Alchemist

VALUTAZIONE

Cucina Moderna

18/20

PREGI
Un’esperienza complessivamente molto coinvolgente.
Nessun ristorante al mondo dedica una tale attenzione a ciò che non riguarda la cucina in senso stretto (stoviglieria, suoni, componente visiva, il rapporto tra l’ospite e lo spazio).
DIFETTI
La prenotazione è difficilissima ed il prezzo del menù elevato.
Per alcuni la durata dell’esperienza potrebbe risultare eccessiva.

La cucina olistica di Rasmus Munk

Rasmus Munk definisce la cucina del suo Alchemist, a Copenaghen,  come “olistica”, termine al quale il cuoco ha persino dedicato un manifesto, in cui si legge: “la cucina olistica comprende esperienze culinarie che stimolano e interagiscono con tutti e cinque i sensi e l’intelletto, esplorando elementi del teatro, dell’arte, della scienza e della tecnologia. Sfida i preconcetti su cosa possa essere un pasto attraverso pensiero innovativo, curiosità e un desiderio persistente di esplorare nuovi orizzonti. Inizia e partecipa a dibattiti su questioni sociali ed etiche. Fornisce conoscenze e approfondimenti su società e culture diverse dalla propria. Abbraccia e incoraggia la sostenibilità e la biodiversità, nonché la filosofia «dal produttore al consumatore». Evoca ricordi e suscita emozioni attingendo a riferimenti e ricordi storici e culturali personali e condivisi”. 

In altri termini, il cuoco danese si pone l’obiettivo di rappresentare l’intera realtà che ci circonda, l’arte culinaria assume una nuova funzione e diventa parte integrante di una forma espressiva più articolata. Il pranzo è infatti accompagnato da un susseguirsi di sonorità e video proiettati sulle pareti della cupola che ricopre la sala principale (Dome): contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, tra le portate e gli stimoli sensoriali non vi è quasi mai un legame (contemporaneità) – come invece accadeva all’Ultraviolet di Paul Pairet, recentemente chiuso; più frequentemente, si è di fronte a un intreccio di segnali disallineati, sebbene di grande impatto, che impone di scegliere su cosa concentrarsi (qualcosa, inevitabilmente, sfugge). La ragione di tale differenza è evidente: all’Ultraviolet si cenava in dieci, intorno ad un solo tavolo, con un flusso narrativo unitario; all’Alchemist, invece, i coperti sono numerosi e gli ingressi degli ospiti sono scaglionati.

Vi sono frangenti in cui viene spontaneo domandarsi se la cucina oggi basti ancora a sé stessa ed alla clientela, se il proliferare di stimoli, l’iperconnessione e la progressiva erosione della soglia di attenzione non impongano l’individuazione di stratagemmi per rendere le grandi tavole ancora attraenti: fortunatamente, ci sono esempi che fanno apparire questo rischio improbabile – una torta salata di Alain Passard è a tutt’oggi pura magia –, ma ciascuno, al riguardo, ha la propria sensibilità. 

Alchemist si propone anche di affrontare tematiche etiche – necessariamente suggestioni, trattandosi di problemi troppo complessi per essere sviscerati – come in Plastic Fantastic (inquinamento dei mari) e Tongue Kiss (emissioni di anidride carbonica negli allevamenti). A tratti, si ha la sensazione che la funzione del cibo sia ancillare rispetto al messaggio: in un certo senso, si tratta di una concezione culinaria che delega ad elementi esterni ed al tempo in cui si colloca una parte consistente del proprio significato.

Un altro aspetto che colpisce è il rapporto tra le pietanze ed il loro contenitore, poiché, in alcuni casi, la stoviglieria – progettata ad hoc da designers danesi – assume un’importanza quasi preponderante: si pensi all’iconico occhio di 1984, alla lingua in silicone di Tongue Kiss ed al cranio sezionato e meccanizzato di Food For Thought. Sul lungo periodo, a rimanere impressa è la componente visiva più che quella gustativa, anche in termini di originalità. 

Più in generale, quella di Rasmus Munk è una cucina narrativa, in cui la sala è fondamentale, tant’è che per l’intera cena si è seguiti da un’unica persona, il cui livello di preparazione, nel nostro caso, ha inciso in modo decisivo (in positivo) sulla godibilità dell’esperienza. 

Una parentesi deve necessariamente riguardare il versante economico della questione: l’offerta di Alchemist presuppone dei costi di realizzazione impensabili per la grandissima parte dell’alta gastronomia – dietro vi è il magnate Lars Seier Christensen, cui è altresì riconducibile Geranium –, sicché si tratta di un modello non replicabile, che difficilmente potrà avere l’impatto che ebbe il vicino Noma (forte pensiero, come tale trasponibile ovunque, anche con mezzi ordinari). 

La cucina di Alchemist oltre l’olismo

In seconda battuta, occorre soffermarsi sul carattere più prettamente gastronomico dell’esperienza. L’influenza spagnola è evidente soprattutto su due versanti: la struttura del percorso composta da una trentina di passaggi e l’attenzione dedicata alla ricerca tecnica. 

I passaggi più interessanti sono proprio quelli in cui vengono impiegati i risultati ottenuti da Spora – il laboratorio sperimentale di Rasmus Munk –, come Space bread (salsa di soia affinata per dieci anni iper-aerata e liofilizzata), che colpisce, da un lato, per l’estrema complessità gustativa e, dall’altro, per la consistenza della stessa, simile a una meringa. Si tratta della trasposizione di una ricerca compiuta sul cibo in ambito medico e, in particolare, sulla problematica relativa alle consistenze ed alla perdita di piacevolezza. Le tecnologie impiegate ed i risultati in termini di texture stupiscono anche in Sunburnt Bikini – un impasto per mochi crio-fritto, portato da -60°C a 200°C –, Plastic Fantastic – impressionante la finta plastica ricostruita con collagene e alghe – nonché Airy bread, un pane di fogli di fecola di patate spennellati con burro, un piatto che concettualmente molto deve al mitico Crystal bread di Albert Adrià

Vi è, poi, una serie di portate da cui, considerati gli ingredienti utilizzati, ci si aspetterebbe qualche deviazione dalla diade salato-dolce ed in cui, invece, si scopre che le asperità sono affidate alle sole componenti visiva e narrativa: in Food For Thought le cervella d’agnello si trasformano in una caramella golosa (il ruolo “disturbante” è svolto dal contenitore), Burnout Chicken è a propria volta un boccone appetitoso (la zampa di pollo può invece creare a qualcuno delle difficoltà) ed in Eight Layers of Life, un piatto in cui tra gli ingredienti vi è sangue (il tema è la donazione di organi), le note ferrose sono solo leggermente avvertibili (colpisce più l’idea di mangiare un piccolo cuore, ricostruito realisticamente). Il meccanismo è spesso: diffidenza (vista) – sollievo (assaggio).

In due “impressioni”, si assiste anche all’utilizzo (prima volta nell’alta cucina occidentale?) degli insetti (il tema sono le cosiddette proteine del futuro): la farfalla crioessicata offerta nei benvenuti e Wiped Out, un parabrezza a cui sono attaccati degli insetti (una ricostruzione di un ricordo dello Chef, in cui vengono utilizzati un garum prodotto con larve, farfalle d’allevamento e insetti). In entrambi i casi, il risultato gustativo è sorprendentemente confortevole. Rispetto a quest’ultimo aspetto, si percepisce una profonda differenza con Mugaritz – i due ristoranti sono stati più volte indebitamente accomunati –, poiché quest’ultimo tende a non edulcorare in alcun modo le asperità gustative e le testure (oltreché a dedicare molto meno spazio alla narrazione). 

In conclusione, l’originalità di Alchemist (anche se non totalmente primigenia) non sta nella componente culinaria in sé, quanto nel rapporto di quest’ultima con ciò che la circonda. Un’esperienza che è certamente utile fare, un po’ per intuire quali potranno essere le possibili derive future ed un po’ come puro divertimento, destinato soprattutto a chi la cucina in sé non basta più. 

P.S. Si è volutamente evitato di descrivere dettagliatamente le “sorprese” che si incontrano durante le circa sei ore di pranzo, onde consentire di affrontarle con l’indispensabile stupore. 

IL PIATTO MIGLIORE: Space bread.

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Claudio Marin

I racconti familiari narrano di una mia precoce passione per escargots, sogliola alla mugnaia e quinto quarto. Nel 1995, avevo otto anni, una cena illuminante a La Coupole di Parigi e il principio di un amore: un grande ristorante non è solo buon cibo, ma molto di più. Ad oggi, appena ne ho l'occasione, salgo su di un aereo per conoscere nuove cucine - con una (malcelata) predilezione per l'avanguardia - e, nel contempo, tento di seguire con regolarità il percorso di alcuni straordinari talenti nostrani. Il blues e la musica dei grandi chitarristi sono l'altra passione che da sempre mi accompagna.

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VALUTAZIONE

Cucina Moderna

18/20

PREGI
Un’esperienza complessivamente molto coinvolgente.
Nessun ristorante al mondo dedica una tale attenzione a ciò che non riguarda la cucina in senso stretto (stoviglieria, suoni, componente visiva, il rapporto tra l’ospite e lo spazio).
DIFETTI
La prenotazione è difficilissima ed il prezzo del menù elevato.
Per alcuni la durata dell’esperienza potrebbe risultare eccessiva.

INFORMAZIONI

PREZZI

Menù degustazione: € 730 (€ 400 da corrispondere al momento della prenotazione). Abbinamento vini: da € 270 ad € 1.280, con numerose alternative intermedie (alcoliche e non). Non c’è possibilità di scelta alla carta.

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