perché, qualche volta, ci rimproveriamo di non possedere 50 bocche e altrettanti stomaci: tanti di noi ci vorrebbero per essere sempre presenti, dappertutto, testimoni di un percorso che continua inesorabilmente, e provvidenzialmente, a crescere. Senza dimenticarsi di nessuno.

Ed è un peccato, per dire, dimenticarsi de La Peca dei fratelli Portinari. Due grandi uomini che hanno creato un luogo di elezione e, senza clamore alcuno e senza protagonismi – facili in questo periodo di sovraesposizione mediatica – hanno giorno dopo giorno continuato a salire di livello, creando un luogo in cui si esprime tutta la grande vivacità di una cucina di impronta – la peca, appunto – tutta personale e in cui si culla il rito dell’arte del bien vivre a tavola.

Nicola, in cucina, è chef ormai maturo: si muove con una destrezza e audacia, da vero campione tanto che, nella nostra lunga serie di assaggi, non s’è riscontrata nessuna sbavatura, nessuna indecisione. Solo qualche reiterazione stilistica, a dire il vero lieve, ha fatto capolino tra i piatti. Il rametto di salicornia, pleonastico in molti casi, può essere assurto a firma autografa di piatti in cui la complessità di ingredienti e di tecniche alzano notevolmente il livello di difficoltà. Ma solo i grandi trovano equilibrio nella complessità, e ciò che riesce perfettamente a questa cucina che vive anche un’impronta davvero definita: autoriale.

Un’impronta tangibile e definita

Ne sono un fulgido e limpido esempio il Risotto ai peperoni chipotle, crudità di gamberi, marasca e aspro di curry, in cui l’apparente nota pleonastica dei gamberi crudi in realtà avvolge di dolce grassezza e dona completezza di texture a un piatto dai sapori formidabili. Notevole l’apparente gioco della Meringa al pepe con fegato grasso e frutti rossi, il Friabile d’alghe, black-cod cremoso e caviale davvero lungo e persistente e, infine, il piatto signature La terra in autunno, riproposto diversamente a ogni stagione dell’anno. Semifreddo al pepe verde, ravanelli, pimpinella e agrumi è, infine, un dolce che esprime tutta la grande sensibilità di un palato unico come quello di Pierluigi: elegante come una sciarpa di cashmere, setoso e intrigante. Il grande dolce di un grande ristorante.

Ma la Peca è, sopratutto, una grande famiglia italiana. Ed ecco quindi che la lunga mano di Pierluigi, che si esprime divinamente nel comparto dolce ma che dona tutta la sua classe e la sua personalità in sala, dov’è coadiuvata dalla compagna Cinzia Boggian, lady elegante, discreta e raffinata, aggiunge alla cucina di Nicola quel tocco in più. E, a proposito di sala, menzione speciale va alla squadra, giovane e meravigliosa, che ci ha fatto trascorrere ore indimenticabili.

Impronta indelebile, da provare quanto prima.

