“La vita è movimento. Nulla è statico o assoluto. Nessuno è. Siamo in uno stato di flusso costante, proprio come la terra, le maree, i batteri, la luce, il sangue nel nostro corpo, i colori, i semi”.
Si può partire da questo assunto per raccontare la storia dello chef Mitsuharu e del suo ristorante Maido, a Lima, che gioca sull’incontro incessante di culture a lui appartenenti, propulsori di suggestioni e stimoli necessari alla propria realizzazione personale messa al servizio dei clienti. In questo gioco personalissimo di emozioni e memorie, Mitsuharu si concilia con un modus vivendi che ha origini ottocentesche, riscoprendosi esploratore di un mondo già conosciuto, che si esplicita sotto forma gastronomica con la cucina Nikkei.
Alla fine dell’Ottocento infatti, migliaia di giapponesi iniziarono a trasferirsi in Perù stipulando particolari contratti lavorativi biennali. Il loro lavoro era principalmente d’ausilio nella produzione di canna da zucchero. Al termine dei due anni, molti di questi emigrati decisero di restare in Perù integrandosi con la popolazione locale e costruendosi la propria famiglia. Al servizio della stagionalità, questa comunità nipponica iniziò a creare un nuovo corso gastronomico che vedeva l’innesto dei cibi locali nella tradizione culinaria giapponese.
Il passo per rendere questa cucina di commistioni al servizio di grandi chef fu molto breve. In principio fu Nobu (Matsuhisa), poi ci fu l’innamoramento dei fratelli Adrià che con l’eccezionale Pakta la fecero scoprire agli europei, senza dimenticare i profeti in patria di cui Mitsuharu fa parte.
Situato a Miraflores, uno dei quartieri più ricchi e sicuri della capitale peruviana, Maido è un limpido esempio di come un ristorante che fa grandi numeri possa riuscire in preparazioni tecnicamente di buona qualità. L’accoglienza, il caos dell’ambiente, la semplicità di approccio sono la cornice ideale di un locale che fa dell’onestà culinaria un suo dogma. Grande materia prima al servizio di tecniche di lavorazione ineccepibili, qualche volta però non supportate adeguatamente dal gioco di equilibri gustativi, sempre cercati ma non sempre trovati. È così che, dopo passaggi davvero notevoli come il wagyu stufato per cinquanta ore, il nigiri di animella o il saguchito de paiche, si rimane se non delusi quantomeno perplessi all’arrivo di piatti poco fini palatalmente e con una vena sapida davvero troppo accentuata.
Questo saliscendi emozionale, che lascia interdetti visti i picchi altissimi toccati in qualche occasione, è supportato da un servizio svelto e da un ritmo imposto dalla cucina decisamente serrato. Il tourbillon creato e percepibile all’interno di Maido, che in giapponese è la forma d’espressione più alta per indicare il concetto di accoglienza, si riaggancia all’idea di onestà già emersa in precedenza, in cui l’errore tecnico da parte della sala e l’armonia all’interno del piatto non sempre trovata, sembrano passare in secondo piano rispetto al clima unico e gradevole che il ristorante nel suo insieme sa offrire. Non è un caso che ancor prima di entrare a far parte della prestigiosa classifica 50 best, Maido riscuotesse un ottimo successo da parte di critica e pubblico.
Come già riscontrato in altri grandi ristoranti del Centro e Sud America, anche Maido dà l’impressione di riuscire ad esprimere le proprie potenzialità in maniera ancora molto inibita. Nel complesso però la tappa è consigliata e il ricordo è quello di una bella cena, seppur con qualche complessità di troppo. Il movimento gastronomico sudamericano sta crescendo, facendo passi da gigante. È lecito e d’obbligo quindi concedere e sorvolare su qualche errore, nello specifico da parte della sala, che nel vecchio continente sarebbe ritenuto inammissibile.
Il dettaglio in evidenza del riconoscimento della 50 Best.
Pelle croccante di pollo con salsa Pachikay.
Senbei di riso, choirizo, platano grigliato e emulsione di sachatomate. Boccone goloso e dai sapori spinti.
