Passione Gourmet Pagina 179 – Passione Gourmet

Assyrtiko

Assyrtiko: la principale bacca ellenica

C’è un filo indissolubile che unisce la storia enologica moderna della Grecia e l’Assyrtiko, la sua uva più rappresentativa.

L’Assyrtiko ha svolto un ruolo di apripista, la prova evidente che in Grecia non esiste solo un passato ma anche un presente concreto così come un futuro florido. L’Assyrtiko è un’uva costosa ma ben poco capricciosa e, ben adattabile a climi diversi, è robusta e tenace. Il suo pregio più grande è anche il suo più grande difetto: l’Assyrtiko ha la capacità di trasmettere istantaneamente le peculiarità minerali del luogo di coltivazione.

Uno specchio meraviglioso che conserva le immagini dei luoghi in cui cresce ma che spietatamente punisce la mediocrità. Non c’è trucco e non c’è inganno, l’Assyrtiko non darà mai quello che la natura non gli ha dato. Senza un terroir d’eccellenza alle spalle quest’uva non restituirà grandi vini a prescindere dalla tecnica, dagli affinamenti e dalle conduzioni in vigna.

Santorini: mineralità greca

Mineralità si è detto. Be’, è innegabile che la Grecia sia terra di grande ricchezza geologica ma lo è in maniera molto disomogenea. C’è un filo conduttore legato alla sabbia, una ricorrente presenza di calcare a profondità più o meno consistenti, sporadici ma ricercatissimi filoni di granito. Quello che è pressoché unico invece è il presentare diversi territori vulcanici straordinariamente diversi fra loro, per età e composizione minerale, luoghi unici, mistici e dotati di una voce narrante irripetibile.

Uno di questi è Santorini e Santorini è l’Assyrtiko

Santorini è un cratere parzialmente crollato a seguito di un’eruzione, un luogo di vento, di mare e di luce, dove quest’uva pare esser nata ma dove è certo abbia trovato la sua dimora eletta e prediletta. La luce talvolta acceca; va gestita, immagazzinata e restituita limpida e tersa. Un gioco di stile molto naturale che riesce grazie ad rapporto simbiotico tra territorio, pianta e clima. Un rapporto costruito nei secoli con piante spesso ultra centenarie ed a piede franco che fanno dei vini istantanee di scogli e onde, brezze salate e orizzonti distesi. Qui, l’allevamento a cesto ha un doppia valenza, pratica ed estetico-rappresentativo: proteggere la pianta dal vento e il frutto dal sole.

L’Assyrtiko è un vino che durante la degustazione si eleva lentamente, in rapporto simbiotico e virtuoso con l’ossigeno e lo fa tornando ciclicamente al punto di partenza, a quelle stesse note gustative ma in modo sempre più definito e nitido. È un vino che cambia e non si stravolge, che racconta e incalza la beva. C’è acidità, una trama sapida e una potenza alcolica mansueta. Un’uva coltivata in quasi tutta la Grecia, sulla scia di una moda che ne ha alzato il valore economico e la richiesta di mercato, Assyrtiko assume caratteri antitetici rispetto a Santorini dove i terreni si ingrassano, cala la mineralità e si arrotonda il frutto; quello che resta, quasi aggrappato con le unghie, è l’alto tenore acido che comunque va a stemperare le morbidezze di un corpo importante, di un calore mediterraneo che, soprattutto sulla terra ferma e sulle isole orientali dell’Egeo, porterebbe a vini sciropposi e ben diversi da quello che quest’uva può regalare.

Ktima Karamolegos – 34 – Santorini Assyrtiko

Un luogo relativamente piccolo – pochi, pochissimi, i tentativi di zonazione – con terreni piuttosto uniformi, altimetrie relativamente poco variabili ma microclimi ed esposizioni al vento leggermente discostanti. Nonostante questo, a Santorini bisogna non avere aspettative perché è come aprire un libro di magie. E ad una pagina casuale si può, ad esempio, scoprire verso quale viaggio ci si sta approcciando. Le discriminanti sono principalmente legate all’uomo, alle sue idee e le sue interpretazioni. In questo caso parliamo di uno dei personaggi che più stanno segnando il presente enologico dell’isola, Ktima Karamolego che con le sue sperimentazioni riesce fattivamente ad esprimere l’isola per quello che è: un incredibile caleidoscopio di sensazioni. Mare, vulcano, macchia mediterranea, mineralità a profusione, acidità spinte ma raramente fuori controllo. Luce, sole e vento. Nel bicchiere 34 è piuttosto complesso ed articolato, un vino di potenza marina ed espressività territoriale; un carattere libero dalla capacità di elevare lo status della Grecia enoica e proporsi come un prodotto di primissimo livello.

