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Il Carnasciale: la storia di un grande vino

Vino
Recensito da Gianluca Montinaro

La famiglia Rogosky e il Caberlot

Correvano gli inizi degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso. Wolf e Bettina Rogosky arrivano dalla Germania in Toscana, alla ricerca di un casale con un po’ di terra intorno. Un luogo ove la pace e il silenzio regnassero assoluti, dove i telefoni non squillassero e pure la posta facesse difficoltà ad arrivare. Lui, pubblicitario di fama internazionale in forza alla GGK di Düsseldorf (sue, in quegli anni, alcune delle campagne più importanti e di successo a livello europeo), aveva bisogno di tranquillità: un buen retiro ove nascondersi dalla logorante frenesia del lavoro. La coppia, nella loro personale recherche (che era, in fondo – come Proust ci insegna – anche una riappropriazione del proprio sé), gira a lungo, su e giù per i declivi toscani, alla ricerca di un luogo che rispondesse a tali requisiti. Fintantoché per caso giungono nei pressi di Mercatale, sulle colline che segnano il crinale fra il Chianti e la Val d’Arno, a poche centinaia di metri da Petrolo. Qui viene loro segnalato che, in mezzo a un bosco, c’è in vendita una vecchia casa. Non c’è la strada per arrivarci, però. Né la luce. Né tutte le altre comodità del mondo moderno. Solo un sentiero da percorrere a piedi. Verso un rifugio. Verso una nuova avventura. I coniugi Rogosky non ci pensano un attimo: è la dimora giusta per loro! La casa viene acquistata, insieme al suo terreno (meno di mezzo ettaro), piantato a olivi. Nell’inverno del 1985 si abbatte su quelle colline una tremenda gelata, passata alla storia, che fa strage di quei poveri alberi. La Regione Toscana dà quindi la possibilità, a coloro che hanno subito danni, di convertire l’oliveto in vigna. I Rogosky, che già da tempo avrebbero voluto cimentarsi nella produzione di vino, non si lasciano sfuggire l’occasione. Ma cosa piantare? Sangiovese, come tutti? O un ‘banale’ vitigno internazionale? Geniale e creativo Rogosky vede svantaggi e difficoltà in entrambe le possibilità: la prima lo avrebbe messo in competizione con aziende che hanno secoli di storia e conoscenze alle spalle. La seconda sarebbe stata un ‘tradimento’ del terroir toscano in favore di uve che hanno altrove la loro patria d’elezione. Si deve trovare una terza possibilità: fare un vino unico, frutto esclusivo della terra che circondava la propria casa. Un vino che non avrebbe avuto alcuna possibilità di paragone.

I Rogosky si ricordano che poco tempo prima, grazie all’amico enologo Peter Schilling, avevano avuto occasione di assaggiare un vino creato da un altro enologo, Vittorio Fiore, prodotto da un vitigno ignoto denominato L32. Dietro questa sigla si nascondeva un incrocio naturale, scoperto negli anni Sessanta in una vigna abbandonata sui Colli Euganei dall’agronomo Remigio Bordini, fra – come si capì in seguito – Cabernet Franc e Merlot. Schilling, insieme a Fiore, convincono i coniugi Rogosky a sperimentare questa varietà sulla quale nessuno aveva ancora deciso di puntare. Wolf, con la sua grande genialità e creatività innata, battezzò il vitigno Caberlot: un unicum assoluto, dall’immenso potenziale, coltivato (a tutt’oggi) solo qui. Una sorta di ‘dono’: da comprendere e da comunicare. Nasce così la storia de Il Carnasciale, una delle cantine d’eccellenza del nostro Paese, e del suo mitico vino: Il Caberlot.

Davanti casa viene impiantata la vigna, ad alberello e con una distanza minima fra una barbatella e l’altra, su un terreno ove solo i primi venti centimetri sono di galestro e alberese, e che al di sotto è roccia. Sono anni di sperimentazione e, benché la prima annata prodotta de Il Caberlot sia del 1988, la commercializzazione vera e propria parte nei primi anni Novanta. C’era tanto da capire: il comportamento delle viti (il Caberlot ha rese bassissime ed è assai sensibile alle malattie), il loro sviluppo, il rapporto fra il terreno e la pianta, l’influenza del microclima. E poi, in cantina, tutte le pratiche più giuste per avvicinarsi sempre più alla perfezione. Negli anni, di pari passo alla stabile affermazione de Il Caberlot fra i più eccelsi vini d’Italia (la scarsità della produzione – pochissime migliaia le bottiglie, numerate e solo in formato magnum! – non fa che aumentarne l’aura leggendaria), la famiglia Rogosky (che, dopo la scomparsa di Wolf, avvenuta nel 1996, è ora rappresentata da Bettina e da suo figlio Moritz) acquisisce e impianta nuove vigne, adesso cinque (per un totale di cinque ettari, posizionate in un raggio di venti chilometri dall’azienda), scelte secondo principi d’eccellenza per terreno e caratteristiche pedoclimatiche. Anche i sistemi di allevamento cambiano a seconda del luogo, passando dal cordone speronato, al guyot, all’alberello con il solo fine di ottenere un’uva che sia sinonimo di pregevolezza assoluta. Altre date segnano poi un percorso fatto da ulteriori piccole svolte. Nel 2000 appare la seconda etichetta della cantina: Il Carnasciale. Nel 2013 ecco le prime (poche) bottiglie de Il Caberlot in formato 0,75 litri, battezzate da Moritz «demi-magnum». Nel 2015 si terminano i lavori della nuova cantina, che oggi affianca quella ‘storica’ posta sotto l’antico casale. E sempre nel 2015 appare una terza etichetta: Ottantadue (Sangiovese in purezza), da una vigna di poco più di un ettaro impiantata nel 2004.