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Ci sono insegne destinate a lasciare il segno nel cuore degli appassionati e la Peca, nel suo essere quasi l’archetipo della Maison all’italiana, è un locale che ha inciso un solco profondo nella storia della ristorazione dello Stivale.
Dell’accoglienza di casa Portinari, delle piccole attenzioni che non sono mai scontate, anche quando le stelle sono gemelle, si dovrebbe parlare nelle scuole di settore, tanto esse sono, a nostro modo di vedere, parte di un modello che sarebbe opportuno clonare prima che scompaia. Ciascun dettaglio viene qui curato con lo scopo di rendere indimenticabile l’esperienza del cliente: la distanza tra i tavoli, che permette di conversare senza sentire o essere uditi dai vicini, la splendida cantina a vista, il salottino dove bere in tutta tranquillità un grande distillato: non sono altro che la punta di un iceberg fatto di gesti, di premure, di ineffabili dettagli. E ciò che sorprende maggiormente, in quest’oasi di serenità che è la sala governata da Pierluigi Portinari e dalla moglie Cinzia Boggian (realizzatrice degli splendidi centrotavola), è che tutto ciò avviene senza quegli eccessi di affettazione, quell’aria di maniera che talvolta ci capita di riscontrare in altri locali.
Perché saper cucinare è un dono che si coltiva fino alla perfezione, ma per dominare la sala servono autentica vocazione e voglia di trasmettere il mestiere: e a questo punto non stupisce neppure più di tanto il fatto che ognuno, a partire dal giovane e preparato sommelier fino all’ultimo dei commis, comunichi perfettamente la stessa gioia nel rendere la clientela felice.
Ma La Peca non è certo solo un luogo confortevole: dietro le quinte dello spettacolo non troviamo infatti un cuoco qualunque, ma un asso del livello di Nicola Portinari. La sua è una cucina riconoscibile, estremamente personale, poco influenzata dalle mode e capace di passare dal mare alla selvaggina con estrema naturalezza e solo con qualche rara indecisione di ordine tecnico.
Come la sala, anche la cucina della Peca non perde tempo in tediosi autocompiacimenti, ma pone sempre in primo piano il cliente, sia esso il gourmet più navigato o l’avventore occasionale capitato qui per celebrare una serata particolare.
Il tentativo, certo lodevolissimo perché in grado di portare nuova linfa a tutto il movimento ristorativo, non mancherà di dare, a chi cerca emozioni più forti e tinte accese, l’impressione di non spingere mai fino in fondo sull’acceleratore, e non si potrà evitare di considerare come la cucina, accontentandosi di battere quasi costantemente sulle morbide corde del dolce, perda l’occasione di sfruttare la propria perizia tecnica per effetti di maggior mordente, ma il tutto si armonizza in una ricerca della piacevolezza complessiva palesemente programmatica, con spunti però di eccessiva sapidità talvolta incontrollati, che ci fanno accendere più di qualche lampadina.
L’intelligenza di Nicola Portinari fa sì che, pure al termine della parte anche nominalmente dolce del menù, al solito di livello più alto della media del pasto, si avverta una sensazione di totale leggerezza. Merito di ciò va ovviamente alla bravura dello chef nel moderare l’utilizzo di materie grasse e nel ponderare ingredienti e preparazioni, rendendo un percorso guidato facilmente fruibile anche da clienti di bassa cilindrata.
Citazione d’obbligo per la carta dei vini, senza punti deboli grazie alla presenza di molte etichette italiane e internazionali, ricaricata con leggerezza in rapporto al tono del locale e ricca di spunti soprattutto sul versante dei vini naturali.
In conclusione un grande ristorante, ma soprattutto una grande casa dove passare due ore gustando un’ottima cucina italiana a tutto tondo.

Il benvenuto della cucina.
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Marshmallow di pomodoro, cialda croccante, basilico.
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Pane e grissini.
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Elegante (anche se di difficile consumo) pinzimonio in coppa Martini.
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La melanzana: svuotata, gelata e ricomposta, ripiena di burrata, mozzarella di bufala, capperi, pomodoro: un vero inno all’estate, fresco e divertente.
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Piccole carote di montagna con tataki d’oca e maionese di mango alla senape: un piatto nel complesso molto piacevole, non ci ha convinto del tutto l’oca in forma di piccolo hamburgher, forse in forma di straccetti sarebbe risultata ancora più piacevole al palato.
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Spaghettoni Cavalieri, tonno e finferli: l’ennesima rivisitazione della carbonara, golosa niente da dire, ma alla fine quasi sempre resta la nostalgia per la versione originale.
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Calamari di pasta con ragù di selvaggina, asparagi verdi e caffè Principe: un grande piatto di pasta, il grasso e la dolcezza della selvaggina, l’erbaceo tendente all’amaro degli asparagi selvatici e l’amaro puro del caffè si rincorrono senza mai sovrastarsi e regalando ad ogni boccone una nuova sensazione.
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La beccaccia: il petto scaloppato, la coscetta ripiena di foie gras, il fegatino sul crostino.
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Sorbetto al limone verde, zenzero e cristalli di zucchero di canna.
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Ravioli croccanti alla crema brulèe con agrumi infusi alla vaniglia: un grande dessert come sempre accade alla Peca.
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Piccola pasticceria.
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