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Villa Feltrinelli

Destini che si uniscono…

Sliding doors” è un’espressione che, in senso figurato e complice un famoso omonimo film degli anni ‘90, suggella il momento topico di una storia, un elemento assolutamente imprevedibile che può cambiare la vita di una persona. Ebbene, come sarebbe stata la carriera professionale di Stefano Baiocco se il fratello, a sua insaputa, non avesse inviato diverse lettere all’Enoteca Pinchiorri, portando Annie e Giorgio ad accogliere per perseveranza il giovane anconetano nel loro staff?

Dove sarebbe, ora, Stefano Baiocco se non avesse attraversato quella “porta scorrevole” spalancatagli dal suo collaterale e che lo ha proiettato nel mondo dell’alta cucina passando per la Francia (Alain Ducasse e Pierre Gagnaire) e la Spagna (gli Adrià) prima di fare ritorno in patria?  Per fortuna sono domande alle quali non possiamo rispondere e, pur se avessimo potuto, non avremmo voluto rispondere perché quella (ormai lontana) storia di solidarietà e complicità fraterna da cui tutto è partito e ciò che successivamente ne è derivato hanno forgiato uno Chef maturo, sensibile, colto, ormai parte integrante di uno dei progetti di ospitalità di lusso più ambiziosi sul territorio nazionale al punto che pare impossibile immaginare Villa Feltrinelli senza Baiocco alla guida del ristorante.

L’ossimoro Villa Feltrinelli – Baiocco

Ma se è vero che le vite della struttura ricettiva e del cuoco anconetano sono legate a doppio nodo e paiono un unicum inscindibile, è altrettanto vero che l’idea e la progettualità culinaria che si appalesano in quel di Gargnano contrastano apparentemente con l’atmosfera del luogo che le ospita. Infatti, nello sfarzo di una villa storica e lussuosa gestita da una cordata russa e frequentata per lo più da clientela straniera ci si sarebbe aspettati un’impronta morbida, classicheggiante… invece no! Lo chef Baiocco mette in pratica un’idea di cucina aperta alla ricerca e al rischio, sostenibile e all’avanguardia, elegante e limpida con particolare attenzione al mondo vegetale.

Le fresche acidità dell’insalata di trota salmonata e foie gras aprono la via a un percorso degustativo di altissimo livello che trova i suoi apici nella Lasagna di mare, dove la geniale royale di plancton fa sentire le note iodate del mare pur in assenza di prodotti ittici e nello spaghetto che termina la cottura in brodo di carne e groppello, con aggiunta di polvere di ginepro, assenzio e artemisia, dalle note acide sferzanti, taglienti che ripuliscono il palato per aprire agli altri due capolavori che chiudono la parte salata del menù: la sua idea di insalata, piatto simbolo che risale al 2007, che Stefano definisce democratica (perché usa 120 erbe e 25 fiori, uno per tipo) e al tempo stesso anarchica (perché ogni boccone è sempre diverso dal precedente e dal successivo) e la destrutturazione del coniglio nel quale vengono utilizzati tutti i ritagli dell’animale perché la sua filosofia è che del cibo non si butta nulla. 

Menzione a parte merita Tutto pomodoro, uno dei piatti simbolo di Baiocco, paradigmatico della sua sensibilità nel trattare i vegetali. Trattasi di un piatto composto con 50 diverse varietà di pomodoro (alcuni semi-dry, alcuni conditi con olio agli agrumi, altri serviti in insalata con olio, sale e pepe), in accompagnamento si trovano budino di mozzarella e granita di panzanella, che si ha il privilegio di assaporare solo nel periodo fine agosto/settembre poiché prima non è possibile reperirne tutte le tipologie. Acido e fresco al tempo stesso, profondo, inesauribile, “emana una luce propria, maestà benigna”, citando l'”Ode al pomodoro” di Pablo Neruda.

Nell’ultima visita del 2019 era stata attribuita una votazione arrotondata, però, per difetto in quanto si sperava che il piede fosse un po’ più premuto sull’acceleratore; ebbene, quel guizzo in più auspicato due anni or sono si è oggi appalesato e concretizzato mediante sapori decisi, contrasti e approfonditi, che confermano Villa Feltrinelli nell’Empireo dell’alta gastronomia nazionale.

