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La famiglia Cavalli: non solo vino ma anche aceto balsamico

Vino
Recensito da Thomas Coccolini Haertl

La produzione secolare della famiglia Cavalli

In soffitta, a parte il territorio modenese e reggiano, una famiglia, analogamente un’azienda vitivinicola, ci stiverebbe tutte quelle cianfrusaglie che non sai più dove rintanare. A parte queste due province emiliane, infatti, perché qui, da secoli, anzi da millenni in soffitta ci vanno le botti dell’aceto balsamico!

Incontrando Giovanni Cavalli, erede dell’azienda del fu Ferdinando, detto Nando e che ancora oggi distingue con il suo nome le prestigiose confezioni di questa acetaia sulle colline reggiane, camminando lentamente fra le batterie di botti che conservano il prezioso aceto balsamico, fra una riflessione e l’altra, formulo la domanda delle domande: ma perché l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e di Reggio Emilia si fa solo in questa piccola porzione di territorio emiliano? Perché nei secoli più remoti non ci si sono messi anche a Parma? Oppure che so, a Bologna? Non dico che un nettare così esclusivo, “aristocratico” come lo definisce lo stesso Giovanni Cavalli, guardando alla storia e alle sue origini, si debba produrre in tutta Italia, come il buon vino. Siamo abituati, nella nostra penisola densa di DOP e IGP a una grande varietà di prelibatezze alimentari che cambiano ogni campanile, dunque nulla di nuovo nell’immaginare che un formaggio, un salume, oppure un tipo di pane si modifichi negli ingredienti, nella forma, nei sapori e anche nel nome, non appena si cambia paese. Ma di qui a pensare che l’aceto balsamico sia nato a Modena e Reggio Emilia e che sia sempre rimasto confinato a queste due sole province ha dell’incredibile. E infatti intuisco rapidamente che alla mia domanda forse anche un po’ provocatoria, non esiste una risposta certa.

Foto di Giovanni Cavalli che degusta il suo Aceto Balsamico.
Giovanni Cavalli

La storia dell’aceto balsamico

Già ma allora cosa accade, o meglio cosa accadde, sulle colline reggiane e modenesi, in antichità, per giustificare questa presenza, questa prelibatezza che comprendiamo essere unica? Dobbiamo necessariamente risalire alla storia. Enrico III, stando alla documentazione esistente, giunto dalla Germania sui nostri territori nel 1046 per derimere i contrasti dei tre Papi nel contendersi il soglio di Pietro, portò all’elezione di Clemente II che a sua volta lo fece incoronare come Imperatore del Sacro Romano Impero. In questo quadro dal sapore proto-europeo, Enrico ebbe modo di appellarsi al Marchese di Toscana, Bonifacio, padre di Matilde di Canossa, affinché ella si prodigasse nel fargli avere detto “aceto eccellentissimo” creato proprio nel Castello di Canossa, di cui gli erano state magnificate le bontà, nonché le virtù salutari balsamiche.

Usualmente oggi ci scontriamo con prodotti dalla storia breve oppure persino artefatta (cfr Alberto Grandi, Denominazione di Origine Inventata-2018, Mondadori), perché poi sembra davvero che ogni produttore, oppure ogni attuale DOP o IGP abbisogni di un supporto storico che ne legittimi le origini. Ebbene con l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e di Reggio Emilia tutto è già scritto. Non ci sono dubbi. Non servono ricostruzioni a tavolino o invenzioni di circostanza. Saltando qualche secolo, nel 1789 il biologo ricercatore Lazzaro Spallanzani, scriveva così al bolognese prof. Leopoldo Caldani: “Io vi promisi mandarvi dal Ducato di Modena dell’eccellente aceto balsamico, giacché altro simile, altre volte non vi era dispiaciuto.

Le botti della famiglia Cavalli.