Churos (servito con lumaca gigante dell’Amazzonia, churo alla soia e spuma di dale dale, un tubero dal sapore tra patata e rapa). Piatto cult, dai sapori tendenti al sapido-iodato.
Sanguchito de paiche, ovvero un pesce di acqua dolce di grande pezzatura (pane al vapore, chicharron di paiche, criolla de lulo). Un boccone da urlo. Temperature e consistenze millimetriche.
Ceviche selva (gamberi, sgombri, leche de tigre e tagliatelle di cuore di palma). Piatto ricco di sapori.
Chancho con yuca (pancia di maiale grigliata con manioca e riduzione di ramen e cocona). Altro piatto non finissimo, ma dall’alto tasso di golosità.
Sacha soba (spaghetti di soba con sachapapa, aderezo rojo – sorta di vinegrette – vongole e granchio crudi). Qui il livello è altissimo, sia in termini di lunghezza gustativa che di trattamento della materia prima.
Nigiri con entrana con uovo di quaglia e ponzu.
Nigiri con animella. Eccezionale.
La panoramica di entrambi.
Gindara (cotto nel miso, casho fermentato, castagne grigliate, crema di patate sangre de toro). Piatto notevole che ricorda il black cod anni ottanta di Nobu ma anche un piatto identico assaggiato al Pakta.
Da vicino.
Asado (wagyu cotto per 50 ore, tuorlo d’uovo, chaufa de cecina, ajicito de la selva). La consistenza della carne è tenerissima all’interno. Salsa agrodolce tirata alla perfezione.
Cacao (cioccolato al 70%, yuzu, gelato di shicashica, mochi, castagna e terra di cacao). Buono ma dal sapore già noto.
La brigata al lavoro.
La risonanza mediatica del Perù gastronomico è, ormai da qualche anno, in grande ascesa in tutto il mondo.
Ma se la parola “nikkei” per molti non è più un tabù, il termine “chifa” potrebbe ancora destare dubbi.
Con quest’ultima si contraddistingue la cucina cinese, in particolare cantonese, integrata con un pizzico di influenze della cultura gastronomica peruviana. Proprio come il connubio Giappone/Perù per il “nikkei”, la “chifa” è frutto dell’emigrazione di una parte della popolazione cinese della provincia di Guangdong nelle coste del sud del Perù, avvenuta intorno alla fine del diciannovesimo secolo.
Dal mare questa nuova fusion culinaria si è estesa in tutto il Perù, fino ad arrivare in Bolivia ed Ecuador.
Nel bel mezzo del Perù, a Cusco, grosso centro turistico da mezzo milione di abitanti, l’ombelico del nuovo continente per via della importante rilevanza storico-archeologica e logistica (le rovine del Machu Picchu sono a due passi), non poteva mancare un ristorante chifa (in cantonese sinonimo di “mangiare riso”) di ottimo livello. Ideatore di questo recente progetto è il ristoratore Coque Ossio, che a Cusco supervisiona ben cinque ristoranti, ciascuno con tipologia di cucina differente, ma pur sempre peruviana.
Kion è l’ultimo nato di questa piccola catena di tavole di qualità. Posizione centrale -Plaza de Armas, la piazza principale di Cusco, è a un isolato- e a totale servizio del turista (è aperto dalle 11:00 alle 23:00 tutti i giorni), in un ambiente dall’arredamento in stile Hong Kong anni cinquanta vengono serviti piatti dai sapori autentici, cucinati con attenzione ed esaltati da prodotti locali di sorprendente qualità. Verdure e tuberi sono eccellenti, ma anche le carni. Mentre il pescato del giorno si limita alla trota o ai gamberi.
La peculiarità della cucina sta proprio nei differenti contrasti che le acidità di alcuni ingredienti locali vanno a creare, smorzando la sapidità, e a volte la dolcezza, che presentano alcune salse tipiche della cucina asiatica. Ci si destreggia con disinvoltura anche nelle cotture: la carne dell’anatra è tutt’altro che sfibrata e la concentrazione di brodi e salse conferma la prerogativa di questa tavola per un cliente attento ed esigente. Il cambio favorevole permette poi di fare una bella esperienza ad un prezzo davvero contenuto.
