Il Merlot secondo Stefano Antonucci: fra taglio e monovitigno
Vinificare Merlot in purezza è una sfida. Assai rischiosa. Il pericolo – ben lo sanno i viticoltori – è quello di fare vini ‘piacioni’ (quante volte si è utilizzato questo aggettivo per i Merlot!), oltremodo rotondi e morbidi. ‘Merlottoni’, insomma, che si distinguono per ruffianeria piuttosto che per carattere. Ebbene lo diciamo subito, non è il caso di Mossone di Stefano Antonucci.
In fondo i francesi lo insegnano: il Merlot è il principe dei vitigni da taglio, quell’uva che contribuisce ad ‘ammorbidire’ i Cabernet Franc e Sauvignon, i Petit Verdot e i Carménère del bordolese. A Saint-Estèphe, con il suo terreno argilloso – per esempio – il suo apporto è stato fondamentale per raggiungere quell’apprezzabilità di risultato che ha portato i vini di quella AOC ai più alti riconoscimenti. Eppure, nonostante la sua importanza, il Merlot, solo in casi rarissimi, e praticamente solo sulla riva orientale della Dordogna, a Pomerol, viene lavorato ‘in solitudine’. Si può citare, a tal proposito, il campione dei campioni, Pétrus, eppure anche questo vino – fra i più blasonati al mondo – solo da poco più di una decina di anni è Merlot al 100%.
In questo senso in Italia si è osato prima e di più. Innumerevoli sono, nella Penisola, i Merlot in purezza, seppure pochi si dimostrino realmente interessanti. Fra questi, senza tema di smentita, i grandi bolgheresi – Masseto e Messorio – e i chiantigiani Poggio ai Merli e L’Apparita (prima annata 1985) la quale, in effetti, è stato il primo Merlot 100% prodotto in Toscana. E, poi, come non ricordare il raffinato Ilmerlot di Ca’ del Bosco, uscito, nella sua prima annata, nel 1990, e quindi di nuovo solo nelle annate eccezionali del 2001, 2003, 2009 e 2011?
Insomma, vini – quelli citati – che di ‘comune’ hanno punto o nulla e che, al contrario, grazie alle loro straordinarie e irreplicabili condizioni pedoclimatiche, alle centrate pratiche agronomiche e ai giusti accorgimenti di cantina, si confermano monumenti della nostra produzione enologica nazionale.
La sfida di Cantina di Santa Barbara
Nella valle della Misa, a ridosso della dorsale collinare che da Senigallia svalica verso Jesi, si trova il piccolo paese di Barbara. Qui l’uva a bacca bianca – il Verdicchio – regna incontrastata. Eppure, in queste contrade, c’è chi ha voluto tentare l’avventura di un 100% Merlot. Un’ulteriore sfida con se stesso, come quella fatta nel 1994 quando decise di lasciare il suo lavoro in banca per dedicarsi completamente al vino, con un obiettivo dichiarato: «fare vini che piacciano».
La storia del personaggio – sì, personaggio, perché Stefano Antonucci, con i suoi occhiali colorati, il suo eterno sorriso, la sua incontenibile gioia di vivere, è un vero personaggio – è nota agli appassionati. Così come lo sono i vini della sua Cantina di Santa Barbara: i Verdicchi. E il suo rosso ‘internazionale’, Pathos, frutto di un uvaggio di Merlot, Cabernet Sauvignon e Syrah.
Barricaia.
Eppure, non pago dei traguardi raggiunti, Antonucci ha perseguito un’idea: un Merlot in purezza che raccontasse la terra marchigiana, ma che pure non avesse paura di confrontarsi con gli altri ‘grandi’ Merlot italiani. Da una vigna posta a 260 metri d’altitudine, orientamento Nord-Est, con un terreno ricco di pietre e ciottoli, vede la luce, nel 2011, la prima annata di Mossone (così battezzato dal soprannome che gli amici hanno affibbiato ad Antonucci: Mossi). Un vino IGT che Lucio Pompili (grande amico di Mossi) definisce «da beccacciaio», e che difatti, nel suo elegante Symposium, propone in accompagnamento alla «beccaccia alla Santa alleanza» (ovvero con foie grasIn francese significa letteralmente "fegato grasso" ed è definito dalla legge francese come "fegato di anatra o di oca fatta ingrassare tramite alimentazione forzata”. È uno dei prodotti più famosi e pregiati della cucina francese. Esistono tipologie di 'foie gras' non derivate da animali sottoposti ad alimentazione forzata. Spesso il fegato grasso è associato all'alta cucina francese e internazionale per... Leggi).
