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Re Basilico, in cucina e non solo

di Giancarlo Saran

Una dietrologia

È uno dei simboli indiscussi del Made in Italy, lui, “Re” Basilico, che forse, non a caso, quei tosti dei francesi chiamano “herbe royale”, in quanto la sua origine ha radici lontane, risalenti sino agli antichi egizi anche perché tracce, documentate, del suo uso in cucina, risalgono alla metà dell’Ottocento.

Misticismi

Da sempre intrigante per le sue proprietà, grazie forse ai profumi che emana, ricchi di olii essenziali che, oltre a tenere lontane le zanzare anche nel terzo millennio, venivano ritenute viatico per l’aldilà all’epoca dei faraoni, fondamentali nel rito dell’imbalsamazione dei defunti. Tuttavia identica virtù veniva attribuita in India, considerato il basilico pianta sacra dedicata a Lakshmi, dea della bellezza. Sue foglie poste sul petto del defunto avrebbero favorito l’apertura per la porta del cielo così come, nei preparativi del rito funebre, veniva lavata la testa del caro estinto con acqua e semi di lino e basilico. Plinio il Vecchio non manca di ricordarne le virtù afrodisiache (riferito ai semi) e, per naturale contrappasso materiale, si narra che le foglie fossero tenute in gran conto dai villani del tempo per usarle quale alimento e potente afrodisiaco per asini e cavalli nel periodo della monta. Per quanto riguarda la tradizione giudaico cristiana gli storici hanno registrato due testimonianze in merito alla diffusione di questa pianta, peraltro facilissima da coltivare, anche nei tempi (e negli angusti spazi condominiali) dell’oggi urbanizzato. Leggenda sostiene che la piantina nacque in un vaso dove Salomone aveva sotterrato le testa di San Giovanni Battista, come altra tradizione ascrive all’imperatrice Elena, madre di Costantino primo imperatore cristiano, di averne valorizzato la diffusione in quanto cresciuta alla base della croce dopo il martirio di Cristo.  Comunque sia, le leggende che accompagnano il basilico (grazie anche alle sue sessanta varietali sparse tra Oriente e Occidente) sono le più svariate, sino all’approccio che lo ha reso caposaldo della cultura materiale, in cucina.

Nel Medioevo varie novelle lo vedono protagonista. Da una sfortunata Lisabetta da Messina, come narrato dal Boccaccio nel suo Decameron, che tanto pianse del suo amato, uccisole per gelosia dai fratelli, che sopra la sua testa conservata dentro un vaso, le di lei lacrime diedero alimento a una conseguente fioritura di basilico anche se, in altra novella toscana, il “Basilicone”, una piccola sartina del borgo, con il semplice atto di innaffiare al balcone la profumata pianticella, un mattino sì e l’altro ancora, riuscì a far innamorare quel principe che poi la sposò. Sempre attuale anche tra i crociati, che delle sue piante ne riempivano le navi, assieme ad altre spezie, perché elettivo nel cacciare insetti e cattivi odori, mentre invece nei monasteri era considerato tra le piante ideali per cacciare il diavolo dagli invasati. Nel Rinascimento delle Repubbliche Marinare, mentre i veneziani si dilettavano a tavola nei sontuosi banchetti raccontati da Paolo Veronese con le spezie provenienti da Oriente, i genovesi fecero tesoro di questa più umile risorsa aromatica, stante il favorevole rapporto tra ambiente (entroterra con vista a mare) ed esigenze alimentari anche di fasce più estese della popolazione. Fu su questi presupposti che nacque una delle preparazioni che ha reso il basilico re della tavola, con il suo pesto quale seconda salsa più venduta al mondo (dopo quella al pomodoro). Anche qui si innescano altre leggende, tra cui quella che vide il suo nascerne per caso grazie ad un frate del Convento di San Basilio, posto sulle alture di Prà (nel genovese), sede eletta dell’attuale DOP del basilico genovese. Raccolte alcune foglie dell’orto conventuale, il fraticello le amalgamò ad altro, tra quelle poche offerte, che gli portarono in dono i suoi fedeli.

La nascita del pesto

Da qui prese piede poi il pesto, di cui traccia letteraria si trova grazie all’opera di Giovanni Battista Ratto, “La cuciniera genovese” uscita per i tipi dei fratelli Pagano Editori, nel 1865. In realtà vi fu qualche ingenuità da parte del Ratto stesso che inserì, nella prima ricetta, come componente di base, il formaggio olandese, forse perché Genova terra consolidata di marinai e di commerci diffusi, anche se poi, ritornato a più documentati consigli, certificò come, in effetti, nella composizione casearia i protagonisti fossero invero i più indigeni Parmigiano e pecorino. In merito all’applicazione del basilico in cucina il pesto resta quindi uno dei testimonial più apprezzati del made in Italy. Componente di base della ricetta certificata DOP dal 2008 è l’aglio, per considerazioni che andremo ad esaminare a breve. Innanzitutto va detto che questa preparazione ha dei progenitori, radicati sin dal Medioevo, dove le necessità erano diverse. Ecco, ad esempio l’”Agliata”, dove le componenti differivano di poco (mancava in sostanza il formaggio), ma il cui fine era quello di coprire gli aromi e sapori di carni troppo frollate (o già con inizio di putrefazione) che vedeva ingrediente leader nell’aglio per le sue proprietà antibatteriche e antimicotiche. Come questa altre preparazioni in cui il basilico veniva abbinato ad aglio e sardine sotto sale (il “Macheto”) o assieme alle fave secche (il “Marò”).

