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L’Oca

di Giancarlo Saran

Una dietrologia

Hanno bucato lo schermo dell’immaginario collettivo, negli annali di storia, starnazzando come… oche, appunto, mettendo così in fuga Brenno e i suoi Galli (intesi come feroci guerrieri barbari) che volevano mettere a ferro e fuoco Roma nel 380 a.C. Da allora, quale doverosa riconoscenza, il popolo romano si impose una tassa per mantenerle, vita natural durante, a difesa del simbolo della Città. In realtà la loro storia era iniziata prima, già messe a far compagnia, nelle tombe dei faraoni, quale ideale sostegno per il lungo viaggio verso il regno delle ombre. Da ritrovamenti in alcuni scavi del Neolitico questi palmipedi risultano essere stati addomesticati ancor prima delle loro cugine di penna, le mansuete galline.

Fin da subito, l’oca venne individuata come animale estremamente redditizio per il suo allevamento, che non richiedeva particolare impegno (venivano portate al pascolo dai piccoli di casa); per la loro rapidità di crescita (in due mesi moltiplicano per quarantacinque volte il loro peso, come se un nostro neonato, di pari età, arrivasse a pesare centocinquanta chili) e, infine, per la possibilità di conservazione delle loro carni che, nell’era pre-tecnologica, cioè sino ad alcuni decenni oro sono, era cosa non da poco. Già i Romani avevano imparato ad apprezzarne il fegato tanto è vero che, per l’ingrasso, si usavano i fichi (cotti o secchi poco importa) da cui, per proprietà transitiva,  il frutto divenne il compagno del fegato grasso nel piatto. Si narra che ne fosse particolarmente ghiotto Alarico II, Re dei Visigoti. Già Lucio Columella, nel suo “De Agricoltura”, ne aveva descritto i diversi modi di allevarla e nutrirla anche se il trionfo, a tavola, lo si deve a quell’impenitente di Petronio che nel suo “Satyricon”, descrivendo la Cena di Trimalcione tramandò a futura memoria di un’oca protagonista di una spettacolare portata raffigurante la costellazione dello zodiaco. Caduto l’Impero Romano continuò a prendersi cura delle oche nientemeno che Carlo Magno, raccomandandone l’allevamento nelle campagne, mentre la legge salica prescriveva l’ammenda di centoventi denari per chi avesse rubato un’oca. Nell’opulenza del Rinascimento l’oca tornò regina attraverso diversi scritti, da quello di Bartolomeo Stefani, alla corte dei Gonzaga, ad Antonio Latini che ne sottolineò l’estrema versatilità per giungere a Antonio Frugoli che, nel 1638, per primo lasciò memoria scritta delle gioie golose del collo d’oca ripieno. Ma l’oca fu anche protagonista di un’opera poco conosciuta di Wolfgang Amadeus Mozart,”L’Oca del Cairo” e, in tempi più recenti, il Nobel 1973 per la medicina, l’etologo Konrad Lorenz, pose al centro dei suoi studi il comportamento di questo virtuoso palmipede rendendo giustizia delle varie nomee che lo accompagnano, da “giuliva come un’oca” in poi.