I fritti provati in città e nei dintorni non ci avevano del tutto convinto, al Kion, viceversa, sì.
L’entrata che arriva al tavolo, dei piccoli wonton (o wantan) con diversi ripieni e variegate salsine, predispone al meglio, i ravioli al vapore sono perfetti in termini di consistenza e gli involtini primavera croccanti e asciutti. Ma gli assaggi migliori sono il “Buti Kion”, piccolo paninetto al vapore con pancia di maiale stufata, salsa creola e cipolla croccante e la zuppa di anatra e tofu con noodles, con un brodo di grande intensità e chiarezza gustativa, fatto con verdure, zenzero e brodo di pollo.
Sui dolci ci si snatura un po’, ma è tutto molto piacevole, a cominciare dai cocktail preparati con frutta ed erbe fresche a finire con un servizio rapido ma puntuale, sempre estremamente gentile.
Gli interni.
Mise en place.
Wantan e salse di accompagnamento, appetizer della cucina.
Buti Kion: mini pao con maiale, salsa creola, verdure cinesi e yacon sottaceto.
Ja Kao: dumplings al vapore con gamberi, bamboo e asparagi saltati.
Wantan fritti con maiale, pollo, funghi cinesi e zenzero, serviti con una salsa al tamarindo fatta in casa.
Zuppa d’anatra arrosto, con tofu fatto in casa (ottimo) e khai choi, noodles e cavolo.
Anatra e tofu.
Discreto dessert: Kion Sorbet, sorbetto allo zenzero, salsa al mango e frutto della passione, uva con mandarini cinesi e biscotto all’arancia.
Bambini che giocano in Plaza de Armas.
La meravigliosa atmosfera notturna della città.
L’alta cucina peruviana può essere classificata in due macro categorie: la cucina cosiddetta “fusion”, intesa come quella in cui importanti influenze di altre culture gastronomiche si combinano ai sapori ed agli ingredienti locali (è il caso della cucina di Gaston Acurio, che rievoca piatti importati dagli immigrati cinesi, giapponesi, spagnoli e finanche italiani, o di Maido, che si focalizza esclusivamente sullo stile nikkei), e la cucina per così dire di territorio, intesa squisitamente quale scoperta o riscoperta di ingredienti peruviani e, più nello specifico, andini e amazzonici presentati (e già questa è la grande novità) in una chiave totalmente inedita. In questa seconda categoria si colloca il Central, per la terza volta consecutiva nominato miglior ristorante dell’America Latina dalla tanto influente quanto discussa classifica della 50 Best.
E siamo d’accordo: questa è la più interessante e innovativa tavola che abbiamo trovato a queste latitudini, e siamo certi che sia una delle più peculiari del mondo.
Il fautore di questa che, prima di tutto, è una filosofia, è Virgilio Martinez, uno degli chef più influenti del momento, tanto talentuoso quanto scaltro a sfruttare al meglio l’eco mediatica che in questi ultimi anni innalza trionfalmente la “nuova” cucina sudamericana verso l’empireo della gastronomia mondiale.
Al Central si trovano due percorsi principali, ordinabili anche in versione ridotta (in termini di numero di portate).
L’esperienza culinaria più completa può piacere o meno, ma è senza alcun dubbio, prima di qualsiasi altro aggettivo, educativa. Si chiama “Alturas Mater” e per comprenderne a pieno il significato crediamo che sia necessario tenere in debita considerazione alcuni dati.
Sulla terra esistono 32 tipi di clima. 28 sono presenti nel Perù. Così come 84 ecosistemi su 117 totali.
Venti e più assaggi tessono la trama di un’esperienza narrativa, visiva, gustativa e perforante, incentrata sul dualismo tra biodiversità climatiche e ingredienti reperiti tra i diversi ecosistemi, e le diverse altitudini del Perù. Apparentemente non c’è un ordine. Proprio perché l’essere vivente nell’esplorare una terra come questa è soggetto a repentini sbalzi di clima e temperature.