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Un lusso che non fa rumore

È ormai trascorso un quindicennio dalla folgorazione dell’allora (più) giovane Stefano Baiocco, già forte di solide esperienze in alcune delle più grandi cucine del pianeta, verso la via di Gargnano. Un colpo di fulmine che ha portato a un legame indissoluto e indissolubile, tant’è che oggi sarebbe forse inimmaginabile pensare a Villa Feltrinelli senza il suo chef, né Stefano Baiocco senza di essa. Non è in effetti difficile capirne le ragioni: un microclima ideale, imprescindibile per la realizzazione di un sogno, una location che ha pochi eguali nello Stivale e non solo, una struttura storica riportata con intelligenza ai fasti di un tempo che è perfetto connubio di sfarzo, eleganza e discrezione. Perché chi viene qui, oltre al lusso e a un servizio sartoriale, viene per la tranquillità degli spazi, per la fragranza dei profumi, per la posizione quasi appartata e defilata all’interno della pur sempre frequentatissima (specie in alta stagione) Gargnano, lontana da certo glamour. E poi, viene anche per lui e la sua cucina. 

Cucina che sintetizza abilmente le esperienze pluriennali di Baiocco attingendo da molteplici culture, che rifugge contrasti particolarmente accentuati per prediligere realizzazioni all’insegna dell’eleganza, della finezza, del perfetto equilibrio. Il tratto caratterizzante, anche nelle realizzazioni più complesse, è quello di una limpidezza gustativa cristallina, perfettamente leggibile in ogni sua sfaccettatura, dove ogni componente è protagonista pur nel contributo che dona all’assieme.

Dal mondo vegetale, l’impalcatura e l’orpello del piatto

Peculiari in tal senso due piatti iconici, autentici manifesti programmatici della cucina di Baiocco: il Tutto pomodoro, variazione sul tema composto da ben 53 elementi, stupisce per la policromia gustativa che fa seguito a uno spunto che sulla carta potrebbe apparire monocromatico. La semplice insalata nasconde, nella sua ironica denominazione, un piatto quasi stordente nel suo magma di suggestioni (parliamo di oltre 140 componenti, con diverse lavorazioni): una sorta di alea controllata ma costantemente mutevole, dove l’esito finale dipende da periodo, dal clima e, non ultima, dalla fruizione da parte del cliente. Un apparente disordine dove tutto ha, paradossalmente, senso. Ma la stessa filosofia la ritroviamo anche in quei piatti in cui la materia vegetale va a costituire l’impalcatura su cui poggiare altri protagonisti, dai conchigliacei ai pesci di lago e di mare, fino alle carni. E anche nella parte dolce essa contribuisce a conferire freschezza e ad evitare abilmente derive stucchevoli, come nel caso di mandorla, miele e olive taggiasche cappero, caffè e maggiorana, in cui le componenti sapide fungono da contrappunto perfettamente dosato, né coprente né timido.

Se proprio vogliamo trovare il pelo dell’uovo, e sconfinando indubbiamente ancor più nella soggettività, a fronte di cotanta algida, naturale eleganza che non manca certo del suo fascino ci chiediamo, specie alla luce della materia di partenza, se qua e là qualche guizzo in più, qualche contrasto maggiormente approfondito, insomma il piede un po’ più premuto sull’acceleratore non potrebbero contribuire a  concretizzare quell’ultimo, piccolo balzo verso l’assoluta grandezza. In questo senso non possiamo non chiederci se le peculiarità proprie di questa location, fisiologiche prima ancora che legate a improbabili indirizzamenti espliciti da parte della proprietà, in particolare la necessità di accontentare più palati, sensibilità ed esigenze, non possano sul lungo termine costituire una sorta di freno alla compiutezza di questa cucina, per la quale ci riserviamo ancora di mantenere la precedente valutazione arrotondata, va evidenziato, per difetto. 

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Una villa dall’inarrivabile fascino, una proprietà coraggiosa e uno chef talentuoso per un connubio perfetto tra lusso e cucina d’autore

Secondo alcuni è il più bell’albergo d’Italia. Noi, senza entrare nel merito della classifica, non possiamo che confermare che Villa Feltrinelli sia un luogo semplicemente incantevole.

Costruita a fine ‘800 dalla famiglia Feltrinelli, la villa, in stile liberty, è un pezzo di storia italiana anche per il fatto che, tra il 1943 ed il 1945, Benito Mussolini vi trascorse gli ultimi giorni della sua vita. Oggi Villa Feltrinelli è un esclusivissimo albergo -con sole 20 stanze- che si rivolge ad una clientela per lo più internazionale (soprattutto americana) di altissima fascia.

