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Petrolo: fra Bòggina e Galatrona

Vino
Recensito da Gianluca Montinaro

«Petrolo? Il mio mondo!»

«Il mio mondo? È la mia tenuta: Petrolo!». Così il barone Luca Sanjust di Teulada, che aggiunge: «Quando a piedi percorro i suoi 33 ettari vitati, ammirando i declivi, guardando i terreni, posso quasi dire di conoscere una a una tutte le oltre centomila piante di vite che la abitano». Come Xavier de Maistre, che vagò per quarantadue giorni intorno alla sua camera (lasciandoci il suo aureo libretto, finemente pungente e ironicamente maliconico), anche il viaggio del barone Sanjust gode dei medesimi piaceri: l’immunità «dalla inquieta gelosia degli uomini» e dai mutamenti repentini della «fortuna». Cosa desiderare più di Petrolo? La sua storia affonda nei secoli, addirittura ai tempi della ‘cattività avignonese’, quando emissari dei papi francesi – evidentemente non paghi degli Châteauneuf-du-Pape – vennero spediti qui, in Val d’Arno, all’ombra della medievale torre di Galatrona (che ancor oggi svetta sopra la tenuta) ad acquisire vigne (fra cui il cru Bòggina) e ad acquistare vini bianchi (a base Trebbiano) per il santo desco del successore di Pietro. Nei secoli successivi, mentre si andavano consolidando vocazione e fama della Val d’Arno nella produzione di vini di qualità superiore (assieme a Carmignano e Chianti centrale), la tenuta passa di mano, e viene eretta la magnifica villa settecentesca a ridosso della quale sorgono le cantine storiche. Sino ad arrivare al secolo scorso quando tutta la proprietà viene acquisita dalla famiglia Bazzocchi, dalla quale poi è pervenuta, per via materna, a Luca Sanjust.

La consuetudine quasi secolare con questa terra, e le conoscenze sedimentate nei secoli (nell’Ottocento – giusto a titolo d’esempio – Petrolo era appartenuta all’agronomo Giorgio Perrin, membro dell’Accademia dei Georgofili, che aveva riscontrato come su questi terreni ben potevano crescere «uve franzose» da abbinare al Sangiovese), hanno permesso a Luca Sanjust di tratteggiare una mappa assai articolata e particolareggiata dei suoi vigneti, secondo terreno e microclima. Ognuno di essi – tredici in tutto, di altitudine compresa fra 250 e 450 metri – concorre alla produzione di una delle sette etichette della casa, secondo una dichiarazione d’intenti tanto ambiziosa quanto reale: «a Petrolo non esiste un vino base, esistono solo grandi vini». Ed è sufficiente considerare i numeri per cogliere la veridicità dell’affermazione.

Da oltre trenta ettari di vigne vengono prodotte meno di centomila bottiglie: un numero che può essere considerevolmente più basso nelle annate meno ‘fortunate’, senza però deflettere in nulla in qualità e finezza del vino. E ciò è possibile grazie alla conoscenza di ogni singola vite, a un maniacale processo di selezione delle uve, a una produttività oltremodo contenuta, a una vinificazione per lotti differenti (anche all’interno del medesimo vigneto) e quindi a un assemblaggio improntato a criteri qualitativi assai rigorosi. I vini, a base di Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon e Trebbiano, sono di carattere, espressione identitaria dei differenti terroir di Petrolo. Così, per esempio, dai vigneti Galatrona, Feriale e Poggio (che presentano un vasto giacimento argilloso, appena al disotto del galestro) nasce il Merlot del Galatrona (etichetta per la quale Petrolo è nota nel mondo), mentre dallo storico Bòggina (ove predominano galestro e alberese) giungono il Sangiovese e il Trebbiano dell’omonima etichetta.