Il filo conduttore, in verità, è appunto l’altitudine, elemento generatore di una scala di prodotti che parte dal mare fino alle vette più alte delle Ande, dove si assiste alla miracolosa crescita di tuberi di cui si ignorava l’esistenza, senza tralasciare le insenature amazzoniche e la misteriosa bellezza di quella flora e di quella fauna.
Praticamente un viaggio in Perù attraverso i suoi sapori più autentici e sconosciuti.
Un impressionante lavoro che parte dall’abnegazione per la ricerca del nuovo da riscoprire e valorizzare.
Tutto ciò è stato reso possibile grazie all’ambizione di Virgilio Martinez e alla sua “Mater Iniciativa”, una squadra di ricercatori e avventurieri itineranti che gira in lungo e in largo per il Perù cercando di comporre i pezzi di una gastronomia ancora tutta da scoprire. Un lavoro di ricerca biologica e culturale atta ad infondere il nobile concetto secondo cui prima ancora della tradizione di un qualsiasi piatto tipico è importante conoscere la tradizione di un ingrediente.
Qui non un ingrediente, né un sapore -eccetto le immancabili uova, farina e acqua- ritorna familiare in mente, e provate a chiedere ad un peruviano che ha avuto la possibilità di sedere a questa tavola se sia più informato di voi. Difficile, perché davanti a sé troverà un immenso patrimonio, da sempre sotto i propri occhi ma che nessuno è stato in grado di valorizzare e far conoscere quanto ha fatto Martinez. Basta questo per meritare tutta la stima del “pianeta cibo”.
Tra sapori e cibi inediti al comune palato (si va dalle foglie di coca ai pesci amazzonici, finanche ai batteri andini), l’unico limite della sua cucina, al momento, è la carenza, per gran parte della cena, delle alte temperature di servizio. A memoria, ricordiamo in tutto quattro portate “calde”. Al Noma, giusto per trovare una cucina con una simile affinità, ne ricordavamo qualcuna in più. Un limite che, probabilmente, Martinez e la sua brigata colmeranno con il passare del tempo.
Ad ogni modo, Central è oggi un luogo importante che può fungere da propulsore, nel suo piccolo, per un’intera economia. Prevaricando l’avanguardia culinaria e le tecniche più innovative di cucina -qui ci si imbatte in sopraffine preparazioni, curatissime presentazioni, marketing arguto, consistenze interessanti, ma tutto trae origine dall’ingrediente ritrovato, vero protagonista di questa innovazione- l’esperienza di oggi del Central è fondamentale e, senza alcun dubbio, unica.
L’essenziale segnaposto.
“Arañas de roca”. Sargasso (un tipo di alga), patella vulgate e granchio. Si parte da 5 metri sotto il livello del mare. Ed in effetti le tonalità al contempo dolci e salmastre sono molto concentrate e persistenti.
“Plantas del desierto”. Huarango (una specie di albero di carrubo), lucuma e radici. Due assaggi con ingredienti raccolti a 160 metri dal livello del mare.
L’assaggio successivo è fatto con ingredienti provenienti da 3500 metri di altezza.
“Lago de cordillera”: maswa (una patata delle Ande), anatra e zucca. I toni sono ancora dolciastri ma decisamente più montani.
“Diversidad de maiz”: mais, miele e tumbo (un frutto esotico simile al maracuja).
Accompagnata da un intenso e profumato leche de tigre al mais. Una portata mangia e bevi (120 metri di altezza).
“Selva alta”: Yacon (un tubero della Cordigliera delle Ande), baston e corteccia (860 metri). Un boccone materico. Molto particolare la consistenza del tubero. Una via di mezzo tra il calloso e il croccante.
“Escama de Rio” (180 metri): lumache di fiume, Gamitana (che wikipedia descrive come Colossoma macropomum, unico rappresentante del genere Colossoma, è un pesce d’acqua dolce appartenente alla famiglia Characidae), sangre de Arbol (una resina rossa ricavata da alcune tipologie di alberi, utilizzata come antinfiammatorio). Un assaggio eccezionale. Ricco di contrasti e consistenze. In pochi centimetri quadrati.
Una posata che precede il servizio del pane. O meglio, i servizi del pane.
