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Upstream

di Leila Salimbeni

Una storia controcorrente

Quella degli italiani per il salmone è un’infatuazione recente. Figlia della globalizzazione dei consumi, e dei costumi, l’italiano medio contemporaneo non vanta certo una memoria né, tantomeno, un palato storico che possa affrancarlo dalle cantonate né che gli sia da supporto nel mare magnum del salmone contemporaneo. 

Per chi ama il pesce e complice, oltre al colore, anche l’affumicatura, il salmone rappresenta, tra le carni ittiche, quella più immediatamente riconoscibile e ciò è, indubbiamente, rassicurante. Di lui, però, appagano anche altri elementi perché il salmone, pur orbitando in un contesto di familiarità, lenisce una certa fame di esotismo consentendo peraltro anche l’accesso a una dimensione più lussuosa della tavola della quotidianità, di cui rappresenta un’eccezione e, certamente, un’evasione: qualcosa di straordinario. 

E infatti è l’icona delle tavole borghesi che gremisce, sulle tartine, per la cena della Vigilia di Natale donde arriva, oggi, dalla GDO e, prima, per una più breve degenza, dalle botteghe illuminate com’era quella di Peppino Cantarelli a Samboseto, che ivi serviva quello di Barnetts. Manco un decennio dopo e, da allora, le sue tornite, oleacee carni hanno gremito gli scaffali della grande distribuzione nazionale, con grande abbondanza e varietà di tagli, prezzi e provenienze. E, a questo punto, una precisazione è d’uopo: perché che se la locuzione “d’allevamento” soffre di connotazioni che dal neutro virano, spesso e volentieri, al disforico, la parola “selvaggio” riferita al salmone è stata invece innaturalmente semantizzata in senso solo positivo dalla vulgata popolare, rassicurata dalla sua stessa ignoranza in fatto di pratiche di pesca e di salubrità delle acque. “Ma questa è un’altra storia… perché una dissertazione in materia richiederebbe una trattazione a se stante e, soprattutto, il punto di vista degli stessi allevatori.” 

Cerchiamo dunque ora di restituire ai nostri cinque sensi la loro capacità di discernimento in materia e, per farlo, chiediamo ausilio a Claudio Cerati, fautore di una realtà “controcorrente” di nome e di fatto chiamata, appunto, Upstream

Un salmone di qualità si riconosce dalla tenuta delle sue carni. Prendete una fetta di salmone, strappatela con le mani: se la suddivisione delle fibre, che dovrebbero apparire comunque poco grasse – sottolinea Claudio – rimane carnosa, il salmone è un salmone di qualità. Diversamente, se la fibra è poco elastica possono esserci problemi che dalla dubbia qualità della carne si spingono a considerazioni circa la sua corretta conservazione.” Colpisce, ora, la questione della grassezza perché, da sempre, siamo stati abituati a considerare il salmone una carne legittimamente grassa: “Si tratta di un aspetto interessante – argomenta Claudio – perché come avviene per tutti gli esseri viventi il grasso dipende dall’alimentazione la quale, se è sana e bilanciata, anche nel nostro salmone svilupperà un equo rapporto tra massa grassa e massa magra, nonché una maggiore qualità delle componenti, anche grasse, ricche di sostanze benefiche e nutrienti.

E ciò vale anche per le razze pesanti del regno terrestre le quali, se allevate bene, sviluppano un grasso che non esitiamo a definire, in alcuni casi, anche “nobile”, come quello del suino il cui riferimento non è, invero, affatto casuale. Questa nostra storia incomincia infatti proprio in quel di Parma, ovvero dove s’è affermata la secolare cultura del maiale mutuata dai Longobardi e che, in un certo senso, sopravvive anche in questa storia: “Ogni anno organizzo la festa dell’affumicatura: si tratta di un momento condiviso di cui partecipano tutti i familiari e gli amici che, sin dall’inizio, hanno scritto con me la storia di Upstream. Come quando si ammazzava il maiale, in passato, e si ridistribuivano, in quel momento, oneri e onori, così faccio da sempre anche col mio salmone che è oggi l’esito di una storia incominciata circa vent’anni fa da una mia personale curiosità sulla marinatura – che deve contemplare solo sale e zucchero – e sull’affumicatura. Quello che ne sortì lo regalai agli affetti più cari, che sono anche coloro che tuttora contribuiscono al progetto, e che ricevono il salmone “in assegnazione” partecipando con me di questa dimensione imprenditoriale, affettiva e rurale che è, appunto, la nostra Upstream.” 

Rurale ma, in un certo senso, anche boschiva: perché se la questione della marinatura fu compresa subito da Claudio come strategica, l’affumicatura realizzata col legno di faggio – “del Monte Caio“, precisa lui – è invece qualcosa che ha dovuto farsi strada nel reticolo della sua memoria affettiva e olfattiva: “Si tratta di un insieme di ricordi ancestrali dove il profumo del camino della stufa di mia nonna si combina con le prime affumicature fatte col fumo della legna che aveva raccolto mio padre, nel 2000, prima di lasciarmi. Nel fumo di quella legna, che permeò quella carne, io rivivo ogni volta mio padre.” 

Un’impresa tutta personale, insomma, e familiare, che prevede passaggi inaspettati come il viaggio al contrario della legna che dall’Appennino parmense vola verso le isole Fær Øer, dove il salmone selezionato da Claudio cresce in allevamenti non intensivi ma distensivi, ovvero sensibili ai suoi spazi vitali e alla salubrità delle acque.

Quanto al nome, Upstream, ancora una volta siamo di fronte al potere auto-avverante delle parole scelte non solo per la rappresentazione del mondo che spalancano, ma anche che promettono: “Un carissimo amico catanese, da sempre coinvolto nella produzione, mi propose “controcorrente” che, però, a me suonava male. Cercandone il corrispettivo inglese scoprimmo che c’era un’intera pagina di connotazioni semantiche legate alla parola “upstream” che, a quel punto, scegliemmo come nome di battesimo. Un nome che ha plasmato tutte le decisioni future, come la confezione, che volli priva della solita finestra trasparente perché volevo che il consumatore s’affacciasse al mio salmone con un approccio differente: upstream, ancora una volta.” 

Un nome che si fa presagio, insomma, e che vanta ulteriori implicazioni: se pensiamo, infatti, che l’intera industria del salmone affumicato nasce per perpetuare una tradizione antica di secoli, quella delle popolazioni del Nord del mondo, con Upstream si parte da un presupposto completamente diverso: si persegue, infatti, non una tradizione collettiva ma una ricetta e un sapore ideale e individuale: quello Claudio Cerati, che non prevede per lui la consueta combinazione col burro, “perché non c’è affatto bisogno di smorzarne né la sapidità né l’affumicatura“.

Insomma una storia, quella di Upstream, in purezza, dove il salmone non abbisogna d’altri che di se stesso.

1 Commento.

  • Lisa Bonfiglio1 Giugno 2021

    Bellissimo articolo, uso Upstream nel mio negozio da diverso tempo e sono molto soddisfatta e i miei clienti pure.

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