92/100

La Versilia autentica e vera nel piatto

La storia del bistrot è, come spesso accade in Italia, la storia di una grande famiglia italiana. Piero Vaiani, il capostipite, che è mancato lo scorso novembre, ha lasciato in eredità alla sua famiglia e in particolare ai suoi due figli un vero e proprio impero gastronomico dell’eccellenza, composto da ben 4 locali e una azienda agricola che produce gli elementi fondamentali, oltre al mare, altro grande alleato, per elaborare ciò che viene portato in tavola.

Un impero che spazia dal locale popolare di pesce, da oltre 1000 coperti al giorno in alta stagione, al bistrot raffinato, al sushi-corner in spiaggia per terminare con la punta di diamante, lo stellato Bistrot appunto. Ed in questo gruppo così variegato e strutturato, che sicuramente aiuterà in questi periodi difficili, il Bistrot, oggi guidato da una coppia d’oro è una vera oasi di piacere gastronomico. I due Andrea, Salvadori in sala e Mattei in cucina, sono due autentici fuoriclasse che si completano a vicenda.

Una sala giovane, dinamica, attenta e molto presente dialoga con una cucina classico-innovativa che ha una cifra stilistica davvero interessante. Uso calibrato delle sapidità, mai di troppo e sempre in sottrazione, accompagnata da discrete acidità donano ai piatti una eleganza e una raffinatezza uniche.

L’emblema sicuramente di questa stilistica è sicuramente il risotto, che invita a ordinarne un altro per quanto è goloso, bilanciato, intrigante. Ma ciò che sorprende è l’intensità della razza nei ravioli con ricci di mare, usati come spezia a condurre il gusto. E potremmo continuare così, su tutti gli altri piatti del menù. Anche i dolci, di buona tecnica e fattura, ci hanno pienamente soddisfatto.

Ottimi anche i secondi di carne, come il maialino, e ottime tutte le verdure in accompagnamento, che arrivano integralmente dalla tenuta agricola di proprietà del gruppo situata nella campagna lucchese.

Una valutazione lievemente arrotondata per difetto, quella di oggi, che invita a una visita in questo splendido luogo della Versilia più vera e più autentica.

La galleria fotografica:

Un angolo gourmand a pochi passi da San Marco

Nel dedalo di Calli a ridosso di Piazza San Marco, la storica insegna dello Chat qui rit non passa inosservata, sembra sospesa in aria e nel tempo. Abbassando la sguardo, le ampie vetrate del ristorante rivelano invece un locale moderno ma informale con alcuni bellissimi dettagli del passato abilmente armonizzati. Un po’ come la sintesi della cucina in questo angolo di Venezia, che propone piatti moderni anche interessanti che si lasciano ispirare dalla tradizione lagunare, facendo leva su prodotti eccezionali che in alcuni casi non hanno bisogno di troppe contaminazioni.

Originale interpretazione della cucina Lagunare

La cucina dello Chat qui rit è oggi affidata al duo Davide Scarpa e Leonardo Bozzato; nei loro piatti colpisce la tecnica e la rotondità dei sapori, cercata anche con gli abbinamenti più spigolosi. I gamberi scottati, ad esempio, di pregevole qualità sono nascosti nella spuma di patate al tartufo, con i funghi pioppini all’aceto che sgrassano il boccone e ben si abbinano al pistacchio alla base del piatto. Meno celebrale il baccalà mantecato, abbinato alla salsa di nduja, leggermente piccante, e agli asparagi.

Tanta tradizione sapientemente rimodulata si riscontra nei mezzi paccheri con salsa di seppie in “tencia”; sulla base c’è una fresca crema di piselli in contrasto con la salsa al nero, che condisce la pasta. Croccantezza e spinta iodata arrivano dagli zotoi, piccoli calamaretti fritti, e dalle erbe spontanee che crescono in riva al mare. Con poco mordente nelle linguine agli anemoni di mare e scampi crudi, dove nonostante la nobile materia prima, al palato il gusto è fin troppo delicato.