Per comprendere Il Caberlot, al di là del suo fascino misterioso, si deve fare una premessa. Il Caberlot è un vino frutto di assemblaggio, e l’assemblaggio muta di anno in anno. Le cinque vigne, ognuna delle quali presenta specificità del tutto proprie, sono vendemmiate a lotti (in genere da venti a trenta, variabili a seconda dell’annata), nell’arco di circa tre settimane, secondo un principio rigoroso: «l’acino che non sei disposto a mettere in bocca non metterlo in cassetta». Le fermentazioni, tutte separate, avvengono in acciaio, per un periodo di tempo variabile (da quindici giorni a un mese) e a temperatura controllata variabile, a seconda del singolo lotto. E giorno per giorno viene effettuata, rigorosamente a mano (anche per rendersi conto dell’evoluzione della fermentazione), la follatura, stando ben attenti a che l’estrazione non sia eccessiva. Quindi ogni singolo lotto delle tre vigne più vecchie passa in barrique (che sono nuove, all’incirca, per il 70%) a bassa tostatura e di diversa provenienza (quest’ultima viene scelta in base alle caratteristiche del lotto stesso, al fine di enfatizzare le qualità del varietale; e ciò ha comportato, per Il Carnasciale, la necessità di stabilire rapporti privilegiati con alcuni dei più importanti produttori di botti e barrique i quali assicurano l’invio dei legni anche all’ultimo momento). Mentre i lotti delle due vigne più giovani – 2013 e 2016 – vengono affinati in botte grande. Il vino (trasferito nella cantina storica) sosta in botte piccola per circa diciotto mesi, ove compie naturalmente la fermentazione malolattica. Terminato questo primo affinamento (si è, in genere, in aprile) si procede a una degustazione alla cieca di ogni singolo lotto. Quelli che sono giudicati di qualità superiore sono destinati a Il Caberlot: assemblati e imbottigliati sostano ancora sedici mesi in bottiglia. Gli altri lotti sono invece destinati alla seconda etichetta, Il Carnasciale: vengono assemblati al vino che ha affinato in botte grande che, una volta imbottigliato, rimane in cantina per altri sei mesi. Ciò significa che, anno dopo anno, Il Caberlot nasce solo da quelle uve, le migliori in vigna, che hanno fatto il miglior affinamento in botte. E che, non per forza, l’anno successivo, saranno di nuovo le medesime. Ciò significa anche una estrema discontinuità nei numeri produttivi. Nelle annate migliori è probabile che siano prodotte più bottiglie de Il Caberlot e meno de Il Carnasciale, e viceversa in quelle più sfortunate.

La degustazione

Come di prassi avviene nelle più celebri cantine di Francia, la degustazione, guidata dall’enologo dell’azienda, Marco Maffei, insieme al suo braccio destro Tommaso Fanetti, e alla presenza, del tutto inusuale di Moritz Rogosky, si è svolta spillando il vino (annata 2021) direttamente dalle barrique, ben prima quindi che abbia portato a termine il suo ‘percorso di formazione’. Ovvio che chi – come chi scrive – conosce Il Caberlot limitatamente alla sua vita in bottiglia – nelle diverse fasi della fresca giovinezza, della completa pienezza e della affascinante e sontuosa maturità (perché Il Caberlot è un vino cha va aspettato!) – possa nutrire qualche titubanza verso un vino ancora ‘infante’. Eppure, eppure… alcuni elementi già affascinano, anche perché è proprio da una analoga esperienza di assaggio di vini provenienti da terreni, altitudini ed esposizioni differenti che, ogni anno, nasce Il Caberlot.