Ma com’è Mossone?
La degustazione
Ricchezza. Ecco l’aggettivo che meglio definisce questo 2018 del quale scriviamo, annata che nella zona del Verdicchio jesino si è distinta per picchi di calore non indifferenti e che ha costretto ad anticipare leggermente la raccolta, per preservare un po’ di più l’acidità.
Nel bicchiere il vino si presenta di un magnifico rosso rubino, quasi impenetrabile nella sua consistenza. E, nei suoi fugaci riflessi di chiusa vivacità, tradisce tanto la sua giovinezza quanto la sua sontuosità. Ruotandolo, l’occhio rimane rapito dalle doppie cadute di ‘archetti’ che, nel loro susseguirsi paiono disegnare le slanciate e fitte arcate di una cattedrale gotica. Rompendone poi la rotazione, il liquido si assesta compatto nel bicchiere con quell’elegante oscillazione tipica dei vini ‘consistenti’.
Mossone.
Nel bicchiere il vino si presenta di un magnifico rosso rubino, quasi impenetrabile nella sua consistenza. E, nei suoi fugaci riflessi di chiusa vivacità, tradisce tanto la sua giovinezza quanto la sua sontuosità. Ruotandolo, l’occhio rimane rapito dalle doppie cadute di ‘archetti’ che, nel loro susseguirsi paiono disegnare le slanciate e fitte arcate di una cattedrale gotica. Rompendone poi la rotazione, il liquido si assesta compatto nel bicchiere con quell’elegante oscillazione tipica dei vini ‘consistenti’.
Al naso Mossone è tutt’altro che timido. Il vino avviluppa immediatamente in una miriade di emozioni. Coloro che hanno avuto la ventura di conversare con Antonucci sanno bene quanto sia coinvolgente una chiacchierata con lui. Ebbene, i profumi del Mossone lo sono altrettanto. Plurimi e generosi, quasi inebrianti, paiono proclamare, sin da subito, esuberanza e prodigalità. Ma l’impressione è solo prefatoria di altro. Rimettendo il naso nel bicchiere ci si accorgerà della presenza di un ordine e, soprattutto, di una eleganza non scomposta. Molto intenso, complesso e fine, il profilo aromatico di Mossone abbraccia il mondo del fruttato, del minerale e dello speziato, con alcuni tocchi floreali ed erbacei. Frutta matura, come prugna e ciliegia marasca, mora e mirtillo, accompagnati da un tocco di macchia mediterranea e di iris appassito (del famigerato peperone verde neanche l’ombra!). Un leggerissimo sottofondo balsamico sostiene poi l’intelaiatura minerale – che a tratti può ricordare un po’ la grafite e un po’ l’humus – sulla quale si dipana la grande varietà di spezie data dal lungo affinamento (18 mesi) in barriqueCon "barrique" si intende una piccola botte di legno adatta all’affinamento di vino dalla capacità compresa tra i 225 e i 228 litri.... Leggi nuove di media tostatura. Ecco quindi l’immancabile vaniglia, e poi la liquirizia, il caffè, l’anice stellato, un tocco di cioccolato…
Il sorso, come per gli aromi, è subito generoso, come una lunga, forte e calorosa stretta di mano. Ma poi, come a ricomporsi in una dimensione di eleganza, ecco subito apparire quel tocco di freschezza che lega tutte le componenti, sostenendole senza slabbrature o concessioni. In bocca Mossone è caldo, senza essere alcolico, morbido, sapido e con tannini assai fini e perfettamente integrati. L’acidità, che permette al vino una agilità che né la densità della materia né la ricchezza degli aromi avrebbero lasciato presagire, puntella l’intensità e la persistenza del sorso, in una struttura generale che si presenta sì complessa – di corpo – ma che sfugge la pesantezza. La finezza di Mossone è ancora di più percepibile in fondo di bocca: qui le sensazione gusto-olfattive (bellissime le molteplici percezioni speziate) continuano a vivere lungamente, accompagnate dalla morbidezza dei polialcoli, con apollinea pulizia e classica nettezza.