La Stüa de Michil

VALUTAZIONE

Cucina Classica

17/20

PREGI
La mastodontica cantina e la cura del servizio.
La romantica bellezza dell’ambiente.
DIFETTI
La difficoltà di trovare posto in alta stagione.

Un luogo di delizia

Se ci fosse un premio alla piacevolezza complessiva di un ristorante questo andrebbe senza dubbio a La Stüa de Michil, la raffinata e romantica tavola gourmet celata all’interno dell’hotel La Perla (Corvara in Badia, Bz), una delle strutture più affascinanti delle Dolomiti. Una manciata di tavoli, fra le scricchiolanti assi di antiche stües onuste di storia, ove tutto avviene per la placida soddisfazione e l’intimo diletto dell’ospite: dall’educato e franco sorriso dei giovani che accolgono e accompagnano l’avventore; alle luci, soffuse quanto basta; a una carta dei vini (curata da Silvio Galvan) che definire siderale è una diminutio; fino al servizio, attento ed empatico come pochi (nota di merito alle sorelle Valentina e Vanessa Stani e a Diego Holzmann). Ci sono poi due atout che impreziosiscono ulteriormente La Stüa de Michil. Il primo è il padrone di casa, Michil Costa, albergatore-filosofo che ama profondamente le “sue” montagne e che, agli inizi degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso, creando questo “luogo di delizia” a sua immagine e somiglianza, lo ha immaginato come una wunderkammer ove immergersi nel mondo alpino e nella cultura ladina, fra ricordo e meraviglia, fra pensiero e sogno. Il secondo è il cuoco, Simone Cantafio (classe 1986), che, ormai da più di un anno, governa una brigata di cucina, di circa una quarantina di elementi, completamente rinnovata, piena di entusiasmo e voglia di crescere. Nato a Milano, ma di origini calabresi, Cantafio vanta un curriculum di tutto rispetto: Marchesi, Cracco, Niederkofler, Georges Blanc e quindi undici anni con la famiglia Bras, prima a Laguiole e quindi in Giappone, nell’isola di Hokkiado, dove, al comando del ristorante Toya, ha ottenuto le due stelle Michelin.

“L’essenza degli ingredienti

La cucina di Cantafio a La Stüa de Michil, dal tratto assai personale, e già sin d’ora riconoscibile, si basa sostanzialmente su quattro pilastri: la maniacale ricerca delle materie prime, perlopiù di provenienza alpina; la centralità degli elementi vegetali (che non a caso appaiono sempre per primi nella descrizione della pietanza); lo studio dell’«essenza degli ingredienti, al fine di poterli tradurre al meglio nel piatto»; l’approccio fusion che riesce a mediare le tradizioni dolomitiche con i prodotti che giungono dalla Calabria (come per gli emblematici Pomodori verdi al salaturo, fusilloni tiepidi al verde di friarielli, battuta di gambero rosso, jus di sazizza calabra al torchio), e la grande tradizione classica francese con la cucina del Sol Levante (come per il magistrale Cavolo cuore di bue rosolato ai carboni e farcito di oca della valle di Funes, le sue punte in chiffonade alla mentuccia, salsa yuzu kosho). I piatti, anche quelli più complessi (come, per esempio, i Filetti di sogliola nappati al burro e zafferano farciti con funghi finferli e porcini maturati quattro mesi, millefoglie di zucca e spinacino, salsa d’ossobuco in gremolada), sfuggendo il tecnicismo esasperato, paiono prediligere una espressone diretta e immediata: gli elementi sono ben riconoscibili, orchestrati in una attenta armonia interna sostenuta dalle morbidezze (tendenze dolci e grassezza dell’ingrediente principale) e dalle avvolgenze (salse e jus) e vivificata da azzeccati e mai invadenti spunti amari (in genere da clorofilla vegetale: il pomodoro verde, lo spinacino…) e acidi (perlopiù agrumati). Il sapiente utilizzo delle fermentazioni e delle spezie (kimchi, curry, sesamo…) concorre poi ad ampliare la percezione palatale, aprendo il piatto a inaspettate e piacevoli sensazioni fusion, come per esempio, nel centrato Cavolfiore lentamente dorato al curry giapponese, jus di robiola, carpaccio di rombo, noci del Bleggio candite, pane orientale, sesamo. I piatti, in particolar modo i ghiotti amuse-bouche, non sfuggono poi un certo compiaciuto estetismo miniaturizzante che un po’ ricorda, nelle sue ideali torniture, alcune presentazioni tipiche della nipponica cucina kaiseki.

IL PIATTO MIGLIORE: Cavolo cuore di bue rosolato ai carboni e farcito di oca della valle di Funes, le sue punte in chiffonade alla mentuccia, salsa yuzu kosho.

La Galleria Fotografica:

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Gianluca Montinaro

Gianluca Montinaro, storico delle idee e professore universitario, è autore di numerosi volumi, fra cui i recenti: Aldo Manuzio e la nascita dell’editoria (2019); Martin Lutero (2019); De Bibliotheca (2020); Peste e coronavirus 1576-2020 (2021). Dirige la collana “Piccola Biblioteca Umanistica” per l’editore Olschki e il mensile di bibliofilia e storia delle idee «la Biblioteca di via Senato». Sommelier professionista, ha collaborato con il Gambero Rosso, e dal 2010, in veste di membro del Comitato di Direzione, con le Guide de L’Espresso I Ristoranti e i Vini d’Italia.

4 Comments

  1. Sante Barbati ha detto:

    Bellissimo articolo…

  2. Gianni Rigoni ha detto:

    Perché mai dovrei andare in Alto Adige per mangiare questa cucina? Se questa cucina è classica allora i tortellini sono il neolitico. È, purtroppo, solo globalizzata.

  3. *1 anonimo ha detto:

    Cucina classica si ma nelle presentazioni ”( che poi piacciono sempre a me credo così come a tutti ^_^ )”ingredienti insoliti x non dire poco conosciuti,comunque bravo lo chef x l’insieme del tutto ,dolici compresi.

  4. Claudio ha detto:

    Concordo, cucine fini a se stesse

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VALUTAZIONE

Cucina Classica

17/20

PREGI
La mastodontica cantina e la cura del servizio.
La romantica bellezza dell’ambiente.
DIFETTI
La difficoltà di trovare posto in alta stagione.

INFORMAZIONI

PREZZI

Menù degustazione a 165€ e 185€

Prezzo medio alla carta 160€

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