Dotata di una vista tra le più belle del Lago di Garda, circondata da un parco da sogno di 80.000 mq, in cui tra le piscine, la darsena privata e un campo da golf fanno bella mostra di sé anche una bellissima limonaia e l’orto, fortemente voluto dallo chef Stefano Baiocco.
Anconetano di 45 anni, lo chef ha un curriculum impressionante che parte dall’Enoteca Pinchiorri, passa per Parigi da Alain Ducasse e Pierre Gagnaire, e quindi in Spagna da Ferran Adrià, solo per citare le esperienze più importanti.
Tornato in Italia, dopo aver ricoperto il ruolo di sous-chef al Rossellini’s di Ravello riceve la chiamata da Villa Feltrinelli, dove assume il ruolo di Executive Chef del ristorante dell’albergo.

A pranzo il ristorante, aperto per la sola clientela dell’albergo, propone una cucina più semplice, di stampo più internazionale e mai troppo complicata.

La sera Baiocco propone la sua cucina prettamente ai clienti dell’hotel e ai pochi ospiti esterni (avendo il ristorante una capienza max di 40 coperti), senza disdegnare le richieste di una clientela non facile, spesso portata ad avanzare richieste stravaganti, ma a cui non si può mai dire no.

Coraggiosa la scelta di proporre una cucina non semplice e non ruffiana in un grande albergo

Una cucina estremamente elegante, caratterizzata da marcate note vegetali e floreali.

Iniziamo con quello che è diventato ormai il suo signature dish, Una semplice insalata…: più di 100 erbe diverse per un piatto anarchico, difficile, una pennellata d’autore al servizio di innumerevoli tonalità di gusto, 100% vegetali. Non è da meno il Sandwich di Wagyu e Shiso verde in cui acido e amaro giocano a rincorrersi, in un piatto non facile servito in maniera spiazzante come seconda portata a conferma di una cucina che non ha paura di osare nonostante il contesto, come testimoniato dalla semplice rilettura del Pinzimonio che colpisce per originalità ed equilibrio.

Meno convincenti ci sono sembrati  gli Spaghetti freddi con granchio e caviale, un po’ acquosi a causa dell’eccessiva acqua di pomodori (fredda anch’essa), così come non ci ha entusiasmato l’ennesimo maialino della nostra vita, tenero e ben eseguito, ma ormai più che standardizzato. Il livello risale in coda con un dessert che porta con sé echi di Max Alajmo: Cappero, caffè e maggiorana. Di grande livello.

La carta dei vini ha ricarichi proibitivi ed è interamente italiana (con tanto Nord e poco Sud per la verità), fatta eccezione per qualche grande Champagne mentre il servizio è adeguato al contesto e, dunque, di ottimo livello.

In conclusione, non si può non rimarcare la bravura dello chef e quanto sia illuminata la proprietà (oggi russa) a concedergli la libertà di osare e di proporre, senza troppi vincoli, la sua cucina. Il contesto, i conseguenti elevatissimi prezzi (basti pensare che per una degustazione vini di livello assolutamente “normale” abbiamo pagato 100 euro a persona) e il ridotto numero di coperti fanno sì che la clientela del ristorante sia composta in maggioranza dai facoltosi ospiti dell’albergo.

Baiocco resta uno chef tra i più bravi e meno conosciuti dalla “normale” clientela di ispirazione più spiccatamente gourmet, sebbene la sua cucina meriterebbe di essere frequentata e conosciuta maggiormente, aldilà dei fortunati ospiti della Villa.