Il primo assaggio è stato compiuto da un lotto proveniente dalla seconda (in ordine di tempo) vigna impiantata. Questa si trova su un terreno a forte prevalenza sabbiosa, con ampi strati di calcare e arenaria sottostanti, dovuti a depositi alluvionali, in un’area ove, in antiche ere geologiche, insisteva un lago salato. Il vino, che si presenta nel bicchiere di un impenetrabile rosso rubino e con la ‘giusta’ consistenza, propone un prospetto aromatico decisamente trasversale. Si avverte la croccantezza di piccoli frutti rossi, sentori erbaceo-balsamici, tocchi floreali (questi, invero, ancora scomposti), un pungente sottofondo di pepe nero (tipico del vitigno Caberlot) e una mineralità complessa e finissima che pare avvicinarsi al silicio. In bocca prevalgono le sensazioni dure ma il tannino è già assai levigato, e le morbidezze si avvertono in tutta la loro complessità. Il vino è lungo, teso e pulitissimo sino in fine di bocca. Esce avvolgente, con una fresca setosità che ne mostra tutto il carattere e la vaglia.

Il secondo assaggio è invece avvenuto dalla botte ove affina uno dei lotti della ‘vigna vecchia’, la prima impiantata nel 1985. Questo Caberlot si presenta in modo assai differente. Se uguali – infatti – sono colore e consistenza, differiscono il bouquet aromatico e le sensazioni gusto-olfattive. Il primo appare assai leggiadro, e quasi provocante. I frutti rossi paiono virare sul sottobosco, nella balsamicità dell’erba si avverte un tocco di picciolo di peperone, le violette si confondono con il pepe e la mineralità appare più da ciottolo che da pietra. Al sorso il vino sembra aver già raggiunto un incredibile, stupefacente equilibrio. La facilità della beva (il tannino è già integrato e la spinta acida ben modulata dalla morbidezza) si allunga nel centro e in fine di bocca, distendendosi poi ai lati con complessità e inusitata finezza. Il vino appare di corpo, ma senza pesantezza: anzi si mostra snello e dall’eleganza assai stilosa, e già sofisticata.

Si è poi passati ad assaggiare, questa volta dalla bottiglia, Il Carnasciale 2020. Etichettarlo semplicemente come la versione minor de Il Caberlot sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato. È, piuttosto, un modo differente (più ‘approcciabile’, se proprio lo si vuole dire) di interpretare il vitigno. Se Il Caberlot dà il suo meglio dopo un affinamento di qualche anno, Il Carnasciale è capace di esprimersi al top in tempi più brevi. Il prospetto aromatico, di gran impatto e complessità, abbraccia tutte le declinazione del suo fratello maggiore (frutta, erba, fiore, minerale, spezia) senza però perdersi nelle sue atmosfere rarefatte e cangianti. Qui i profumi, infatti, appaiono dalle linee ben definite, tratteggiati con cura e mano felice. In bocca Il Carnasciale si propone in molteplici avvolgenze date da una struttura polialcolica di grande importanza. Su questa, come fosse una tela, si dipanano i colori di una modulata freschezza, di un assai setoso tannino e di una mineralità profonda e qualitativamente assai fine. Il vino, che procede in bocca con composta eleganza, chiude lungo e assai raffinato, invogliando – quasi con occhio complice – al sorso successivo.

La degustazione si è quindi conclusa con la terza etichetta: Ottantadue (annata 2019). Si tratta di un Sangiovese in purezza, vinificato in vasche di cemento e affinato in acciaio per poco più di un anno. «Quando Wolf Rogosky – ci ha detto Marco Maffei – ha intrapreso l’avventura de Il Caberlot lo ha fatto perché voleva produrre un vino del tutto differente, unico, rispetto a ciò che si faceva in queste terre. Ecco, con Ottantadue abbiamo azzardato la stessa scommessa: produrre un Sangiovese diverso». Delusi quindi tutti coloro che si aspettano un Sangiovese in stile Chianti, Ottantadue (il nome deriva dal numero civico che contraddistingue il Podere Il Carnasciale, peccato però che non ci siano numeri civici precedenti e successivi!) è un vino in stile Beaujolais. Quindi di approccio ‘facile’, dai begli aromi fruttati e floreali, dalla spiccata freschezza, dall’estrazione assai moderata e dal tannino molto levigato. Ciò non significa però che non sia un’etichetta dalla identità precisa e dal portamento definito. Il naso, che si contraddistingue per la ciliegia, il lampone, la fresca e balsamica macchia mediterranea, spicca per le belle e nette sensazioni minerali (grafite e soprattutto carbonio). In bocca colpiscono la croccante succosità e ancora il fine minerale, ben bilanciati dalle sensazioni caloriche e pseudocaloriche. Anche la chiusura è netta e pulita, con un bell’allungo fruttato in fine di bocca.

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