Molto originale il dessert sapori e profumi di una passeggiata nelle Langhe, ovvero un biscotto alle nocciole con gel ai porcini e un fresco gelato al rosmarino.

Il servizio è puntuale e professionale, sebbene a volte fatichi a trovare l’empatia col cliente. Importante (anche nei ricarichi) la carta dei vini, che risulta originale e ragionata, senza disdegnare grandi, blasonate etichette italiane e non.

La Galleria Fotografica:

L’Alto Adige è, senza dubbio, una delle regioni più sorprendenti in Italia. Non solo per quanto riguarda il vino, ma per tutto quello che offre in ogni stagione dell’anno, dal trekking ai mercatini di Natale, dagli sport invernali alle terme.

Il territorio si suddivide in sette zone principali: Bassa Atesina, Oltradige, Bolzano, Valle dell’Adige, Merano, Valle Isarco e Val Venosta. Queste, a loro volta, sviluppano microclimi differenti a seconda dell’altitudine dei vigneti, che spazia da 200 a 1000 m. s.l.m.. Il tipo suolo è un altro fattore chiave nello stile finale dei vini. È possibile trovare porfido vulcanico, roccia metamorfica di quarzo, mica e calcare dolomitico.

Una delle caratteristiche più importanti che contraddistingue i vini altoatesini è la spiccata freschezza, che si tratti di bianchi o rossi. Ma c’è un’ulteriore categoria emergente proprio per questa caratteristica: gli spumanti ottenuti da Metodo Classico. Sono ancora poche le cantine che si dedicano alla produzione di questa tipologia e lo fanno con grande qualità.

Ne è un ottimo esempio la Tenuta Pfitscher.

La cantina si trova a Montagna, nella Bassa Atesina, circondata dai vigneti, dalla quale si può godere di una vista pazzesca sul paesaggio dell’Alto Adige, come si può notare nella foto superiore. È stata la prima cantina in Italia ad ottenere la certificazione CasaClima Wine, entrando ancor più in armonia con la natura. 20 ettari di vigneti per produrre grandi vini, come dimostra il Brut Riserva 2014.

Si tratta di un Blanc de Noir, ottenuto da uve Pinot Nero che crescono a Gleno (600 m), uno dei territori più vocati, insieme a Mazzon, per questa varietà. La 2014 è stata la prima annata prodotta, in sole 1500 bottiglie tutte numerate (quella assaggiata era la 583), e che rappresenta un progetto nato proprio per il forte legame che c’è tra la Tenuta Pfitscher e il Pinot Nero. In cantina si inizia con una pressatura soffice, dopodiché fermentazione a temperatura controllata. L’affinamento avviene in barrique. Tiraggio e permanenza sui lieviti per 42 mesi. Sboccatura (febbraio 2019), dopodiché si attendono almeno 6 mesi prima di metter il vino sul mercato.

Brut Riserva 2014

La prima cosa che colpisce di questo vino è il colore, un luminosissimo giallo dorato con riflessi ramati. Il naso è ricco e complesso, aromi che vanno dalla pasticceria alla pesca gialla, dalla polvere da sparo allo zucchero filato, con piacevoli note di fiori alpini, pepe bianco e mandorla. Non appena se ne sorseggia un po’, si entra in un loop che richiama un sorso dopo l’altro, sempre rinfrescati da un’ottima acidità. È un vino con grande finezza, in grado di trasmettere perfettamente la territorialità in tutta la sua lunga persistenza, con finale sapido e agrumato. Molto buono in questo momento, ancor di più lo sarà tra 4 o 5 anni, quando avrà sviluppato piacevoli note speziate e di frutta candita. Con 45€ circa si potrà godere di un’esperienza unica che trasmette la vibrante intensità del Pinot Nero altoatesino. Con un po’ di fortuna, lo si può ancora trovare disponibile presso la cantina oppure attraverso il distributore ufficiale: Meregalli. Il Brut Riserva 2014 è in grado di esser perfettamente abbinato a piatti importanti, per una splendida serata di piacere.