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Cenare attorniati da otto ettari di storia: non si può parlare della cucina di Stefano Baiocco senza prima approfondire cosa è Villa Feltrinelli.
In Italia abbiamo la fortuna di avere moltissimi alberghi di grande fascino: vuoi per il paesaggio mozzafiato, vuoi per la splendida architettura o semplicemente per il grande servizio.
Ma niente è paragonabile a questo.
Un monumento, un patrimonio artistico italiano che incidentalmente è anche un albergo-ristorante.
Se venite a cenare qui, chiedete di poter vedere almeno le sale al piano terra: guardate il bar, la biblioteca, le boiserie, gli arredi originali. Vi sembrerà di essere protagonisti di un film in bianco e nero, vi sembrerà di annusare la storia, di poterla toccare.
La Villa fu costruita nel 1892 dai Feltrinelli, a nord-est dell’abitato di Gargnano. Un gioiello a cui la facoltosa famiglia dedicò una particolare attenzione, ma era grande il feeling con la cittadina sul lago, tale da rendere i Feltrinelli dei veri e propri benefattori: strade, ospedale, palazzi, non si contano le costruzioni finanziate in questo territorio.
Ai tempi della Repubblica Sociale Italiana la Villa venne requisita e divenne il teatro di una fetta determinante della nostra storia: Mussolini arrivò a Villa Feltrinelli l’8 ottobre 1943 e qui restò fino all’aprile del 1945, quando si trasferì a Milano per terminare poco dopo la sua vicenda umana e politica.
La sua camera c’è ancora, la “Magnolia”, dal nome dell’albero situato proprio davanti alla finestra dell’alloggio: pare che a Mussolini non piacesse molto la vista del lago…
Dopo la guerra la Villa ritornò in possesso dei Feltrinelli, che decisero però di venderla a una importante famiglia Bresciana.
Nel 1997, dopo anni di declino, l’hotelier Bob Burns (il fondatore della catena alberghiera “Regent International Hotels”) decise di rilevare la proprietà e darle nuova vita affidando lo studio di architettura di interni a “Babey Moulton Jue and Booth” di San Francisco.
Ogni singolo dettaglio della villa originale è stato conservato e ristrutturato. l magnifici dipinti su muri e soffitti, le eleganti decorazioni in gesso e “boiseries” sono stati tutti restaurati e rifiniti per riprendere l’originale splendore di fine secolo, come anche gran parte del mobilio originale della famiglia Feltrinelli.
Ci ha lavorato un team di arredatori, meccanici ed elettricisti, esperti d’illuminazione e paesaggisti, tutti guidati dall’architetto Giorgio Rovati.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque abbia la fortuna di varcare il cancello: l’impressione non è tanto di lusso, quanto di esclusività. Sarebbe sciocco negare l’inacessibilità ai più di questa proprietà alberghiera, dormire qui è cosa da ricchi. Il prezzo di una cena è invece in linea con i grandi ristoranti europei.
Dal 2007 l’albergo è di proprietà del russo Viktor Vekselberg e la qualità è rimasta inalterata.
Villa Feltrinelli lavora solo con clientela straniera, soprattutto americana: i prezzi come dicevamo sono altissimi, ma è proprio vero che tutto è relativo se poi c’è chi si ferma qui anche tre settimane.
80 dipendenti per un massimo di 40 clienti: si può intuire il livello di servizio a cui si tende tra queste mura.
Il ristorante non è da meno: scambiate due parole con il maitre, un vero fuoriclasse dell’arte dell’accoglienza. Ma anche gli altri camerieri faranno di tutto per creare una atmosfera rilassata, informale: davvero un servizio da 10 e lode.
E poi c’è lo chef, Stefano Baiocco. I suoi piatti potrebbero essere da soli un valido motivo per mettersi in viaggio.
Non è facile imporre una cucina di forte personalità in un contesto come questo: le scelte più scontate e ovvie sarebbero ben altre, quindi bisogna dare atto alla proprietà di avere avuto lungimiranza in questa scelta fuori dal comune.
Qualcuno l’ha definita una cucina femminile: a noi è parsa invece una cucina di grande eleganza e finezza, e decisamente maschia e caratterizzata nei suoi passaggi cruciali.
Volutamente una cucina non urlata: a primo impatto potrebbe anche generare spaesamento. Almeno così è stato per noi, abituati ad altre potenze espressive di fronte a cucine che utilizzano, come questa, erbe e fiori a profusione.
La scelta dello chef è chiaramente quella di ricercare l’armonia e costruire il menù come il crescere di un’onda, dai sapori più delicati ai più intensi: in questo ricorda molto la filosofia di alcuni maestri giapponesi. Più morbidezza che spigolosità nelle prima parte del menù, contrasti invece più accentuati nella seconda parte.
Maniacale lo studio delle quantità: quelle che possono sembrare inizialmente porzioni troppo risicate, si rilevano invece perfette a fine cena. E il risultato di sazietà ma di estrema leggerezza è pari a poche altre tavole.
Si potrebbe spingere di più sull’acceleratore fin dall’inizio? Forse sì, si potrebbe cercare fin dai primi piatti quella profondità e complessità che per esempio è mirabile nei secondi e nei dessert. Solo un piatto è risultato infelice, il tortello all’arrabbiata, eccessivamente slegato nelle sue componenti: il resto scorre liscio, calmo, ma intenso proprio come il Grande Lago.
Una cucina di colori, di equilibri, di incastri che ha ancora necessità di un piccolo salto per entrare tra le grandissime cucine italiane.
Il motto di Baiocco è “La cucina ha senso soltanto se abbiamo qualcuno con cui condividere le nostre emozioni“. Come dargli torto: portate una persona che amate davvero e condividete con lei una esperienza speciale che va al di là di cibo, ristoranti, lusso e soldi.
Un regalo esclusivo da fare e farsi almeno una volta nella vita.