“Altipiano y Ceja” (3900 metri, con prodotti reperiti ad altezza massima). Composto da tunta (un patata disidratata)…
…annato (una pianta amazzonica contenente betacarotene), preparato come una sorta di muffin…
…due diversi tipi di burro (di cacao e di ungurahui, un frutto di una palma amazzonica) che accompagnano…
…l’affascinante pane aromatizzato con foglie di coca bruciate. E’ il caso di dire, un sapore stupefacente.
“Suelo de mar” (20 metri sotto il livello del mare) ovvero molluschi, melone Pepino, lime. Ritornano i sapori marini, molto pronunciati ma con un bilanciamento acido/grasso da manuale, ma il protagonista, ancora una volta, è la consistenza dai tanti risvolti.
“Pieles de Arbol” (si risale a quota 2300): palta, loche, kiwi cha, ovvero, avocado, zucca e amaranto.
Ci vengono mostrati gli ingredienti del prossimo piatto.
“Tallo extremo” (2875 metri): Oca (ossalide tuberosa), mashwa (una patata gialla), sambuco. Una delle preparazioni più golose. Un piccolo viaggio intorno alla patata. Il sambuco dona misurata eleganza.
“Colores de Amazonia”(400 metri dal livello del mare): Paiche (pesce amazzonico), nocciolina di Bahaja, pijusyo, huito (due frutti tropicali dolci). Il piatto più ruvido. Il sapore del pesce è molto pronunciato. Un po’ faticoso a livello olfattivo. Il piatto meno convincente e bilanciato del percorso.
“Cosecha y Recoleccion”, in italiano “vendemmia e raccolto”. Uno dei piatti migliori. Si tratta di lattuga grigliata, capesante e granadilla. Le capesante (il sapore è magnifico) sono adagiate sulla lattuga, in perfetto contrasto tra caldo e freddo, morbido e calloso. Meravigliosa la salsa a specchio in accompagnamento, una riduzione di succo di granadilla, una via di mezzo tra la pesca e il frutto della passione, secondo molti il frutto con il più equilibrato sapore tra le cd. passifloraceae. Gli ingredienti di questo piatto si trovano allo stesso livello del mare.
“Pesca de Cercanìa” (10 metri sotto il livello del mare): polpo, corallo, Barquillo. Altro sapore eccellente. Grande qualità del polpo, appena colpito dal calore, ed eccezionale consistenza del corallo (in sfoglia).
Chiude il piatto una infusione di corallo. Dal profondo sentore marino.
Un cuore di manzo disidratato sul quale è adagiata una cialda al latte di manzo. Sono il preludio all’ultimo piatto salato.
“Cordillera baja” (più 1800 metri). È il piatto principale. Un gustoso filetto di manzo è ricoperto da una coltre di varietà di quinoa e semi di airampo (un cactus delle Ande), bagnati da un latte di quinoa (meraviglioso sapore).
Profumatissimo il primo dessert: “Bosque amazonico” (650 metri sopra il livello del mare) con melarosa, pitahaya, verbena e pepe dolce. Rinfrescante ed aromatico. Eccellente il sorbetto alla melarosa.
“Alturar verdes” (più 1050) Cacao e chaco (Green Highlands: Lucuma, Cacao) per gli amanti del cioccolato. Un piccolo viaggio intorno al cacao (di diversi tipi, in diverse consistenze).
Servizio che si chiude con un bicchiere di “cushuro”, un batterio che cresce ad alte latitudini. Per chi volesse approfondire (poco).
“Valle entre Andes” (2190 metri): radici, cirimoia, sacha inchi.
“Mucilago solar” (200 metri): piccola pasticceria fatta con cioccolato theobroma.
Chiude il tutto “Agua O.I.”, infuso straordinariamente aromatico di cedron (verbena odorosa).
Anzi, il Perù è terra di caffè. Buonissimo.
Cucina affollata.
L’ingresso del ristorante. Privo di insegna. Sebbene il quartiere di ubicazione “Miraflores” sia uno dei più esclusivi della città, a Lima di notte c’è sempre da tenere gli occhi aperti.
Gaston Acurio è il più famoso cuoco sudamericano nel mondo.
