Passione Gourmet La Stüa de Michil - Passione Gourmet

La Stüa de Michil

Ristorante
strada Col Alt 105, 39033, Corvara in Badia (BZ)
Chef Nicola Laera
Recensito da Gianluca Montinaro

Valutazione

16/20 Cucina prevalentemente classica

Pregi

  • L’appagante solidità della cucina.
  • La mastodontica cantina.
  • La cura del servizio.
  • La romantica bellezza dell’ambiente.

Difetti

  • La mancanza di finestre (quelle presenti sono ‘finte’).
Visitato il 07-2021

L’illuminato filosofo dei Monti Pallidi

«Perché non aveva radici, seccò».

Matteo, 13, 6.


Così recita il Vangelo nella nota parabola del seminatore. Caduto in un luogo sassoso il chicco, benché germogliato, venne subito bruciato dai raggi ardenti del sole: non aveva potuto sviluppare un apparato che gli apportasse nutrimento. La frase, nelle molteplicità di quelle che Erich Auerbach ha definito come ‘letture figurali’, si presta però a numerose interpretazioni. Religiose e non solo, assumendo laicamente valore a sé se estrapolata nella sua atemporalità di immagine. Ora – visto che in fondo tutto il nostro esistere è ‘prigioniero’ delle parole – vale l’investimento fermarsi un attimo a riflettere: non sul soggetto (il seme) ma sul fatto che quest’ultimo possa essere sostituito da una pluralità di altri soggetti. O situazioni. Insomma, quest’immagine ha una sempiterna validità, monito per chi o cosa non può o non vuole avere una ‘radice’ che porta linfa, che fa germogliare, e quindi crescere e di nuovo creare.

Probabilmente più di qualche riflessione, su questo e su molto altro, l’ha spesa, nel corso dei decenni, una figura singolare, da alcuni ritenuta sin eccentrica: Michil Costa. Fra le sue Dolomiti, nel paese di Corvara, Michil gestisce, insieme a genitori e fratelli, l’albergo di famiglia: il raffinato hotel La Perla. Una tappa irrinunciabile per coloro che amano il bello e il buono. Un luogo in cui – come ama ricordare Michil – non esistono clienti ma ospiti e ove il vero lusso non è in quello che c’è ma in quello che volutamente manca (come, giusto per dirne una, l’assenza del frigobar nelle camere). Scelte mirate e decisioni intenzionali, portate avanti con tenacia perché tese a preservare il più possibile il meraviglioso ambiente dolomitico. Una salvaguardia che, nel pensiero di Michil, deve necessariamente passare attraverso una progressiva consapevolezza ed educazione degli ospiti affinché nulla appaia come imposizione o privazione.

I Monti Pallidi (così sono chiamate le Dolomiti da Karl Felix Wolff nelle sue opere di indagine sulle saghe e sui miti ladini), con le loro vette e le loro crode, benché ancora sostanzialmente intatti, hanno un equilibrio assai fragile. Vanno protette, dice Michil, dal turismo massivo, privilegiando coloro che sono in grado di goderle lentamente. Vanno salvaguardate dal traffico veicolare: da qui la sua proposta di chiudere alle auto e alle moto i passi, almeno per qualche ora al giorno. E vanno destagionalizzate perché in ogni momento dell’anno propongono squarci di bellezza. «Agosto, Dolomite mia non ti conosco» sostiene appunto Michil, invitando a salire in vetta negli altri mesi dell’anno così da evitare assembramenti che l’ecosistema dolomitico fa sempre più fatica ad assorbire.

Come – quindi – il lettore ha intuito c’è un cuore che scandisce, con il suo movimento di sistole e diastole, la vita de La Perla: le montagne. Attorno a esse ruota l’esistenza di Michil e del suo piccolo regno. Da esse, come radici esistenziali, sia l’uno che l’altro traggono nutrimento e stimolo. E germoglio per una continua, rinnovata, vitalità. Ma le radici sono importanti anche a tavola. Perché pure il cibo e l’atto del cibarsi attraverso il tramandamento di usi e costumi sono il precipitato storico di radici che affondano nel tempo. Ma pure di radici ‘ideali’ che ci legano – idealmente, appunto – a quei sistemi valoriali che riteniamo a noi più affini. Così, anche in questo ambito, Michil ha voluto esprimere il proprio pensiero creando una tavola che lo rappresentasse. La sua stüa, quasi nascosta all’interno dell’albergo di famiglia, è un concentrato di quelle radici che lo legano al mondo alpino e alla cultura ladina. Ma è anche un luogo – ed è qui il colpo di genio – ove, grazie a valori come il buon gusto, l’educazione, l’eleganza, la civiltà, ogni ospite può ritrovare parte delle proprie umane radici. Ed è forse proprio in questo che risiede il fascino indiscusso del ristorante La Stüa de Michil, con le sue luci soffuse e i suoi legni antichi del XVI secolo.

La tavola di Michil. E la cucina di Nicola

La lettura dell’escerto evangelico ricordato in apertura, lasciato discretamente sul tavolo, a fianco al candeliere, piuttosto che di un’altra breve riflessione tratta da un filosofo o da uno storico, è il primo atto che l’ospite in genere compie sedendosi a uno dei pochi tavoli finemente vestiti. Con questo gesto, che sancisce l’inizio del viaggio, si spalanca la porta a un vasto mondo di emozioni e gusti tanto che sbaglierebbe chi pensasse a un tour gastronomico ristretto fra il Piz Boè e il Conturines. Tutt’altro. Perché se le radici sono ben piantate nell’humus ladino, la cucina della Stüa de Michil spazia dalla montagna al mare, e dai laghi alle pianure.