La geografia dell’oca…

Pochi sanno, infatti, che l’oca può volare alto non solo in cucina ma anche nella realtà essendo l’unica che può librarsi nell’aria attorno ai novemila metri, come solo l’aquila sa fare. Ed è perciò presente nella tradizione di diversi paesi, non solo europei. In Cina, oltre all’allevamento intensivo viene ancora usata, in alcuni distretti periferici, come alternativa ai cani da guardia. In Italia la troviamo presente in tutta la fascia della Pianura Padana, dai confini lombardo-piemontesi sino al Friuli Venezia Giulia. Posto che di lei non si buttava via niente, era considerata alla stregua del maiale nell’aia e le cui piume andavano a dare sostanza ai materassi messi da parte quali dote per le giovani da marito. Ma non solo. Raffinato oggetto di scrittura, in epoca romantica, la penna bianca degli ufficiali alpini era rigorosamente d’oca così come la sua pelle, opportunamente trattata, sostituta ideale del cigno a dare forma a prodotti pregiati quali i guanti. Il suo grasso, oltre che come corroborante alimentare, fino agli anni Cinquanta era usato quale miracoloso unguento per combattere i fastidiosi malanni invernali, anche se Apicio ci racconta che, ai suoi tempi, in mancanza di miracolosi bisturi estetici, veniva usato per rassodare il seno delle giovani puerpere, oltre a tonificare e detergere la pelle. L’allevamento dell’oca, in Italia, si è basato su due particolarità: la natura di alcuni terreni – l’oca predilige quelli acquitrinosi, dove convivono l’acqua e il pascolo – e le comunità ebraiche, che molto hanno influito sulla tradizione che le veniva riservata a tavola. Una delle patrie storiche dell’oca golosa è Mortara, capitale della Lomellina, una zona a scavalco tra le province di Pavia e Novara, per intenderci. Dal 1970 si svolge uno storico Palio di risonanza internazionale ma fu qui che, nel Cinquecento, Ludovico il Moro diede avvio alla coltivazione intensiva del riso. Non potendo svilupparsi l’allevamento del maiale, l’oca divenne così protagonista nella vita delle cascine, occupazione prevalentemente femminile, dall’allevamento, alla spiumatura (spelumine le relative addette) e, soprattutto, nella preparazione delle carni che, debitamente conservate, con il loro grasso, in cantina, dentro le olle, cioè capienti vasi di terracotta, tornavano di pronto uso in primavera quando c’era poco tempo per dannarsi ai fornelli, presi tra la coltura dei campi, la bachicoltura domestica e molto altro: si tratta della cosiddetta – tra Veneto e Friuli – “oca in onto”. Se a questo aggiungiamo la forte presenza di una vivace comunità ebraica, ne consegue tutta l’elaborazione gastronomica che, ancora oggi, rende Mortara capitale eletta dell’oca.

…anche a tavola

Tutti conoscono il fegato grasso (ideale in terrina) servito in vari modi, dalla fetta di pane come abbinato a un goccio di aceto tradizionale balsamico, o altre tentazioni, di indicibili peccati di gola. Tuttavia, nella tradizione, c’è molto altro. Ecco allora il “bottaggio” (o cassoeula), ovvero l’oca con le verze, come i gustosi “graton” ovvero i ciccioli, qui nella variante morbida (cioè dalla pelle non sgrassata, come in Friuli) o altre infinite varianti in cui i salumi la fanno da padrone.

Sin dall’inizio del Novecento i salumieri locali si diedero da fare per valorizzare la tradizione. Negli annali si ricorda tale Piero Pagani, il primo a dotarsi di celle frigorifere per la conservazione delle carni come Carlo Orlandini che, nel 1913, ottenne una menzione d’onore con il suo salame d’oca all’esposizione internazionale di Parigi. Era un salame misto, d’oca e di maiale (ora a denominazione IGP), posto che l’originale, quello “ecumenico”, di origine ebraica, è stato poi riproposto da un cuoco illuminato quale Gioacchino Palestro, della Corte dell’oca, di cui poi ne parlarono a iosa Luigi Veronelli e Cesare Pillon.

Il motivo dell’inserimento dell’oca al posto del maiale, nella alimentazione “kosher”, è stato spiegato da alcuni con il fatto che, nell’esilio egiziano, ebrei erano gli addetti all’allevamento delle oche, cibo raffinato, destinato poi alle mense dei faraoni e della loro corte. Fatto sta che, per quanto riguarda la lavorazione degli insaccati d’oca, l’Italia vanta una tradizione unica, sconosciuta anche alle altre comunità a livello europeo e, nella stessa Israele dove, nella concia, viene inserita la carne di vitello.

