Il futuro nero dell’enologia è inscritto già nel suo passato
Ma noi al presente buttiamo giù un bel bicchiere sincero del Box’e Croxu di Gianfranco Manca della cantina Panevino.
Collezionismo/Feticismo
Ogni tipologia di collezionismo racchiude in sé una forma di feticismo. La bibliomania può portare a eccessi e ossessioni che rasentano la necrofilia. Prendiamo i trattati di enologia dei secoli scorsi. Rileggerli oggi può adombrare una certa perversione libresca per le questioni morte, un’attrazione maniacale per le cose sepolte. Non che i video e la gente su Tik Tok non siano a loro volta che una massa amorfa di cadaveri annaspanti nel vuoto cosmico eh. Eppure c’è molto da apprendere dai trattati scientifici del passato che seppure datati, accantonati dalle ricerche e innovazioni più recenti, possono illuminare in maniera inaspettata sul percorso di determinate pratiche e teorie, in alcuni casi molto meglio degli studi più aggiornati e attuali. Su questo tema consiglio la lettura di Sull’orlo della scienza, un dialogo solo all’apparenza incompatibile tra due filosofi della scienza di senso opposto sul grande tema del metodo, quali Imre Lakatos e Paul K. Feyerabend.
Giovanni Pozzi (1769-1838) è stato un pioniere nel nostro paese della chimica e biologia applicate al vino sulla tradizione dei grandi chimici europei quali Lavoisier, Chaptal, Cherer, Lewitz, Fourcroy, Morelot, Trommsdorff.
Sfoglio il suo aureo manualetto Del Vino. Delle sue malattie, e de’ suoi rimedi; e dei mezzi per iscoprirne le falsificazioni. Dei vini artificiali. Della fabbricazione dell’aceto, pubblicato a Firenze nella Stamperia Piatti il 1816. La cosa che più salta agli occhi dei lettori smaliziati è la contrapposizione netta che l’uomo di scienza incorruttibile, cioè lo stesso Pozzi, tende a rimarcare nei confronti del mercato e dei mercanti di vino:
“Da ciò che io ho rimarcato si conoscerà la necessità d’invigilare sui mercanti di vino, che anteponendo il più vile guadagno alla salute degli uomini, falsificano in mille modi i vini, e si fanno pagare la frode.”
Questo senza dubbio la dice lunga sulle pratiche ben poco oneste da parte dei mercanti e degli osti del passato che trafficavano col vino nelle maniere più sconsiderate, facendosi pochi scrupoli su aspetti etici e questioni di salute pubblica. Ci sono interi capitoli dedicati ai
“mezzi per iscoprire le falsificazioni dei vini, e dei danni, che queste portano alla salute: Del vino mescolato collo spirito di vino. Del vino mescolato coll’acqua. Del colore artifiziale del vino. Del vino che contiene molto zolfo. Del vino che contiene della calce. Del vino con una soluzione di carbonato di potassa. Del vino coll’allume. Del vino col piombo. Del vino col rame…”
Ma quegli stessi lettori smaliziati non possono non rilevare nelle ansie del Pozzi tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, un ribaltamento alquanto inquietante ai nostri giorni dove per ironia della sorte, molti degli stessi uomini di scienza odierni hanno venduto l’anima al diavolo del mercato e dell’industria del vino “anteponendo il più vile guadagno” essendo diventati a un tempo sia enologi che rivenditori del proprio prodotto, appestati da un conflitto d’interessi a dir poco epocale, devastante tra scienza e merce.
Atti di fede
“È infinito il numero delle materie, che si prescrivono per correggere l’acidità del vino.”
Leggiamo ancora nel trattatelo del Pozzi, che a pensarci bene è un po’ l’atto di fede dell’enologia correttiva moderna, spaventata a morte dall’ossigeno e dalla volatile nel vino manco fossero la Peste Nera. Una disciplina ovviamente evolutasi assieme alla tecnologia, di pari passo alla tutela del consumatore dalle sofisticazioni dei soliti “mercanti” disonesti. Una scienza che partendo senz’altro da presupposti legittimi di sanificazione degli ambienti, di igiene dei processi produttivi che portano all’integrità delle fermentazioni alcoliche e al controllo delle attività dei microorganismi, si è man mano trasformata in gigantesca industria essa stessa in combutta con il mercato vivaistico e con l’industria dei prodotti di sintesi dell’agrochimica, instaurando così una vera e propria lobby commerciale assolutistica la quale crea la stessa filiera che poi controlla, dai corsi universitari agli scaffali nelle enoteche e supermercati, ai corsi di sommellerie, alle carte dei vini nei ristoranti e negli hotel. E così l’enologo chiamato a produrre “un vino generoso, durevole e sano”, nei quasi tre secoli che ci separano dal Pozzi, in un inarrestabile processo storico di metamorfosi camaleontica, si è tramutato nel mercante canaglia da cui il suo manuale tanto ci metteva in guardia.
Panevino: la voce della buccia
Box’e Croxu della cantina Panevino di Gianfranco Manca vignaiolo a Nurri. Nei parametri di quella stessa enologia che ha venduto l’anima al diavolo del mercato degli aromi dei coadiuvanti e additivi vari ed eventuali, questo rosso sanguigno di Sardegna espressivo della solarità mediterranea ottenuto dal torchiato delle vinificazioni assemblate di uva Monica e Carignano, non rispecchia sicuramente i criteri di acidità volatile raccomandati dal Pozzi, troppo eccessiva, rude, spigolosa. Eppure siamo davanti al vino verace di un vignaiolo di talento che dall’esperienza decennale di panificazione e trasformazione degli impasti, dal lavoro assiduo sulle farine e il lievito madre per fare il pane ha affrontato poi con estrema determinazione la viticoltura ancestrale recuperando vigne ad alberello abbandonate, accogliendo nella sua visione generale del mondo, con mano ferma e mente lucida, le vinificazioni naturali, le fermentazioni spontanee da laconico pioniere del Campidano qual è.
Ogni etichetta di Gianfranco è un mondo a sé, una bottiglia non riproducibile, perché l’annata è unica e non sarà mai uguale ad un’altra. Questo è il segreto custodito nei vini di Panevino che poi è il segreto di Pulcinella dell’artigianato dove l’oggetto irripetibile, il prodotto finito, in questo caso il vino creato dalla lavorazione delle terre e dell’uva, è singolare, personale (la personalità/manualità dell’artigiano che lo concepisce) proprio perché non è appiattito dalla meccanizzazione industriale che uniforma i gusti, omologa i sapori, massifica i saperi, snatura i palati, svilisce le peculiarità tanto di chi fa il vino quanto di chi lo beve.