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Il pane: lo scibile sul fermentescibile (parte II)

di Leila Salimbeni

La parte aerea: il lievito di birra 

Il lievito di birra è, tra i lieviti, quello più anticamente amministrato: pare fosse noto già presso i remoti tempi dei babilonesi e degli egizi, quando anche lo conobbero i giudei assoggettati ai faraoni. Secondo un’antica vulgata, questo lievito sarebbe stato scoperto per caso: qualcuno – una massaia sbadata o un uomo ubriaco – rovesciò una coppa di birra in una madia piena di farina e, per non buttarne via l’esito, si cominciò a impastare, pensando di ricavarvi comunque qualcosa di auspicabilmente commestibile. Così nasceva il Saccharomyces cerevisiae, ovvero l’elemento di cui parliamo quando parliamo di lievito di birra, un microrganismo fungino presente naturalmente anche negli acini dell’uva e usato da millenni proprio per la produzione di vino e di birra, oltre che, come detto, del pane.

Il ruolo dell’alcol

In particolare, esso gioca un ruolo essenziale in ogni tipo di fermentazione dove, sintetizzando gli zuccheri, produce anidride carbonica e alcool (etanolo) in forma massiva, a fronte invece di una piccola quantità di acidi: è essenzialmente questa proporzione a differenziare il processo rispetto al lievito madre, dove invece gli acidi sono in maggiore quantità. Nello specifico, non si tratta solo di anidride carbonica – la cui formazione è all’origine del rigonfiamento del pane nel forno – ma anche, come detto, di etanolo nonché di un gran numero di molecole – più di 200 in totale – che danno vita all’aroma caratteristico dei prodotti da forno e le cui variabili, anche aromatiche, sono prodotte dai differenti parametri di produzione – farine, ingredienti, idratazione, tempi di fermentazione – e, non ultimo, dal metabolismo specifico del lievito. Ovviamente, complici la facilità di coltivazione e la rapidità d’azione, il lievito di birra ha trovato largo impiego nella produzione contemporanea del pane ma, a proposito di contemporaneità, occorre fare una precisazione preliminare: contrariamente a quello che si crede il lievito di birra tradizionale non contiene glutine e, anche se spesso si afferma il contrario, non esiste, a livello medico, alcuna allergia al lievito.

La lievitazione “biologica”

La lievitazione è un processo naturale. Per lievitazione biologica s’intende il processo di produzione di anidride carbonica per opera di lieviti, presenti sia in forma pura (come nel lievito di birra) o in combinazione con altri microrganismi come i batteri lattici nel caso del lievito madre da fermentazione spontanea. Questi lieviti, in assenza di aria, passano a un metabolismo di tipo fermentativo, trasformando il glucosio presente nell’impasto in anidride carbonica ed etanolo. Ebbene, la CO2 così prodotta si accumula nell’impasto in forma gassosa esercitando una pressione (gassosa) sul reticolo impermeabile del glutine: è questo processo il responsabile del rigonfiamento dell’impasto durante la lievitazione. Il lievito di birra, a differenza del lievito madre, provoca una lievitazione indotta, cioè non spontanea, ma ugualmente biologica. L’unica differenza è che la lievitazione indotta dal lievito di birra avviene per fermentazione alcolica e non per fermentazione lattica e acetica, come nel lievito madre.

In limine tra “naturale” e “commerciale”

Il lievito di birra è un microrganismo che prende vita dal melasso da zucchero. Le ragioni della sua formazione attingono da un processo del tutto naturale, che le aziende assecondano creando le condizioni più favorevoli perché il lievito si riproduca in presenza di ossigeno. Nel dettaglio, il processo di propagazione di questi microorganismi si basa sulla fermentazione dello zucchero, cui la letteratura scientifica ha attribuito numerose proprietà: vero e proprio forziere alimentare. Oltre che in panificazione, infatti, il Saccharomyces Cerevisiae opportunamente disidratato e trasformato ad uso alimentare  apporta alcuni benefici nutrizionali: è un integratore naturale ricco in fibre; figura tra le fonti più concentrate, in natura, di vitamine del gruppo B (B1, B2, B5, B6, B9); contiene numerosi oligoelementi in forma organica e, quindi, più facilmente assimilabili dall’organismo (ferro, cobalto, rame, manganese, zinco, calcio e persino cromo) e, in alcune condizioni, può divenire fonte di glutatione, uno dei più potenti antiossidanti esistenti in natura.

Le forme commerciali del lievito di birra

Il lievito di birra nasce in forma liquida: da essa, poi, derivano tutte le forme di prodotto in commercio. Filtraggio e disidratazione consentono una estrazione naturale di una parte o tutta l’acqua del lievito liquido e consentono la produzione di una gamma di prodotti con crescente sostanza secca, adatta ognuna ciascuna a un particolare utilizzo. In commercio esistono il lievito liquido pronto all’uso, ideale per dosaggi automatizzati in impianti industriali; il lievito compresso in panetti o sacchi per l’uso industriale, semi-industriale, artigianale e casalingo e, infine, esistono anche lieviti secchi istantanei, o da reidratare, utili laddove non è così facile garantire una corretta gestione della catena del freddo.