In salsa contemporanea

È stato però il pesto quello che ha aperto al basilico la strada dei mercati internazionali. Un boom esploso tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.  Cominciarono gli inglesi, grazie a Claudia Rosen, innamoratasi dell’essere, questa coltivazione ligure, presente in ogni dove: dal campo (con vista mare), alla serra, per non parlare dei diffusi balconi domestici. Inglesi che avevano già radicato il culto del basilico, tra coloro che vivevano nell’India coloniale, in quanto le collane dei loro rametti venivano indossate quale parafulmine nei frequenti rovesci quotidiani di Giove pluvio. Ma un forte contributo di legittimazione letteraria lo dette Aldo Fabrizi (l’indimenticato fratello della Sora Lella, storica trattrice romana, oltre che tra gli interpreti più veri dell’Italia raccontata al cinema): “A parte che il basilico d’incanta/perché profuma mejo de le rose/cià certe doti medicamentose/che in tanti mali so’ ‘na mano santa… Pe’ via de ‘sti miracoli che ho detto/io ciò ‘na farmacia sur terrazzoni, aperta giorno e notte in un vasetto”. Con queste premesse era inevitabile che il basilico varcasse l’immaginario collettivo in salsa yankee, tanto è vero che approdò a Las Vegas, nel 1990, in occasione del settantacinquesimo compleanno di “The Voice”, ovvero Frank Sinatra. Da allora, per alcuni anni, vennero distribuiti barattolini con la sua effige ben impressa nell’etichetta anche se va detto che, a cotanto investimento di immagine, non seguì riscontro sugli scaffali della grande distribuzione. Anche perché, come capita spesso, al concetto di “Pesto genovese”, basta far seguire un galeotto “pesto alla genovese” che cambia tutto, ingredienti i più fantasiosi compresi.

Il Consorzio del pesto DOP genovese comprende circa quattrocentocinquanta ettari, in tutta la regione, con una produzione che si alterna tra campo (soprattutto Liguria orientale) e serra (Genova e riviera occidentale), laddove il prodotto finale viene considerato più equilibrato, in quanto al riparo dagli eccessi di soleggiate temperature.  Il giro d’affari complessivo si aggira su circa otto milioni di euro.  La preparazione prevede sette ingredienti: basilico, olio extravergine d’oliva, Parmigiano Reggiano, pecorino, pinoli, aglio, sale. Poi, ovviamente, esistono infinite varianti di cui ogni anfratto costiero ligure è depositario della sua unicità, come ad esempio a Nervi, dove si aggiunge la ricotta. L’ideale sarebbe l’uso del mortaio ad amalgamare i diversi ingredienti, tuttavia altre possono essere, comunque, le garanzie a latere della valorizzazione del prodotto, la certificazione DOP su tutte. In cucina il basilico è di una versatilità che ne giustifica la meritata fama. Ad esempio come partner di paste (trofie, crespelle, fusilli) come di quella splendida identità a cavallo con la Toscana che sono i testaroli (crespelle a base di acqua, farina e olio), la cui patria è Pontremoli, non a caso sede dei vari librai ambulanti che hanno reso viva molta letteratura “vissuta in diretta”, con il loro “Premio Bancarella”. Perché il basilico, quindi, non è solo patrimonio della tradizione ligure, con il suo pesto dalle diverse sinergie, ma vive in tutta Italia e in particolare al Sud, altra sua patria eletta. Non solo come pesto, la cui versione siciliana, ad esempio, comprende l’utilizzo anche di mandorle, oltre ai pinoli, ma soprattutto l’utilizzo della sua foglia in diverse varianti, posto che il basilico napoletano, ad esempio, ha una diversa componente aromatica dove si percepiscono pure sentori di menta. Come non ricordare la Caprese, composizione intrigante e tricolore, simbolo di universale identità nazionale.  Oppure la classica pizza, laddove le foglioline vengono aggiunte all’ultimo, e non solo come componente puramente decorativa. Basilico napoletano dalle altre intriganti proprietà che vanno ad integrare, a tavola, le virtù liguri. Ideale, quindi, nell’abbinamento con piatti di pesce o, addirittura, con incursioni che portano a valorizzare il basilico anche in altri distretti, quali ad esempio i dessert, gelato in primis, o gli infusi. Tuttavia, ritornando ai grandi classici, come non tornare ad una memoria collettiva che, dalle origine campane, è risalita anche alla tradizione della civiltà contadina del Nord, perlomeno sino alla seconda parte del secolo scorso. Stiamo parlando della passata di pomodoro, quella fatta in casa o nelle drogherie di paese, detta anche “conserva”, tra le nebbiose pianure padane, dove una bella foglia di basilico, grande e odorosa, non così forte come la genovese, si infila per ultima nel vasetto che poi, adeguatamente tappato e sottovuoto, viene adagiato delicatamente a sobbollire, prezioso scrigno a futura memoria, protagonista di altri piatti, di altre giocose esperienze di tavola e dintorni.    

 

   

        

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