Fra Bòggina e Galatrona

Nel corso di una recente degustazione, tenutasi a Milano e guidata da Luca Gardini (neo direttore della Guida Espresso ai Vini d’Italia), presenti Luca Sanjust insieme a suo figlio Rocco, si è avuta l’occasione di assaggiare proprio quest’ultime etichette: il Bòggina B (ove B sta per bianco, 100% Trebbiano), il Bòggina C (100% Sangiovese) insieme a due annate di Galatrona. «Il Trebbiano, ben prima del Sangiovese – ricorda Luca Sanjust – è il vitigno principe di queste terre. Fare un bianco è stata un po’ una scommessa ma eravamo comunque certi delle potenzialità del vigneto Bòggina, impiantato da mio nonno nel lontano 1947». Il vino Bòggina B, IGT Toscana Trebbiano, prodotto a partire dal 2014 in poche migliaia di bottiglie, è costruito ispirandosi alla Borgogna: sosta per quindici mesi sur lie in tonneaux da 5 hl. dove compie fermentazione alcolica e malolattica, con periodici bâtonnage e nessun travaso prima dell’imbottigliamento.

Due sono le annate che si sono assaggiate: il 2020 (in anteprima assoluta) e il 2016. E il confronto non avrebbe potuto essere più interessante perché i due vini hanno presentato un’espressione del tutto differente. Non che Luca Sanjust non lo avesse premesso, tutt’altro. E anzi la decisione di proporre il Bòggina B 2016 a fine degustazione è stata proprio per far apprezzare al meglio la diversità, data dall’evoluzione, delle due bottiglie. Entrambi di un bel coloro giallo paglierino, intenso e quasi con ‘riflessi metallici’, i vini si sono proposti al naso su due linee assai diverse. Solidamente monolitico, marcato dalla salinità minerale, dalla vinosità (quasi al limite dello spunto) e da sottili toni erbacei e floreali il 2020. Molto più ‘sciolto’ e aperto il 2016 che, grazie ai quattro anni in più sulle spalle, appare più complesso e fine del suo fratello minore, seppure forse un pizzico meno intenso. Conquista il ventaglio aromatico: l’aspetto vinoso dato dal prolungato contatto con le fecce fini risulta pienamente integrato in un equilibrio fra note di sasso marino, di fiore giallo, di frutta a polpa (bella la susina), di macchia mediterranea e di sottili morbidezze date dal legno. Anche in bocca la monoliticità minerale del 2020 si trasforma, nel 2016, in un serrato dialogo fra morbidezze e durezze, in particolar modo fra i polialcoli da un lato e le note saline dall’altro. Facendolo roteare sul palato il 2016 si apre ulteriormente, apparendo intenso, di lunga persistenza, di qualità assai fine, senza essere però stucchevole. Anzi, in fine di bocca ad apparire è proprio una punta di acidità che invoglia al sorso successivo.

Molto complessa è stata poi la degustazione di sei annate del Bòggina C (Val d’Arno di Sopra Doc; 100% Sangiovese): 2020, 2019, 2015, 2012, 2010, 2007. Cinque sono le caratteristiche principali che si sono riscontrate nei sei bicchieri: il rispetto di terroir e vitigno, la loro riconoscibilità, il perfetto uso del legno (né troppo, né troppo poco), la pulizia e l’eleganza a livello olfattivo e gustativo, la costanza nella qualità. E non c’è da meravigliarsi che ci sia continuità nell’eccellenza: il Sangiovese ha trovato nella vigna di Bòggina un terreno d’elezione, essendo uno dei cru che meglio lo esprimono. Sicché non solo qui si possono ritrovare tutti i tratti tipici di un Sangiovese d’eccellenza (la viola mammola, la ciliegia, l’amarena, l’arancia rossa, note di sottobosco al naso, e quindi in bocca bel tannino, acidità, morbidezza…) ma questi si intrecciano con le caratteristiche proprie della terra di Bòggina. La mineralità è imponente, la struttura polialcolica lo è altrettanto, creando una beva ricca, e quasi ‘golosa’. La persistenza è assai lunga e termina senza cedimenti, con una pulizia così estrema che invita al prossimo bicchiere. Va da sé che il 2020 si è presentato croccante nella sua giovane immediatezza, ma già assai elegante e fine, e di grande piacevolezza. Il 2019 invece è apparso più introverso: con una espressione più cupa al naso (i frutti di bosco si percepiscono nettamente, così come i tocchi balsamici che rimandano all’alloro e all’eucalipto) ma con un sorso all’apparenza più complesso, seppur sempre immediato. Il 2015 merita un’attenzione particolare per la sua possanza muscolare, già percepibile al naso. I profumi sono complessi ma soprattutto profondi, come anche l’espressione gusto-olfattiva, con il suo tannino integrato ma ben presente, la mineralità marcata, la succulenza in centro e in fine di bocca. Sorprendente il 2012, con i suoi aromi complessi e suadenti (belle le note di speziatura, come anche la frutta a polpa e i piccoli frutti rossi) sostenuti da una struttura in perfetto equilibrio fra morbidezze e durezze, un sorso teso e lunghissimo, dal tratto golosamente elegante. 2010 e 2007 infine mostrano tutte le potenzialità evolutive del Sangiovese di Bòggina: appaiono fini note terziarie al naso e in bocca, senza però intaccare né l’eleganza dei profumi tipici del vitigno, né tantomeno la finezza della beva che anzi appare come dilatata dal lungo affinamento in bottiglia. In bocca il 2010 pare incedere con passo di danza, mentre il 2007 cadenza una marcia improntata alla regalità.