Il lievito commerciale fresco

Lievito liquido

Come detto, il lievito fresco nasce in forma liquida. Solo recentemente, però, con la forte crescita del settore della panificazione industriale questo formato ha preso piede generando un grande interesse, anche da parte degli artigiani. La crema di lievito, in particolare, si presenta in una condizione di igiene e conservazione ideali: non subisce nessun ulteriore passaggio produttivo o manipolazione, è costante ed efficiente nel suo rendimento perché la sua natura liquida le consente di disperdersi con maggiore omogeneità nell’impasto. Il lievito liquido viene facilmente utilizzato anche negli impianti di dosaggio automatizzati, dove offre garanzia di rendimento sicuro anche nei processi impegnativi come le lievitazioni controllate, le lievitazioni ritardate e il surgelato. Inoltre, lo stoccaggio, la gestione, e il trasporto in tanks di vari formati riducono l’impatto ambientale eliminando gli imballi primari e secondari.

Lievito compresso

Il lievito di birra si trova in commercio anche e, soprattutto, sotto forma di pani compressi (60-75% di acqua). I suoi enzimi agiscono su glucosio e fruttosio. Il prodotto, composto da acqua, cellulosa, glucidi, sostanze azotate, grasse e minerali, entra nell’impasto con dosi di 30-50 grammi per kg di farina, innescando una fermentazione che, come abbiamo visto, è di tipo alcolico. Il lievito pressato è la tipologia sicuramente più conosciuta e utilizzata, sia dai panificatori domestici che da quelli professionali. Nel suo formato in pani, da 500 grammi, contiene tra il 28 ed il 35% di sostanza secca, è molto friabile e bianco e si amalgama facilmente durante le fasi di impasto; se stoccato in cella frigorifera tra 0° e 6°C conserva tutte le sue proprietà molto a lungo.

Lievito fresco in scaglie

Nella stessa categoria di lievito fresco rientra anche il lievito in scaglie, tipicamente stoccato in sacchi. Esso è costituito da fini scaglie, appunto, che favoriscono la dispersione nell’impastatrice: il formato in scaglie consente un dosaggio automatico, regolare e preciso, ma è utilizzato anche per la rimessa in sospensione in acqua: si presta perciò a essere utilizzato nei processi industriali che prevedano linee automatizzate.

Il lievito secco

Complice la lunga shelf life e la possibilità di essere conservato a temperatura ambiente, il lievito secco è utilizzato indifferentemente da panifici industriali e artigianali. Per via della sua capacità di permanere attivo anche per lungo tempo, si tratta di un lievito performante ed efficiente che si presta a utilizzi diversi da quelli della panificazione diretta: viene infatti scelto anche da mulini e da produttori di semilavorati. Ottenuto tramite un’ulteriore disidratazione dal lievito fresco pressato, si presenta sotto forma di vermicelli o piccole sferule e risulta particolarmente apprezzato nelle zone climatiche umide per la sua stabilità rispetto alla temperatura dell’ambiente.  A livello operativo il lievito secco permette un’amalgama veloce e omogenea nell’impasto: l’incorporazione si effettua direttamente, mescolandolo a secco nella farina o spolverando la pasta nelle prime fasi della lavorazione (o dopo opportuna reidratazione).

Un aiuto strategico: il malto e l’estratto di malto

Il malto è il prodotto della germinazione dei cereali, principalmente l’orzo, da cui si sviluppano enzimi che trasformano l’amido in maltosio: si tratta di uno zucchero semplice e, come tale, può essere fermentato dai lieviti e trasformato in alcol durante la lievitazione in maniera molto diretta. Per questo motivo l’estratto di malto è spesso utilizzato in panificazione per stimolare l’attività fermentativa, per aumentare l’attività delle amilasi presenti nella farina, per aumentare la colorazione della crosta in cottura e ancora per altri strategici scopi. Si tratta infatti di un coadiuvante naturale che il pane condivide con la birra e col whisky ma, nel suo utilizzo per la panificazione, la legge prescrive un limite massimo del 4% della sostanza secca. La maltatura è articolata nelle fasi di macerazione, essiccazione e tostatura. Tradizionalmente parlando, l’aggiunta all’impasto di cereali malati è una prassi riconducibile, storicamente, al Sud Tirolo.

Il lievito chimico 

Tecnicamente solo questo è da considerarsi non naturale. Si tratta infatti di un agente lievitante composto da un elemento alcalino come il bicarbonato di sodio o il carbonato di ammonio e uno acido come l’acido tartarico o il cremor tartaro, la cui reazione rilascia bolle di anidride carbonica che aumentano il volume dell’impasto o della pastella. I due elementi attivi sono integrati da un elemento inerte, ad esempio la fecola di patate che forma una polvere usata principalmente per la produzione dei dolci.

Per saperne di più Terra di Pane. Il Grande libro del Pane Italiano curato dalla sottoscritta in collaborazione con Ezio Marinato e ALMA, per i tipi di Plan Edizioni.

* In copertina, un altro uso del lievito di birra, quello di Riccardo Camanini al Lido 84

 

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