Per un (nuovo?) senso dell’avanguardia, guardando alla classicità
In un’epoca costellata di rinnovi gastronomici, sperimentazioni ed esperienze, il rischio è di perdere il senso del fine ultimo di un pasteggiamento: pasteggiare.
Sembra banale, forse in parte lo è, ma seduti alla tavola del ristorante Il Portico, vera e propria tappa “obbligata” per ogni amante della cucina che si rispetti, il piatto regna sovrano e le sovrastrutture ideali (spesso ideologiche) vengono messe in secondo piano.
Parliamo di un terreno teorico magmatico, spesso fraintendibile, nel quale l’idea stessa di ristorazione sovente lascia il posto alle personalità di chi è dietro i fornelli non in seno identitario ma in senso fagocitante e narcisistico. Paolo Lopriore, che col mitologico Il Canto aveva fatto della sperimentazione un punto di partenza indispensabile per accedere alla sua cucina, da anni ha ribaltato l’assioma, imponendo (per nostra fortuna) alla cucina in sé e per sé di farsi espressione di chi la realizza e non viceversa. Sono sfumature molto sottili che possono non destare particolare attenzione, ma Lopriore, nell’apparente immediatezza della proposta del ristorante Il Portico, dove regna sovrano il prodotto fornito dal mercato, impone una visione nuova e, perché no, avanguardista nella sua apparente classicità.
Ci si basa, come detto, sul mercato, sempre e comunque, dunque non è previsto un menù fisso proposto tutto l’anno. Il pasteggiamento varia da pranzo a cena, con un alleggerimento nel primo caso che si ripercuote su un conto davvero vantaggioso e che innalza il senso di “pranzo di lavoro” portandolo verso traguardi più casalinghi ma non per questo meno efficaci. Nella mancanza di enfatici strepiti luddisti che rivendicano la genuinità di una proposta quotidiana, ci si deve adattare (in termini di flessibilità, qualità spesso dimenticata) a pasteggiare con proposte impreviste, non certo, però, improvvisate.
È un confine molto delicato quello che separa il dilettantismo, camuffato da spontaneità, dal talento innato. Lopriore, grazie anche a una preparazione tecnica non meno che ottima di marchesiana memoria, è riuscito nell’impresa assai notevole di trasformare l’immediatezza apparente in sintesi ragionata, portando il momento conviviale a un livello superiore che si palesa come tale nel suo apparire come quotidiano e, dunque, conosciuto e riconoscibile a qualunque tipo di cliente, anche grazie alla diverse proposte del locale – tra le quali il brunch domenicale.
Il senso (vecchio e nuovo) del pasto
Dunque il menù si presenta in tre passaggi (antipasto, servizio principale, dessert) proponendo al commensale un unico mosaico dal quale costruire a proprio piacimento il piatto. Nel nostro caso abbiamo assaggiato delle ottime Uova al pomodoro, dove la salsa denotava delle intense, ma non invasive, note di aglio che la avvicinava più a una salsa marinara; gran classe nei Carciofi fritti, dalla squisita pastella, croccante e leggera, senza appesantimenti di frittura che ne inficiassero il gusto finale. A un occhio sintetico può apparire un pasto “povero”, in realtà, nella sua apparente semplicità, il servizio ha denotato una certa intelligenza esecutiva proponendo una sazietà e un completamento nutritivo non banali.
Chiusura con buon Sorbetto al limone, mandorle e amareneLe amarene sono i frutti del ciliegio aspro (Prunus cerasus), dalla quale derivano anche le visciole (varietà meno diffusa). Dai frutti di colore rosso chiaro, dal sapore amarognolo e leggermente acido, le amarene vengono consumate come tali, sotto forma di gelato, sciroppate o nel liquore portoghese ginjinha. Leggi a cui è seguito un ottimo caffè preparato con moka napoletana. La profondità nella semplicità.
Il servizio è giovane e competente, bravo a trasmettere al commensale il concetto di cucina dello chef Paolo. La proposta dei vini è limitata a poche referenze, un piccolo neo che si dimentica in fretta dopo essersi accomodati a questa tavola.
IL PIATTO MIGLIORE: Carciofi fritti.
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