Più che un cuoco è un vero e proprio imprenditore, con quasi cinquanta tra ristoranti, bar et similia. A memoria, non ricordiamo altri chef, direttamente coinvolti in attività d’impresa, con questi numeri.
Basta fare un giro in alcuni dei suoi ristoranti in Perù, che sia in un bistrot o nel ristorante di punta, per capire che siamo di fronte ad un fenomeno della ristorazione. Locali pieni in qualsiasi giorno della settimana, doppi o tripli turni. Brigate numerose e preparazioni, alcune volte anche complesse, eseguite a ritmo incessante. Una macchina da soldi, prima ancora che un impero gastronomico. Questo è Acurio.
Il perfetto esempio del suo successo è la cebicheria La Mar, aperto da mezzogiorno in punto fino alle 17:00 tutti i giorni, in cui vengono consumati chili e chili di pesce e crostacei di giornata (ed ecosostenibili). Un concetto di eclatante successo, a cui diversi imprenditori e catene alberghiere di lusso hanno fatto la corte, per replicarlo nelle loro città.
Al La Mar non si accettano prenotazioni, ma se si vuole evitare la fila si può arrivare verso le 14:30, come abbiamo fatto noi un tranquillo martedì di agosto. Ciononostante, il locale straripava letteralmente di clienti.
Tre postazioni differenti (crudi, fritti o cucinati, forno a legna per le padellate ed altro) e dislocate per tutto il locale, una sorta di grande dehors coperto. Il pescato del giorno, che, come detto, arriva da una apprezzabile e certificata pesca locale sostenibile, viene preparato in tutte le declinazioni possibili e immaginabili, a cominciare dal crudo, vero fiore all’occhiello di questa -non a caso si chiama così- cevicheria. Ma la carta rimanda anche ad altre cucine che hanno influenzato questa terra (dal riso alla pasta) nonché allo street food locale; il famoso “sanguchito” qui viene preparato con pesce e crostacei.
Il cliente viene anche accontentato qualora avesse particolari richieste per preparazioni e cotture non presenti in carta. L’encomiabile flessibilità va di pari passo con l’efficienza e la cortesia del servizio che, salvo rare eccezioni -come nei locali targati Acurio o in pochissimi ristoranti di fama mondiale-, in questa nazione è ancora molto indietro rispetto all’Europa, all’Asia e all’America del Nord.
L’assaggio della degustazione de “los 3 cebiches clásicos” è imperdibile: pesca del día, mixto, nikkei, la cui freschezza del pescato è disarmante.
Meno entusiasmante ma comunque gustose sono le preparazioni cucinate come El Pan con chimbombo (con calamari fritti in pastella) e la Empanadas Cangrejo y langostinos.
Altro piatto imperdibile è la “chalana”: degustazione di “causas”, ovvero patate condite con diverse salse e pesci, una delle icone dei piatti oceanici peruviani.
Se si vuole esagerare, infine, potete apprezzare l’abbondanza del contenuto della “Plancha”, con uno sfrigolante quantitativo, tra tonno, polpo, vongole e altro. Tutto ad un prezzo parecchio conveniente, anche grazie al piacevole cambio soles/euro.
Insomma, abbondanza, qualità e spensieratezza: questi, a nostro avviso, sono i dettami di La Mar, un luogo in cui ogni giorno va in scena una vera e propria festa. Un posto imperdibile anche solo se siete di passaggio da Lima.
Lo snack: mais croccante salato.
Pelle cangiante, occhio vivo ancora gonfio. Chissà se è fresco…
Platano fritto con salsine.
In azione dietro la postazione crudi/ceviche/tiradito/causa.
Los 3 cebiches clásicos.
Pescato del giorno.
Misto.
Nikkei.
La “chalana”: degustazione di causas.
Empanadas Cangrejo y langostinos.
L’impegnativo Pan con chimbombo (con calamari fritti in pastella) servito con patate dolci fritte.
Gustato con una buonissima IPA locale.
L’imponente e sfrigolante padellata di pesce e crostacei.
E per gli impavidi: chocolate fudge cake! Bomba calorica inaudita.
Con un timido gelato alla vaniglia.
Il pescato esposto.