Sul fronte nordestino l’oca vanta altrettanta e diffusa tradizione a partire, come detto, dai Romani quando Aquileia era una delle principali città dell’Impero nonché porto di primaria importanza. Lo stesso Strabone racconta come, tra le varie occupazioni cui erano dediti gli schiavi, vi era quella degli “anserarii”, cioè coloro che seguono le oche. Alcuni di loro erano talmente bravi da essere richiesti a Roma dove si recavano con il loro gregge di oche. Anche qui gli insediamenti ebraici hanno lasciato il segno, a partire dai prosciuttini confezionati dalla famiglia Gentilli in quel di San Daniele, sin dal 1400. Mentre i “falsi prosciutti”, o sovrane d’oca, come ben descritto da Giuseppe Maffioli, sono due petti legati assieme e messi così a stagionare. In Friuli il salame viene consumato a crudo, mentre invece quello di Mortara viene prima cotto e poi affettato a freddo. Erede della tradizione mitteleuropea, la luganega d’oca, un insaccato di oltre trenta centimetri frutto degli scarti di altre lavorazioni (sottoali e collo in primis). Qui la storia si è fermata nel piccolo paese di Marsano al Tagliamento (tremila abitanti) detto anche Marsano delle oche. Molti piatti di tradizione si possono ancora trovare in qualche piccola osteria, dai “frissis” (detti “gribole”, nel resto del Friuli) ovvero i ciccioli qui più croccanti, perché sgrassati rispetto a quelli di Mortara, così come l’oca alla marsanese (riso e verze con brodo d’oca) oppure l’oramai introvabile oca al bacò (un antico vitigno autoctono ora sostituito dal refosco): in sostanza un’oca al forno cui si aggiungeva, alla fine, il vino nel fondo di cottura.

Jolanda de Colò, a Palmanova, è una piccola salumeria artigiana che, tra i vari prodotti, ha posto molta cura nel recupero delle antiche ricette, con qualche invenzione, tipo l’ocadella, ovvero una mortadella con carne d’oca. Qui è custodita la ricetta originale del salame del ghetto, quella di Luciano Curiel, l’ultimo “becher” (macellaio) ad abbassare la serranda, anni fa. E proprio Venezia è depositaria di una antologia di antichi saperi e sapori che si possono riassumere in svariati piatti. Dall’oca “sagatata”, cioè macellata secondo rituale kosher, alle tagliatelle “bescialach” (con uvetta, pinoli e salciccia) per non parlare della monumentale “frinzisal”, una sorta di torta di lasagne, tagliatelle, salame e prosciutto d’oca, oltre uva passa, pinoli, cannella e zenzero. Un ghetto veneziano ben descritto, nell’ottocento, dall’americano William Deal Howens: ”gruppi di allegri giovani ebrei erano sulle soglie intenti a spennare oche. All’interno tutto ciò che di un’oca può essere mortale pendeva da travi e pareti”, come poi riportato da Caterina Vianello.

Ma l’oca è ben presente in tutta la gastronomia veneta. A Padova, dal collo ripieno (di cui andava pazzo Galileo Galilei) a presenza costante nei bolliti. Nel veronese le “ochete”, quarti d’oca salati e posti sotto grasso nelle “ole”, gli orci, oppure, in estate, l’oca con le ciliegie. L’oca farcita con i marroni (castagne) di Gigetto Bortolini a Miane, nel trevigiano, così come risi, oca ed erba maresina (un’antica varietà che si trovava lungo i fossi) nel vicentino, o, ancora, l’oca di valle, nel rodigino, in teglia con un pesto di verdure e aromi, “ingentilita”, poi, con un goccio di grappa, e molto altro ancora in un’antologia ben documentata da Germano Pontoni.

E così si potrebbe continuare all’infinito tra storia, tradizione, innovazione. Perché l’oca è quanto mai attuale e non più solo nella stagione invernale ma, oramai, grazie alle moderne tecniche di allevamento, la si può trovare lungo tutto l’anno anche ai dessert, ad esempio con la focaccia veneziana, laddove all’ impasto si aggiungono i ciccioli d’oca. Nell’estate di San Martino l’oca è regina a Mirano, dove il gioco dell’oca prende tutta la città, ma anche in altri centri minori, legata a tradizioni, usi e costumi che la dicono lunga su quanto questo animale, giustamente valorizzato da Konrad Lorenz, abbia accompagnato la storia dell’uomo.

* In copertina, il famigerato tabellone de Il gioco dell’Oca

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