Le Puy
Una storia di quattro secoli
1610. A Parigi viene pugnalato a morte da François Ravaillac, un fanatico cattolico, Enrico IV, re di Francia, primo sovrano della dinastia dei Borbone. 1610. Un tale signor Amoreau pare abitare – così recitano antichi documenti d’archivio – sulle terre che circondano una località di nome Le Puy, nei pressi di Bordeaux. 2022. I Borbone hanno perso troni, teste, regge e ricchezze. 2022. Gli Amoreau, ora alla sedicesima generazione (!), continuano a vivere in pace, nel loro microcosmo, a Le Puy. Se non fosse che chi scrive è un convinto liberale di solida formazione crociana, verrebbe subito in mente un aforisma di Mao: «La Storia è il sintomo della nostra malattia». Malattia di cui si può morire, certo. Ma da cui si può anche uscire più forti. Oppure, tertium datur questa volta, malattia da cui non farsi infettare.
Questa pare la scelta, sublime e atarassica, degli Amoreau. Da sempre lì, novelli Buendía di Macondo, a presidiare il territorio di Le Puy: un luogo dal fascino millenario, ove insistono – nascosti fra i boschi – alcune strutture megalitiche risalenti a ben tremila anni prima dell’avvento di Nostro Signore. Strutture misteriose, e mai ben studiate (per gli Amoreau è più importante salvaguardarne l’esistenza che capirne “scientificamente” il significato), che con la loro articolazione ad altare è ipotizzabile possano avere avuto a che fare con primitivi culti druidici legati alla Grande Dea (la Terra) e all’energia geomantica.
Le Puy si erge a dieci chilometri a Nord-Est di Saint-Émilion, sul punto culminante della Gironda, a circa 107 metri sul livello del mare, sul medesimo plateau calcareo che nutre le vigne più celebri del Libournais. Qui, ove per poco non giungono le AOC satelliti della cittadina famosa nel mondo per i suoi Cru Classé a base Merlot, gli Amoreau fanno vino da oltre quattrocento anni. Una storia che può sembrare non inusuale in questa landa che proprio quattro secoli fa iniziava a essere nota per il suo vin clairet, all’epoca perlopiù spedito su velieri in Inghilterra. Sennonché la “nostra” famiglia ha mostrato di operare scelte in controtendenza sin dal 1640 – sempre così recitano i documenti d’archivio – indirizzandosi “naturalmente” verso un modo “naturale” di coltivare la vite e accentuando una visione autarchica del fare vino, in una progressiva simbiosi fra uomo, animali e natura.
Da quattro secoli, a Le Puy, la terra è lavorata da buoi e cavalli. Da sempre la loro biada è prodotta dai prati circostanti le vigne. E il ricco concime che le fertilizza è da sempre il letame prodotto da quegli stessi animali. In questo microcosmo (ove persino le botti sono autocostruite), nel corso dei decenni e quindi dei secoli, gli Amoreau hanno compreso che quegli animali che lavorano la vigna fanno essi stessi parte dell’ecosistema di Le Puy, perché sono nutriti – e a loro volta nutrono… – con quelle erbe spontanee che lì nascono. Erbe che, quindi, non vanno combattute con erbicidi e pesticidi ma preservate come patrimonio del medesimo ecosistema. E con quelle erbe vanno salvaguardate pure le api, che impollinano, e con loro gli altri insetti che “muovono” la terra. E quindi gli alberi, ove trovano rifugio gli uccelli che gli insetti in soprannumero mangiano. E il ruscello, con la sua acqua. E lo stagno, coi suoi pesci. E… e… e…
«Alla fiera dell’Est» potrebbe cantare il menestrello Branduardi, salvo che qui non siamo di fronte a una teleologia («ma infine il Signore…») ma alla maturazione, ogni giorno sempre più consapevole, di una visione eterna e complessiva di rispetto di un ecosistema – un biotopo complesso – in ogni sua forma e manifestazione.
Così, per esempio, già nella prima metà del XIX secolo, le viti a Le Puy venivano lasciate libere di svilupparsi in altezza (oggi diremmo con sistema a pergola) perché – naturalmente – è il loro modo per proteggersi al meglio dalle rigidità invernali. Negli stessi anni Barthélemy Amoreau si interrogava sull’opportunità di aggiungere o meno solfiti al vino, per prevenirne i fenomeni ossidativi. E un secolo più tardi, nel 1924, Jean Amoreau, prendeva la decisione di non utilizzare alcun preparato chimico nella coltivazione (e ancora oggi, per rafforzare l’apparato immunitario della vigna, gli attuali esponenti della dinastia Amoreau impiegano preparati naturali a base di ortica, achillea e altre erbe).