Le due annate di Galatrona (Val d’Arno di Sopra Doc), 2020 e 2005, che hanno ritmato i passaggi dai Bòggina B ai Bòggina C, hanno riaffermato – se mai ce ne fosse stato bisogno – come questa etichetta sia, incontestabilmente, uno dei ‘vini del mito’ del nostro Paese. Con orgoglio Luca Sanjust ricorda l’affermazione di Denis Durantou, storico proprietario di château l’Église-Clinet a Pomerol: «Galatrona è un grande vino toscano». È ancora la terra, in questo caso della vigna Galatrona (impiantata a inizio anni Novanta con cloni bordolesi) a parlare nella bottiglia: con la sua argilla, con il sottile soprastante strato di galestro, albarese e arenaria, con il suo perfetto microclima e la sua perfetta esposizione (tutti fattori che permettono al vigneto Galatrona di produrre un vino elegante e molto strutturato anche nelle annate considerate minori). Il 2020 appare in tutta la sua baldanza, fintamente immediato nella sua giovinezza. Gli aromi sono fini, ampi e complessi, legati al mondo del minerale, del fruttato e dell’erbaceo più che dello speziato. Anche in bocca il vino si presenta ‘croccante’: l’acidità e la mineralità dialogano serratamente fra loro, con gli interventi dei tannini, lisci e assai vellutati, e della morbidezza dei polialcoli. L’insieme, già perfettamente in equilibrio, sfugge ogni possibile pesantezza (e anzi colpisce come l’estrazione sia stata ben modulata) e si muove in centro e in fine di bocca con agilità, finezza, eleganza e ampiezza. Ed è proprio un senso di ‘sconfinato’ che si avverte in fine di sorso: pulito e composto pare non finire mai. Nel medesimo solco anche il Galatrona 2005: i profumi qui sono ancora più ampi e complessi, con affascinanti note terziarie che iniziano a fare capolino fra il frutto (ora più maturo e a tratti in confettura), l’erbaceo (assai raffinato) e il minerale (il tocco argilloso è nel 2005 più presente). Qua e là dei fiori, non ancora secchi. In bocca il vino – come per un grande Pomerol di una ventina d’anni – è ancora agile e fresco, e la mineralità appare ben ‘assorbita’, come anche il tannino, impalpabile nel suo essere ben integrato. Le sensazioni caloriche e pseudocaloriche tengono il passo, senza stucchevolezza ma anzi generando una morbida golosità. Equilibrato, intenso, assai persistente e di finezza eccellente, il Galatrona 2005 appare ancora in viaggio: a mezzo fra la freschezza della gioventù e la suadente opulenza degli anni della maturità.

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