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Menu 100% Baiocco

Per iniziare:
Tartelletta con patè di fegatini di coniglio e nocciole
Corteccia di topinambur
Crocchetta di salmone con tartare di salmone e maionese di capperi
Pan soffiato, tonno e crema al sesamo e lime
Patata con bottarga di muggine

Un benvenuto di gran classe: in evidenza le perfette le temperature di servizio.

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Ricciola giusto scottata, stracciatella, gelatina piccante e fiori di begonia.

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Scampo, anguria e zuppa di mela verde: scampi appena marinati con buccia di agrumi, pomodori ciliegia, anguria e mela verde in salsa. Il finto pomodoro è di cioccolato bianco con crema di limoni. Se la salsa di mela fosse ancora più acida, a nostro avviso il piatto ne guadagnerebbe.

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“Tutto pomodoro”. 23 tipi di pomodoro, 6 di basililico: un piatto di assemblaggio, ma quando il risultato è così convincente nessuno ha niente da dire. Semplicemente incredibile.

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Gli gnocchetti soffici di latte crudo cagliato in casa, crema di cavolfiore, caviale ” Calvisius “e foglioline di lattuga: si punta all’essenzialità, alla giusta misura. Non c’è un ingrediente che prevarica l’altro.

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L’arrabbiata come ripieno del tortello di pasta all’uovo, filetto di sgombro passato alla griglia e salsa al prezzemolo: poco convincenti sia il forte piccante del ripieno che l’unione con gli altri componenti del piatto. Slegato.

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“Il ricordo di un viaggio”: cuore di salmone cotto rosè in olio di oliva, tapioca, zuppa di cocco, coriandolo e lemongrass. Grande piatto dalla persistenza infinita. Si punta a concentrare i sapori senza l’ausilio di grassi aggiunti.

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Piccione marinato con salsa di curry e poi grigliato, insalata di nasturzi, friggitello e bavarese all’aglio olio e peperoncino: la marinatura diventa una riduzione di grande intensità. Piatto straordinario, sicuramente il migliore della serata.

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Pancia di maialino da latte arrostito sulla cotenna, cuor di cipolla in agrodolce, foglie di oxalis e ragù di finferli: altro ottimo piatto, ma manca della complessità del precedente.

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“Una semplice insalata”: 100 erbe e 20 fiori. Alla base delle sottili cialde di pasta brick con funghi champignon. Da gustare dal primo all’ultimo boccone. Incredibile quali sensazioni può regalare il mondo vegetale.

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L’argilla: meringa di fisherman. Un giochino.

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Pain perdu al nasturzio, gelato al basilico, sorbetto al peperoncino, chips di patata viola e infuso alle 10 spezie: dessert favoloso. Grande complessità che allo stesso tempo si rivela al palato nel modo più semplice possibile.

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Semifreddo al franciacorta, insalata di rabarbaro e spinaci e granita al pompelmo rosa: fresco ed efficace.

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Carta dei vini solo italiana, ad eccezione degli champagne.
Per noi, Pinot Bianco ” Schulthauser ” 2010: una mezza bottiglia per non fare troppo male al portafogli.

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Recensione ristorante.

Se il nostro cuore, cittadino, ormai non più abituato alla bellezza allo stato puro, ad un’atmosfera sospesa nel tempo, a forme ed eleganza di struggente intensità, resta senza un sussulto, per nulla basito e commosso, davanti a tanta grazia allora vuol dire che una parte di noi, probabilmente la migliore, ci ha abbandonato per sempre.
In un luogo così bello, avessi anche mangiato a livello di mensa aziendale, sarei stato comunque contento. Francamente mi sembrava troppo chiedere anche della grande cucina.
Ed invece qui c’è uno chef che appartiene alla categoria dei migliori italiani.
Un ragazzo marchigiano di trentotto anni, cresciuto all’ombra di Ducasse e Gagnaire, con passaggi dalla Feolde ed Adrià, animato da una passione febbrile che opera qui, silenziosamente, dal 2004.
La sua cucina? Fatta di leggerezza, armonia e gusto. E tanto buon senso.
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