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Viaggio a Segesta, silenzi pitagorici e vini dell’amicizia

Vino
Recensito da Gae Saccoccio

L’inizio della saggezza è il silenzio.

Pitagora (575 a.C. – 490 a.C.)

Mistica del genius loci

Il villaggio di Hunawihr sulla route des vins d’Alsace è un luogo magico, almeno così mi piace ricordarlo visto che saranno quasi dieci anni non ci torno. La chiesa di Saint-Jacques-le-Majeur con affianco il cimitero sommerso dalle vigne è un luogo incantato dove farsi seppellire e chissà, riposare per l’eternità, a crederci. 

Qualche settimana fa sono andato a Segesta, la mia prima volta. Segesta è un altro di quei luoghi mistici dove percepisci fin da subito un’energia campestre che ribolle sottoterra e magnetizza l’aria in superficie: la magia del genius loci. Bello inerpicarsi sul colle mentre la gran parte dei turisti si fa traghettare dal bus. Man mano che si sale si accede a una visione commovente del Tempio, sull’altro colle accerchiato da vigne lavorate, boschetti di macchia, gole scoscese. Una volta raggiunta l’Acropoli sul monte Barbaro stesi a occhi chiusi su uno dei gradoni del teatro greco, il sole sulla pelle trasmette una carica di vitalità, una forza interiore che è impossibile razionalizzare a parole, parole, parole.

Costruito alla fine del III sec. a.C il teatro di Segesta – esempio luminoso di architettura greco-ellenistica – conteneva oltre 4000 persone oltre al coro e agli attori, fantasmi dispersi, presenze invisibili che elettrizzano un’aria che pare carica del loro vissuto precristiano. Tra uno scarico di turisti e l’altro riesco a vivermi un minuto di silenzio sacro, solleticato dalla brezza del golfo di Castellammare giù in fondo al panorama. Avevo portato con me un libretto di Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia tratto da La vita errante (1890) da cui ho sottolineato questa frase sulla definitiva perdita di bellezza architettonica del mondo moderno:

Attualmente, ogni architettura è morta (…) sembra aver perduto quel dono di costruire la bellezza con le pietre, quel misterioso segreto della seduzione per mezzo delle linee”.

Variabili singolari e determinanti

Passeggiando tra i frammenti della storia antica, si può comprendere benissimo quello che dice il fotografo Josef Koudelka in merito all’ombra e alla luce giusta per fotografare le rovine delle civiltà passate. Radici era la mostra dedicata ai siti archeologici più importanti del Mediterraneo che Koudelka ha fotografato in bianco e nero. Dall’alba al tramonto, alcune foto di un dettaglio di rovina, colonna, statua è tornato a scattarle più volte in giorni diversi perché perso il minuto esatto di intersezione di luci/ombre del preciso momento ricercato dal suo occhio, avrebbe dovuto attendere il giorno successivo alla stessa ora, minuto, secondo per ritrovare lo scatto giusto. Una densa riflessione fotografica sull’irreversibilità del tempo nello spazio.

Il pensiero sullo scatto giusto esprime la misura del momento unico sull’epoca di vendemmia oggi e non domani, adesso e non dopo, perché la maturità raggiunta delle uve sulla pianta decide il carattere del vino, la sua grana, il suo equilibrio fenolico e zuccherino, l’interpretazione singolare che il vignaiolo vuole dare a quell’uva trasformata in vino. Questo genere di variabili che a occhi distratti sembrano dettagli trascurabili, in verità sono dettagli peculiari che fanno la differenza nella distinzione tra arte, artigianato, industriale, seriale, umano, meccanizzato.

Un tema che genera molta angoscia nel vino è quello del prezzo dell’uva a seconda se ci si trova in zone rinomate o in areali dove si produce per fare quanto più volume a prezzi ridicoli che non stimolano nessun contadino a fare qualità anzi infondono pressappochismo e furberia truffaldina tanto in chi produce quanto in chi imbottiglia. Si bombardano le vigne di diserbanti per produrre quanta più uva tanto con le fatiche che costa lavorarla per bene visto quello che la pagano a quintale non vale la pena neppure perderci tempo e denaro. Alcamo, Marsala e il trapanese in generale sono territori vitatissimi, ma purtroppo chi lavora la terra con un progetto di cura della vigna, di prescrizione qualitativa e devozione alle fatiche della campagna per produrre vini genuini da agricoltura sana, sono ben pochi visionari. Aldo Viola, Nino Barraco, Vincenzo Angileri, Pierpaolo Badalucco, sono quelli che mi vengono in mente per primi. In vigna a contrada Guarini da Aldo Viola si è ragionato sul fatto che è sempre più difficile distinguere chi è vignaiolo-contadino perché lavora la terra, mantiene la vigna da cui fa il vino e spesso fa fatica a generare indotti da reinvestire nella sua attività, dall’imprenditore agricolo che investe sulla terra per ottenere profitto. Certo entrambe le retoriche, quella del contadino eroe che arriva a stento a fine anno produttivo e quella del cittadino o dell’intellettuale convertito alla vita bucolica hanno generato parecchi mostri, distorsioni esibizionistiche e atteggiamenti modaioli davvero degenerati nel mondo del vino soprattutto da quando ce ne stiamo tutti a osservare ed essere osservati nel teatrino degli orrori passivo-aggressivi dei social. 

Il vino degli amici

Bisognerebbe coltivare il desiderio di separare le cose dal rumore che esse fanno come insegnava Seneca, ma oggi il rumore è predominante su tutto e su tutti, dall’irrealtà virtuale a quella fattuale, ed è sempre più difficile anche soltanto tendere alla saggezza pitagorica che anteponeva il silenzio alla parola. Difatti più delle parole Aldo, dopo aver “camminato la vigna” assieme, ha imbastito una colazione energizzante all’ombra di un gelso. Il pasto povero ma ricco dei contadini: sarde sotto sale pucciate in olio e aceto, che abbiamo gioiosamente innaffiato con più di qualche bicchierozzo del suo ossidativo “ruby” senza etichetta, il vino degli amici, vino che non è in vendita perché l’amicizia non ha prezzo, né retorica, né commercio.

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