Leopardi morì durante un’epidemia di colera, di una leggera colite che i napoletani chiamano ‘a caccarella. (Alberto Savinio)
Tripudi d’orgoglio
Davanti al tripudio d’orgoglio dei tanti contadini trasformati in vignaioli di grido rivestiti a festa resto sempre molto sospettoso e scettico. Bottiglie di vetro pesante manco fossero di osmio; etichette elaborate da qualche avvoltoio del marketing “cool and smart”; vini sempre più sacrificati a morte sull’altare dell’enologia correttiva che tende a sterilizzare, standardizzare, smussare per assecondare un mercato di pecoroni gustativamente, e non solo, analfabeti.
Ci sarà senza dubbio una spiegazione d’ordine storico-antropologico relativa alla cultura e alla civiltà dei popoli nello sviluppo del progresso tecnologico. Sembra come se da parte di chi dovrebbe sbandierare con forza il senso d’appartenenza territoriale dei propri prodotti agricoli emerga invece un sentimento ambiguo tra il vergognoso e l’infastidito. Certo anche i tanti secoli di fame, miserie varie e guerra alle nostre spalle non hanno aiutato a configurare la giusta misura al comparto agricolo-alimentare di stampo capitalista, offrendo impulsi meno bulimici ai consumi alimentari preconfezionati e al cibo mordi e fuggi.
Ricordo quando da bimbo alle scuole elementari, se capitava raramente che la mamma preparava dei panini in casa avvolti nella carta argentata, provavo un senso violento di disagio a tirare fuori la merenda a confronto con chi invece portava merendine confezionate o rosette imbottite di salumi prese al supermercato. Ero turbato dal fatto di poter essere giudicato. Sarà anche un certo pudore millenario introiettato viscidamente nella nostra mente infantile dal cattolicesimo mistificatorio. L’inibizione angosciosa cristianotta ad essere quel che si è. La libertà sempre frenata di dire quel che si pensa, di fare quel che si vuole. Ecco, è proprio alla radice di questo senso religioso di vergogna atavica che l’industria alimentare foraggiata dalla propaganda del cibo sintetico accessibile a tutte le fasce sociali, ha attecchito nella psiche di intere comunità e popolazioni. Se non mangiavi le merendine o il prosciutto cotto ottenuto dal processo di lavorazione dei caseinati di scarto, eri un povero stronzetto figlio di nessuno, un paria da deridere, un coglioncino fuori gioco, fuori dal gioco competitivo idiota delle classi sociali. È lo stesso meccanismo comportamentale secondo me che induce tanti vignaioli a non ricordarsi più del proprio fondamento agricolo, come fosse un’onta da seppellire in profondità per imbracciare gli schemi “cittadini” del vino preconfezionato da enologi alla moda che però aiutano a vendere sui mercati nazionali ed esteri, fanno prendere premi sulle guide, fanno girare la fottuta economia borghese che non guarda in faccia a niente e a nessuno.
Vini sfusi ma non confusi
Qualche sera fa nel palchetto romano della Rimessa Roscioli, i vignaioli della Cantina di Neoneli hanno portato in assaggio dei vini sfusi provenienti da contadini, pastori, parenti che si fanno il vino in casa a Neoneli. Sono i Canales sfusi di Neoneli a base di cannonau e altre varietà autoctone a bacca rossa. Tiberio Corda, Nanni Liras (vigna centenaria), Peleo (vinificazione coi raspi senza travaso né solforosa), Michele Deiana, Giuanne Ispanu. Soprattutto quelli di Peleo e Nanni Liras erano vini nudi e crudi senza fastidiose impalcature enologiche dove a esprimersi senza filtri è l’uva e basta. Un’uva di qualità eccelsa vendemmiata al momento giusto di maturazione e portata in cantina per spremerla, farla fermentare, imbottigliarla. I campioni sono stati messi dentro bottiglie di plastica generando scandalo e indignazione filistea nei soliti benpensanti da social media. Le bottiglie sarebbero finite nell’immondizia comunque dopo averci bevuto l’acqua e invece sono state recuperate per travasarci quel vino genuino in assaggio. Cosa che ci pare un gesto sostenibile in sé. Senza infierire sul fatto che in giro per il mondo è pieno di vini di plastica seppure imbottigliati dentro contenitori di vetro, ma lì nessuno ha da ridire o scandalizzarsi tanto anzi, girano gli zalto e brindano festosi con le loro etichette costose, versando quei loro vinacci sintetici ma di lusso.
Né boomer né passatista
Ogni volta che pensiamo al futuro del mondo intendiamo il luogo in cui esso sarà se continua a procedere come ora lo vediamo procedere, e non pensiamo che esso non procede seguendo una linea retta, ma una linea curva, e che la sua direzione muta costantemente. (Ludwig Wittgenstein, Pensieri Diversi)
Ora lungi da me fare discorsi da boomer passatista. Anzi che sono stradaccordo con Alberto Savinio quando in uno dei pezzi al fulmicotone di recensioni teatrali raccolti in Palchetti Romani affermava: “Fra le tante banalità che governano il mondo, c’è anche la superiorità del passato sul presente.” Savinio lo scriveva nel 1937 ed era chiaramente una zampata neppure troppo velata al fascismo belligerante e al mussolinismo becero che riportava in auge i miti guerreschi dell’antica Roma. Oggi questo genere di idealizzazioni grottesche del passato sfruttato in ottica pubblicitaria da parte delle industrie è sotto lo sguardo di tutti quelli che non mettono il prosciutto sugli occhi: “il cibo di una volta, il pane della nonna, il vino primordiale, i sapori del passato…” Questo genere di retorica marpiona mi sembra che sia giunta a uno stadio di saturazione terminale. È ora di affrontare faccia a faccia il presente con tutta la sua carica di complessità e contraddizioni inestricabili. Fare i conti con la propria contemporaneità senza banalizzare il passato con slogan da cartolina turistica anzi sviscerandolo e rendendolo attuale, urgente. Innalzare a dignità artigianale le fatiche del lavoro in campagna. Elevare a modello di comportamento le pratiche e il frutto finale del lavoro “fatto in casa” dai vignaioli senza etichetta né velleità commerciali, liberati finalmente dalle grinfie dei mercanti, dall’oppressione manipolatoria dell’enologia, dalla logica dare-avere dei rivenditori. Fare e dire, mostrare la propria competenza manuale, spargere una visione personale senza autocensure né paure né pretese da parvenu. Coltivare la vite. Custodire la terra. Vendemmiare. Spremere l’uva. Affinare. Stappare.
Mi sembra ci sia molta confusione tra concetti buoni e concetti errati. I contadini non esistono più e se esistono e per caso si autodefiniscono così sono gli stessi che hanno abbracciato a mani aperte i pesticidi cosa che per loro era scienza. Oggi i privati che fanno vini non sanno distinguere tra rame e zolfo di miniera e i sistemici e usano quest'ultimi. Se chiamano un enologo? Forse farebbero meglio magari uno che consigli loro almeno di fare agricoltura bio. Ma se ne prendono uno marketing e pesticidi, beh, siamo allo stesso livello. Infine olio e vino non vanno messi nella plastica perché essendo acidi interagiscono dannosamente con la plastica. Insomma niente di tanto fico ... Bella lettura Savino.