Gilmozzi a 35.0 sul livello del mare
È un concetto ormai consolidato quello della montagna come “terroir gastronomico”, ma raramente questo viene tradotto con la precisione metodologica che Alessandro Gilmozzi esercita da più di tre decenni nel suo ristorante El Molin, nel centro storico di Cavalese, in Val di Fiemme. Un cucinare il suo, in trasformazione continua adattando, inglobando, assorbendo e addirittura trascendendo ciò magari che si era appena appreso, partendo dai limiti più comuni. Il menù degustazione attuale – versione 35.0 – è la sintesi operativa di un pensiero coerente e profondo: la montagna non è solo scenario, ma materia prima, metodo e lingua. Non decorativa ma determinante. Una cucina che non solo sta in montagna, bensì è montagna. Con tutti i suoi non detti. Il filo conduttore è uno: l’amaro. Non inteso come nota aromatica fine a sé stessa, ma come registro sensoriale e culturale. L’amaro dei licheni, delle resine, delle bacche selvatiche, ma anche della difficoltà di accesso, del limite climatico, della stagionalità settimanale. Gilmozzi si muove all’interno di un ecosistema fragile e instabile, che plasma e condiziona ogni scelta.
I sapori d’altura del ristorante El Molin
Il percorso degustazione inizia con la canonica serie delle miniature wild: progettate come una parure di elementi che definiscono l’impronta del menù. Il Fegato di cervo marinato nel gin, con crema di geranio e pinoli e polvere di rosa, offre un primo riferimento chiaro: selvaggina come materia viva, profilo aromatico floreale spinto, masticazione incalzante sottesa da una dolcezza ematica latente. Il Cuore di cervo in forma di bresaola è completato da una maionese
La maionese (dal francese mayonnaise o dal catalano maonesa) è una salsa madre, cremosa e omogenea, generalmente di colore bianco o giallo pallido, che viene consumata fredda. Si tratta di un'emulsione stabile di olio vegetale, con tuorlo d'uovo come emulsionante, e aromatizzato con aceto o succo di limone (che aiuta l'emulsionamento). La ricetta tradizionale prevede l'uso di olio d'oliva e... Leggi al pino mugo che rafforza la verticalità del sapore del primo, mentre lo Streusel con coregone affumicato, nasturzio e calendula poggia tra la consistenza farinosa della frolla e l’allungo ittico dettato dal pesce lacustre. Il piatto-manifesto rimane però L’olio e la montagna. Da venticinque anni in carta, è oggi più attuale che mai. La boulle di cristallo che fa da scenografia a un viaggio fitogeografico dal Garda alla Val di Fiemme. Diciotto erbe spontanee, cinque fiori, tre consistenze di olio, mousse casearia, gelato al crescione, gelato alle sarde. Stratificato, multiforme, quasi impossibile da mappare. Una mappa gastronomica tracciata da cuoco (cartografo) in questo caso dal cuoco di Cavalese. Il Siluro marinato nel gin autoprodotto, acqua di pomodoro, idrolato di salicornia
Salicornia è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Chenopodiaceae. Una volta bruciata, le sue ceneri venivano utilizzate per produrre il carbonato di sodio alla base dell'antico processo di saponificazione. Le salicornie sono dotate di adattamenti peculiari che ne permettono l'insediamento su terreni salini o salmastri, e per questo sono dette piante alofite. Riescono a vivere su terreni ricchi... Leggi e anice, è un piatto in grado di portare pomodoro e liquirizia in quota, dove la salsa che fa da raccordo a mo’ di moschettone tra i vari elementi è quella ottenute dalle parature di lavorazione del pesce. Sentori erbacei amplificati, dalla grassezza del pesce utilizzati. Una sontuosa arrampicata. Spicca, il Riso all’Oltre Alpe, atavico prodotto caseario “di sussistenza in alpeggio” dal sentore erborinato in accoppiata a polvere di finocchio selvatico, ginepro candito e gemme di pino in agrodolce. L’equilibrio tra la spinta pungente della manteca con la nota canforata del ginepro è preciso e persistente. Disarmante tra posizionamento da vero pre dessert e raccordo proteico con il mondo dei secondi è la Lingua di cervo cotta in ocoo
Pentola coreana che mescola la pentola a pressione a bassa temperatura e la cottura ad infrarossi, preservando le proprietà organolettiche degli ingredienti. Il vapore all’interno dell’ocoo non fuoriesce, si lega con gli aromi del cibo e ne esalta e concentra profumi e sapori. Leggi, accompagnata da rosa selvatica, verbena e riduzione di genziana. La tessitura è setosa in consistenza, ma totalmente rinnovata per spinta delle diverse nuance di amaro che esplodono in questo piatto. Uno tra i più brillanti di tutta la sequenza. Sul versante dolce Gilmozzi propone la sua frutta di montagna, un progetto articolato in nove combinazioni di frutto, erba e relativa emulsione. Dalla Mora con lavanda alla Fragola con verbena, dall’Uva spina con nasturzio al Ribes con abete: ogni elemento costruisce un micro-boccone autonomo, in una struttura che si avvicina più a un esercizio di repertorio botanico che a un dessert in senso classico. Il rischio di omogeneità aromatica è presente, ma il gesto concettuale resta forte. A chiudere come la ring komposition le miniature wild ma in versione dolce: Caramella al latte invecchiato, Pane e formaggio, Sasso al geranio, Sorbetto al larice, Lichene bianco e topinambur. Una sequenza che insiste su toni vegetali, floreali e fermentativi, senza concessioni alla dolcezza tradizionale. Gilmozzi non propone un’idea edulcorata della montagna. La rappresenta nella sua verità filologica: ruvida, amara, difficile da addomesticare. Il ristorante El Molin resta un presidio gastronomico d’altura, nel senso più concreto del termine: non mira alla spettacolarizzazione, ma alla stratificazione. Una cucina che non ricerca l’evidenza, ma l’integrità. Che non si concede, ma si conquista. Licheni piuttosto che like.
IL PIATTO MIGLIORE: Il risotto all’Oltre Alpe, verbena, ginepro candito e gemme di pino in agrodolce.
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