La sala.
L’ingresso.
Lima, dieci milioni di abitanti. 43 quartieri, altrettante amministrazioni comunali. Città architettonicamente eclettica e tangibilmente pericolosa.
In un posto così, il fascino di spostarsi da un quartiere residenziale, benestante e relativamente tranquillo, in una delle zone poco raccomandabili della città è grande, soprattutto se ci si reca appositamente per provare un piatto di pesce crudo marinato, cucinato da un emigrato cinese ultra settantenne, in casa sua (perché di una casa -blindata- si tratta).
Forse in pochi conoscono Javier Wong, una leggenda a Lima, una sorta di -fatte le dovute proporzioni- Jiro Ono peruviano.
Considerato il genio del ceviche, preparato esclusivamente con polpo, un pesce bianco di grossa pezzatura (spesso un rombo), cipolla rossa, lime e pepe nero. Questa è la semplicissima ricetta cult che dieci clienti al giorno possono apprezzare da “Chez Wong”.
Un luogo che è tutto un programma: aperto solo a pranzo, situato nel quartiere La Victoria (distante una quarantina di minuti dai quartieri trendy di Miraflores e Barranco e dal centro storico), nessuna insegna ma soltanto una porta di una casa con un usciere che fa un cenno ai tassisti spaesati mostrando al cliente l’ingresso di questo luogo.
Appunto una cucina di casa con pochi tavolini, tanti riconoscimenti appesi sui muri, un banco e un micro fornello adiacente a due bagni. Tralasciando volentieri le dubbie misure sulle norme igieniche, l’esperienza in un posto così peculiare è unica e irripetibile. Qui vi accolgono con un certo distacco, quasi con menefreghismo, non vi chiedono cosa volete mangiare ma soltanto se volete acqua, Coca Cola, birra o una stucchevole Inka Cola.
Non ci sono prezzi nè menù. Non c’è nient’altro che un “one man show” che prepara il miglior ceviche di sempre. Dosato ed equilibrato in tutte le componenti. Un rombo di incredibile sapore, un polpo dalla consistenza fantastica, una cipolla dolcissima ed una marinatura tutt’altro che aggressiva. La pulizia, la sfilettatura del pesce, il taglio a memoria della cipolla e delle verdure come se fossero usciti da una mandolina. Preparazioni di pochi minuti, davanti al commensale, ed immediato servizio.
Dopo il ceviche seguono altri due piatti “calienti”, cucinati in un wok incandescente, con il medesimo rombo da 8 chili, poi basta.
Tre piatti, stessi ingredienti, tre sapori totalmente diversi. Sapori dal raro equilibrio, a tratti sorprendentemente raffinati.
Il tutto per una trentina di euro per persona.
Bisogna solo telefonare e prenotare prima di arrivare. Altrimenti non troverete nessuno a farvi accedere alla casa-cucina di Wong.
Noi ci proviamo, ma crediamo che non siano abbastanza le poche parole e le foto per descrivere una esperienza così. Bisogna andarci per capire.
Il tavolino e la basica mise en place, da modestissima trattoria.
L’imponente pesce del giorno che sfamerà i dieci commensali.
Ecco l’intera sequenza fotografica della preparazione del ceviche.
L’insieme riposa per qualche minuto.
Ed ecco il risultato. Polpo, rombo, cipolla rossa, pepe nero e lime. Semplicemente fantastico.
Si ricomincia con una nuova portata. Vi chiederanno soltanto se gradite il piatto caldo e il sapore, dolce o salato.
Questa volta abbiamo melone cantalupo, champignon, funghi trombetta dei morti e biete.
Lo chef passa dal tagliere al wok incandescente.
Pochi secondi a fuoco alto ed ecco il secondo piatto. Sapore completamente diverso ma medesima intensità della materia prima. Tanto di cappello.
Infine vi chiedono se c’è ancora spazio per l’ultima portata, piccante. E lo chef si rimette al lavoro.
Ancora pochi secondi di wok ed ecco un altro eccezionale assaggio in perfetto stile cinese: ananas, salsa piccante, cipollotti e quinoa croccante.
La casa (blindata) di Wong.