In tempi più recenti, queste scelte operate nei secoli, hanno trovato un primo “riconoscimento” ufficiale: nel 1964 Le Puy diviene uno dei primi chateaux bordolesi a essere certificato biologico. Ma, sin da subito, questo riconoscimento è stato ampiamente superato nei fatti perché gli Amoreau delle ultime generazioni – Jean-Pierre e Pascal – si sono resi conto che ciò che la loro famiglia ha sempre portato avanti è pionierismo assoluto, ben oltre il biologico e ogni discorso di sostenibilità ambientale, e può essere paragonato ad approcci improntati alla biodinamica più stretta e alla permacultura più all’avanguardia.
In una visione così complessa il vino, epifenomeno ultimo dell’universo di Le Puy, passa in secondo piano rispetto al resto. Perché anch’esso è il risultato di una serie di fattori “naturali” che l’uomo non può – e non deve, secondo gli Amoreau – forzare in alcun modo (e difatti è capitato che in alcuni anni non sia stato prodotto, o in altri non imbottigliato, o in altri ancora non messo in commercio). Le conseguenze di queste scelte “controcorrente” sono state prima l’uscita dall’appellation di riferimento (Francs – Côtes de Bordeaux) e quindi la rinuncia alla denominazione “chateau” che sino a una quindici di anni fa precedeva il nome del domaine. Le Puy attualmente produce circa duecentomila bottiglie, spalmate su sette etichette. Di queste ben oltre 150.000 sono quelle del vino rappresentativo, Émilien. Seguono, con numeri a volte assai ridotti, Barthélemy, Retour des îles, Blaise-Albert, Marie-Cécilie, Marie-Élise, Rose-Marie.
Expression originale du terroir
Come sono i vini che di Le Puy? Cosa nasce da quei cinquanta ettari di vigna, inframmezzata da altri cinquanta ettari di terreno vergine e selvaggio che preserva la biodiversità biologica di Le Puy?
Alle domande si è trovata risposta nel corso di una degustazione organizzata a Milano, presso Velier, l’importatore italiano di Le Puy, e condotta da Émeline Callet, responsabile commerciale della maison. In quest’occasione si sono potute assaggiare quattro etichette: il rosé Rose-Marie (annata 2021) e i tre rossi più rappresentativi: Émilien, Barthélemy e Retour des îles, rispettivamente nelle annate 2019, 2014 e 2000 il primo, 2018 e 2010 il secondo e 2018 il terzo. In linea generale si può dire che i vini di Le Puy sono “vini autentici”, che «davvero esprimono il terroir». E che sono vini “tradizionali”, nel senso che nascono da pratiche di cantina assai limitate («nelle cantine di Le Puy si fa quello che si è sempre fatto: poco»). Così, per esempio, il mosto non fermenta ma, secondo gli Amoreau, «subisce una infusione». Il rimontaggio è naturale. E il bâtonnage è sostituito da una (assai simile) operazione di «dinamizzazione», operata – come del resto tutti gli altri momenti – nel rispetto delle fasi lunari e del calendario delle semine e dei raccolti di Maria Thun.
Ovvio è che, a fronte di tanto background (che si è qui ultrasintetizzato per sommi capi), i vini siano tutt’altro che scontati e che necessitino di una certa apertura mentale per essere apprezzati, perlomeno da coloro che bevono “tradizionale”. Ma anche da coloro che, per moda, deglutiscono solo vini con puzzette, riduzioni et similia. Questo perché la produzione di Le Puy è comunque una produzione “approcciabile”, “comprensibile” e sin quasi “classica”. Niente odori strani, quindi. Né torbidezze. Né spunti.
La degustazione
La degustazione si è aperta con il rosé Rose-Marie 2021, dall’intensissimo color chiaretto (ottenuto da un contatto di 15 minuti con le bucce). Il naso è generoso, virato decisamente sulla croccantezza di frutti rossi come fragola, lampone e ciliegia. In bocca pare irruento ma le spigolosità date dalle note acide e minerali si ammorbidiscono presto sulla sensazione calorica (13%) che anzi, alla fine, pare vincere sul resto. Un rosé decisamente pensato pour la gastronomie, come dicono i francesi, e che – almeno nella struttura – pare voglia avvicinare il celebre Chateau Simone provenzale, della AOC Palette.
Più equilibrati sono invece gli Émilien, nelle annate 2019, 2014 e 2000 (quest’ultime due da bottiglie ex chateau assaggiate, rabboccate e ritappate, secondo una pratica che gli Amoreau adottano per tutte le vecchie annate che saltuariamente vengono rilasciate in commercio). Il vino, blend di Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Malbec e Carménère (85%, 7%, 6%, 1%, 1%), ben rappresenta tutto il variegato terroir di Le Puy e le sue varietà ampelografiche. Affinato un anno in barriqueCon "barrique" si intende una piccola botte di legno adatta all’affinamento di vino dalla capacità compresa tra i 225 e i 228 litri.... Leggi e un anno in botte grande, è di un bel rosso rubino impenetrabile, leggermente tendente al granato solo nel 2000, e di una certa consistenza. Al naso presenta un ampio ventaglio di aromi fruttati, leggermente evoluti e accompagnati da una nota ossidativa di fondo (peraltro riscontrabile, come da stile della maison, anche nelle successive due etichette), mentre la sensazione minerale vira da una certa ferrosità a un tocco di affumicato. Se al naso le tre bottiglie appaiono in una forma abbastanza simile (ovvero non si percepiscono, nel 2000, palesi note evolutive), ciò è ulteriormente confermato dall’esame gusto-olfattivo. Il 2019 sembra essere più “vecchio” del 2000, in una sorta di sindrome di Benjamin Button.
I tre vini, dal forte impatto estrattivo, risultano morbidi e caldi e quasi con un nonnulla di zucchero residuo a fronte di una acidità sì presente ma non soverchiante. Come il tannino, assai levigato. Ciò che invece pare far la differenza è ancora il minerale che appare più “debole” nel 2019 e nel 2014 rispetto al 2000. Il risultato è che l’annata del millennio sembra più giovane, in virtù di un maggior equilibrio, dato da una maggiore integrazione fra le parti morbide e il minerale finalmente in risalto.
Il cru della casa è il Barthélemy (85% Merlot, 15% Cabernet Sauvignon) frutto della vigna Les Rocs che sorge giusto in faccia allo chateau ottocentesco. Il terreno, composto da ciottoli di arenaria rossa, dà un vino dal carattere molto forte che pare ricordare certi Gigondas e Vacqueyras del Rodano. La generosità espressiva della materia è qui accompagnata da una ferrosità ben evidente e da una maggiore acidità rispetto all’Émilien. Al naso il frutto è croccante, tanto nel 2018 quanto nel 2010, e accompagnato da alcuni tocchi erbacei che paiono quasi balsamici. Al palato l’equilibrio fra morbidezze e durezze si allunga in un dialogo di contrappunti fra le sensazioni caloriche e morbide di alcoli e polialcoli e la freschezza e la sapidità quasi marina di acidi e minerali. Intenso e di una persistenza, senza difetti, il Barthélemy non è comunque un vino pesante: la struttura è di corpo, ben bilanciata ed armonica.
Decisamente curiosa è infine l’ultima etichetta degustata: il Retour des îles 2018. Prodotta in pochissime centinaia di bottiglie, null’altro è che un Barthélemy che… ha viaggiato per il mondo, per dieci mesi, percorrendo oltre ventimila chilometri! Sì, proprio così. Dopo un anno in cantina, quattro barrique sono state imbarcate, sotto coperta, su un vascello. Da La Rochelle, rigorosamente a vela, hanno fatto tappa alle Canarie, hanno poi attraversato l’Atlantico, fatto sosta in numerosi porti dei Caraibi per poi ritornare in Francia, al porto di Bordeaux. Cullato dalle onde, il vino contenuto nelle quattro botti ha “assorbito” l’energia di questi luoghi lontani: il calore dei tropici e i loro inebrianti profumi di droghe. In effetti il marino che si percepisce nel Barthélemy qui sembra amplificato. Come amplificati sono i profumi legati al legno (la spezia dolce e il tabacco sono ben evidenti). In bocca il vino risulta di un corpo superiore rispetto al suo gemello di terraferma, esprimendo quasi delle sensazioni legate al mondo dei Porto. Un vino “esperienziale”, quindi, che forse si presta più alla meditazione che alla tavola.