Ciò è merito di colui che, dal 2017, guida la brigata del La Stüa de Michil: Nicola Laera. Trentottenne, sguardo franco di chi più che con le parole ama parlare con i fatti, Nicola è nato e cresciuto fra le vette dei Monti Pallidi. Le conosce a menadito per averle percorse in lungo e in largo: facendo fuoripista in inverno, con le pelli di foca. Ed esplorandole in estate, scarponcini da trekking ai piedi e zaino in spalla ove riporre erbe aromatiche e frutti selvatici. Eppure questo giovane (che si è formato nella cucina di Norbert Niederkofler ove ha lavorato per quasi venti stagioni diventando sous-chef del St. Hubertus) ha una seconda radice che lo porta lontano e lo lega ai profumi e ai sapori della Puglia, regione d’origine del papà (per molti anni cuoco dell’hotel Ciasa Salares nonché “levatore” dei primi passi di una neonata La Siriola).

Equilibrio e contrappunti

La cucina di Nicola Laera è complessa nella sua stratificazione di lettura. È un incrocio di reminiscenze e suggestioni che si muovono dalla montagna al mare e viceversa. Ha ben presenti le basi classiche dell’alta cucina (come accade nel suo soufflé con caramello salato e gelato alla vaniglia, uno dei migliori soufflé che si possano gustare, ora, in Italia) ma pure maneggia con disinvoltura – per fortuna senza eccessi – le tecniche più contemporanee, tese alla ricerca di quella vivificazione del gusto ora più in voga. Inoltre – ma non potrebbe essere altrimenti considerata la presenza di Michil – utilizza materia prime (anche preziose, come crostacei, molluschi, fegato grasso, caviale…) di eccelsa qualità, privilegiando quando possibile produttori locali.

Costruiti attorno a un ingrediente principale, i piatti di Laera vivono di contrappunti: gli elementi (mai più di quattro) sono infatti accostati fra loro con una sensibilità che pare quasi rasentare l’istintività. Ma, in realtà, non è così: la mano del cuoco è guidata da salda e meditata conoscenza. Benché sfuggano le asperità, viaggiando su alti livelli di rassicurante, classica rotondità, in ognuno di essi è lasciata con sapienza cadere una nota dissonante e vivificante.

Talvolta può essere una spezia (come lo zafferano che accompagna il minestrone a specchio della variazione di gambero rosso: crudo, le sue zampette fritte, la maionese fatta col suo carapace). Talaltra può essere una punta di acidità (come nel magistrale risotto all’aglio orsino con ostrica, cipolla e limone). Altre volte, ancora, una sensazione amara (come nel caso di quella data dallo spinacio selvatico Buon Enrico che scorta la succulenta coda di manzo brasata con lumache alla vaccinara e pinoli). Il risultato è che ogni pietanza appaga senza stucchevolezza. I gusti rotondi soddisfano senza stancare. E il palato è pronto per la portata successiva.

In carta pesce e carne convivono senza costrizioni: senza steccati ideologici posti da finti km0 o da tradizioni da rispettare in modo filologico. Tutt’altro. Le radici si incontrano, affondando i loro rizomi nel profondo, in un orizzonte di contemporaneità e germogliano piatti come l’ottimo trancio di storione con sanguinaccio, mela verde e foie gras affumicato. O le altrettanto grandiose lumache del Gran Sasso con caviale di trota fumé, burro acido e olio al prezzemolo (indubbiamente uno dei signature dishes di Laera). O i mediterranei mezzi paccheri con ricci di mare, sgombro, aglio nero, Marsala e cacioricotta pugliese.

Ma non è tutto. Una esperienza a La Stüa de Michil è, infatti, anche altro. L’ospite se ne accorgerà appena seduto. Mentre l’assito secolare scricchiola sotto il passo di un servizio fra i più sorridenti d’Italia. Mentre la luce, da basse piattine, squarcia ombre piene di mistero. Mentre alcuni specchi giustapposti dilatano, proditori, lo spazio raccogliendo i riflessi del candore del tovagliato e degli argenti. Ebbene, se ne renderà conto quando a tavola, a inizio pasto, giungerà il momento di scegliere il vino. Se si volesse essere banalmente materialisti (ma come certo si è capito non è La Stüa de Michil il luogo più adatto per esserlo) può esser sufficiente questo dato: la carta dei vini è un in-folio di novanta pagine scritte in caratteri fini fini. C’è tutto? No. Ma quasi: per ogni gusto, voglia e tasca. Nonché uno fra gli assortimenti più intelligenti d’Italia dove le etichette sono, perlopiù, di produttori noti, di chiaro valore e di riconosciuta capacità. Il suo intento? Quello di fare bere bene, stappando bottiglie di soddisfazione certa, a prezzi corretti.

L’escerto è stato letto. La bottiglia stappata. Che il viaggio alla scoperta delle radici abbia inizio…

La Galleria Fotografica:

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