Potremmo continuare con le testimonianze, però in sunto, l’attuale DOP che salvaguarda il Balsamico Tradizionale nelle sole due province in cui può essere prodotto, è probabilmente l’esempio migliore in assoluto di quanto davvero una Denominazione di Origine Protetta abbia senso di esistere.

Ma cosa è di fatto questo Tradizionale Balsamico modenese e reggiano? In primo luogo non va confuso con il condimento balsamico, cioè con la IGP. Proprio perché, semplicemente, non è un condimento.

Il disciplinare

Qualche giorno fa ho concluso una degustazione, sperduto in una località dell’Isola d’Elba, durante le festività natalizie, che aveva lo scopo di presentare a un pubblico selezionato il Balsamico reggiano di Cavalli, per l’occasione accostato all’altrettanto prestigioso modenese della Famiglia Fiorini. Giusto per avere due esempi provenienti da entrambe le province della DOP. Oltre alla necessità di fare chiarezza sul prodotto anche dal punto di vista della sua lavorazione, dato che nonostante il nome sia noto, manca un reale approfondimento conoscitivo di questo aristocratico nettare; è emerso chiaramente che quando si parla di Tradizionale non si ha nulla a che vedere con un condimento. Il Balsamico della DOP può essere definito come un esaltatore di tanti piatti e preparazioni. È cioè un amplificatore del gusto, un moltiplicatore delle sensazioni gusto-olfattive. Ben lontano dunque dalla funzione di un comune aceto di vino.

Probabilmente è per questo che si accosta alla perfezione con il Parmigiano-Reggiano, in particolare con certe sue stagionature, tanto quanto su un gelato artigianale di crema appena uscito dalla mantecatura. Ma potremmo accostarlo a tanti altri piatti o ancor più banalmente depositare qualche sua goccia sulle fragole fresche. Gocce, appunto, perché come evidenzia il piccolo formato delle ampolle, usualmente da 100 ml, ciò che arriva a essere venduto in bottiglia è l’infinitesima parte di un processo lungo quanto la storia dell’aceto balsamico stesso.

Dettaglio di una botte della famiglia Cavalli.

A partire dal 100% di mosto cotto d’uva (varietà locali), come richiede il disciplinare, dai 50 litri di mosto fresco si ricavano 30 litri di mosto cotto, poi raccolto in damigiane-decanter per raffreddare, ove inizia la fermentazione alcolica; dopodiché si introduce la nuova porzione all’interno delle batterie di botticelle costituite almeno da 5 diverse essenze, dalla più grande alla più piccola, con travasi dalla prima all’ultima della batteria, passando ad esempio dai 60 litri della prima botte in ciliegio, attraverso la seconda in castagno da 45 litri, poi la terza in ginepro da 30 litri, la quarta in gelso da 20, infine quella di rovere da 15 litri. Non vi sono obblighi sulla scelta delle essenze, cioè ogni batteria può avere botti di legni diversi a discrezione del produttore e tutto questo chiaramente rende unico ogni singolo aceto che risulta dalla batteria ove ha sostato per almeno 12 anni, sempre secondo il disciplinare.

Considerate che solo per evaporazione si perde costantemente il 10% del prodotto. Infatti le batterie, per tradizione sono conservate in un luogo caldo e areato naturalmente, in dettaglio si tratta delle soffitte degli edifici, aperte all’aria locale senza nessun processo di ventilazione forzata o climatizzazione. Solo dopo 12 anni si può procedere al prelievo annuale, estraendo il 20% massimo del liquido contenuto nell’ultima botticella, ovvero 3 litri da quella di 15 litri.

Un’accurata selezione

Vi sono alcune differenze all’interno del disciplinare di Modena e di Reggio Emilia; riferendoci a quest’ultimo, dopo i 12 anni minimi, si arriva al traguardo dell’EXTRAVECCHIO con almeno 25 anni di invecchiamento. Caratteristica indispensabile per oltrepassare il punteggio dei 300 punti assegnati dall’organo certificatore che sommerà al valore di invecchiamento anche un giudizio sensoriale, oltre che un esame chimico atto a verificare l’acidità totale e la densità. A questo punteggio corrisponde, nella provincia reggiana il bollino ORO, mentre l’ARGENTO prevede un risultato uguale o superiore ai 270 punti; come l’ARAGOSTA, punteggio da 240 a 269, l’argento deve avere un invecchiamento minimo di 12 anni, oltre al riscontro chimico e sensoriale. Oltre il Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e di Reggio Emilia DOP, fanno parte degli organi di controllo il Sindacato Produttori Aceti nella Tradizione Matildica e la Confraternita dell’Aceto Balsamico Tradizionale che indice ogni anno, in occasione del Patrono reggiano di San Prospero (24 novembre), il Palio Matildico, una gara fra 500 aceti balsamici tradizionali delle famiglie reggiane.

Questo è un dettaglio importante. Perché oltre i produttori storici legati al mondo del vino, come era lo stesso Ferdinando Cavalli -che alla cantina vitivinicola affiancava il Balsamico Tradizionale come regalo per la clientela virtuosa- ma nel reggiano potremmo citarne tanti altri, fra cui Medici Ermete o Venturini Baldini (le cui acetaie valgono certamente una visita), oltre dunque le aziende, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e di Reggio Emilia è stato tramandato di padre in figlia, come dote di matrimonio. Un’ usanza che ne ha garantito la successione e la preservazione, mantenendo nei secoli questo meraviglioso prodotto di queste due province emiliane, forse anche sdoganandolo da quel suo ruolo di aristocratico nettare che lo relegava alle classi nobiliari e non certo al popolo, fino a divenire (quasi) un bene comune. Almeno a Modena e Reggio. Poi la cucina ha fatto il resto, suggerendone l’uso in tante preparazioni e piatti, spesso sfruttando il prestigioso nome per dare lustro a secondi di carne che in verità usano una riduzione del condimento balsamico e non certo il prelibato (quanto costoso, va detto) Aceto Balsamico Tradizionale.

Una vecchia botte della famiglia Cavalli.

E organoletticamente parlando? Ci siamo dilungati nel racconto, attraverso dettagli che però sono necessari per conoscere meglio questa ristretta e tanto amata DOP. Accostando al naso il piccolo cucchiaino che usualmente si adotta per le degustazioni e assaggi del Balsamico Tradizionale (talvolta anche alla cieca, per non farsi influenzare dall’etichetta, tanto meno dalla provincia, se Modena o Reggio), in primo luogo si rivela senza ulteriori spiegazioni letterarie, il perché del nome Balsamico. La complessità olfattiva, il bouquet ad ampissimo spettro sono infatti un elemento che richiede persone, team preparati, almeno per gli assaggi ufficiali. Le note officinali, potremmo dire anticamente “medicinali” di questo preparato lo rendono stratificato, aromatico, pungente, speziato, persino etereo. Al palato entra in bocca viscoso, denso e “sciropposo”, largo, con una nota acetica necessaria, ma lungi dall’essere predominante, accorpata in un elegante quanto pervasiva tridimensione gustativa di essenze legnose, fruttate, con dettagli riconducibili alla confettura di prugne, prugne disidratate, note candite e di spezie orientali, talvolta con riverberi lontani di china e liquirizia, tabacco nero e pellame, con rimembranze persino vaghissimamente liquorose. Ma tutto questo è riduttivo, perché alla fine, giustamente, il Balsamico Tradizionale torna a far prevalere l’acidità. È dolce ed agro al tempo stesso. In poche parole, non si può definire facilmente, se non assaggiandolo ripetutamente.

Lascio a voi la scelta personale, soggettiva, nel decidere fra Modena e Reggio il vostro preferito, solo lasciatevi immergere nella tradizione, nella storia e nel gusto. Ne sarete totalmente appagati.      

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