La rinascita evolutiva di Dina a Gussago

In questa fase post-riaperture, le nostre esperienze al tavolo stanno trovando un movimento gastronomico in stato di grazia. Non possiamo negare di esserci  sorpresi a pensare, nei giorni più bui della pandemia, a una ripartenza gastronomicamente felice ma la tendenza , quantitativamente non omogenea ma certamente trasversale, supera ampiamente fantasticherie che, in un impeto di superbia, potremmo persino azzardarci a definire previsioni. Di fronte a un periodo di forzata sospensione dai ritmi frenetici e dalle strette routine della vita ristorativa, per molti chef incertezza, rielaborazione ed esplosione creativa hanno finito per diventare tutt’uno: una sorta di otium culinario. Così, laddove le insegne, per bravura, lungimiranza e – perché no? – per fattori contingenti son tornate a riaccendersi in coda all’ultimo giro di chiusure, stiamo ritrovando cuochi emotivamente provati ma  allo stesso tempo carichi di rinnovato furore gastronomico. E non ci sorprende di trovare, nel novero dei most improved, Alberto Gipponi di Dina, a Gussago.

Più domande che risposte gustative

Chef di intelligenza, inventiva e retroterra culturale decisamente sopra la media, e non solo quella di categoria, Gipponi ha saputo trarre il massimo beneficio dal primo vero momento di ripensamento dall’apertura di Dina – a fine 2017, quando era poco più che un appassionato pieno di talento e di sacro fuoco – per aggiungere, limare, reinventare il proprio linguaggio gastronomico alla luce di una nuova professionalità conquistata  in un lustro, corso a perdifiato. La sua cucina, oggi, ha una dimensione autoriale che si esplicita in un mondo fatto di domande, più che di risposte: di stimoli, più che di verità.

Non lascia scampo al commensale, Gipponi: lo spinge in tutte le fasce dello spettro gustativo, portandolo lontano dalle zone di sicurezza ma facendosi egli stesso carico della sicurezza dei passeggeri, come in una sospensione guidata della gravità usuale. Imboccando il menu degustazione più ampio, i segni del talento assoluto si mostrano già dall’amuse-bouche aria-acqua-terra-fuoco, il quale non è mero esercizio di riscaldamento né semplice preparazione del commensale all’esperienza gastronomica. Esso è invece, a nostro parere, la rappresentazione di uno spazio palatale in divenire in cui i vari elementi già interagiscono attraverso tensioni, in particolare fra toni salmastri, terragni e umami, che verranno via via sviluppate, ma mai completamente sciolte, durante lo scorrere di un menu che sembra seguire la linea dell’aprés-coup in senso globale – quasi a mimare l’accidentato percorso professionale dello chef – come, talvolta, sul piano locale: ne è un esempio l’animella ai fiori d’arancio, il cui senso si rivela solo con un abbinamento enologico, la Ribolla 2009 di Gravner, che però apre ulteriormente il piatto in luogo di fornirne la clausola.

Una cucina autoriale e autobiografica

La cucina di Dina è certamente autobiografica ma, con abilità, scansa le trappole più facili del ricordo per  approdare al mondo più indefinito della reminiscenza: non c’è alcuna retorica della “cucina della nonna” nei casoncelli, crudi in apertura di pasto e conditi prima dell’approdo ai dessert, quanto l’esigenza di raccontarsi attraverso la condivisione – per sua stessa natura fallimentare nel proposito ma ineluttabile nello tentativo – di una personalissima  madeleine, fondamentale però per la comprensione dei passaggi più arditi. 

Straordinario si rivela il lavoro sulle paste, con la croccantezza estrema delle eliche, a lasciar quasi l’idea di mordere direttamente il grano, seguita dalla tenace callosità dei vari formati nella pasta e fagioli, con un fusillo sugli scudi (ahinoi! non presente in ogni piatto). Non convince fino in fondo la spaziatura finale fra l’esplosione pepata dell’eccellente spaghettino con sambuco, miele, aceto di miele e pepe Tellicherry e indivia riccia, quasi un effetto di rimbalzo termico guidato dal gelo e dalla piccantezza, e le mezzetinte dolci della quaglia, chiusura dal tono quasi confidenziale.

Ed è, del resto, una linea narrativa e non didascalica, quella di Gipponi, cuoco che attraverso i suoi piatti ci racconta di sé più che della cucina d’oggi. E e noi va benissimo così.

La Galleria Fotografica: