Passione Gourmet El Carner di Domaine Matassa & Il Mediterraneo - Passione Gourmet

El Carner di Domaine Matassa & Il Mediterraneo

Vino
Recensito da Gae Saccoccio

Il mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali. […] Sul mediterraneo è stata concepita l’Europa.

 Predrag Matvejević 

Europa mediterranea

El Carner Rouge 2019 del Domaine Matassa di Tom Lubbe, neozelandese a Montner nella Côtes Catalanes (Languedoc-Roussillon), è ottenuto dalla vinificazione di Grenache Gris e Macabeau da un mezzo ettaro di vigne centenarie coltivate sulle colline di Fenouillède stratificate di calce, argilla, ardesia. Le uve a bacca bianca eppure definite Vin de France Rouge in etichetta probabilmente perché il colore ambrato/orange non è contemplato dalla burocrazia francese del vino, sono macerate per un mese in anfore di terracotta prodotte in Italia, anfore entro cui il vino resta per altri otto mesi ad affinare. El Carner in lingua catalana è l’ariete. Come l’ariete il sapore di questo vino è altrettanto primordiale, misterioso, meticcio. Vino fibroso da azzannare come un frutto maturato sulle coste meno esplorate del Mediterraneo. El Carner è un vino sinestetico dove la volatile salmastra (che è una sensazione olfattiva) è armonizzata miracolosamente al tannino buccioso (che invece è una percezione tattile). Tempo fa stappando un vasetto di vetro pieno di bottoncini verdi riportato dalle Eolie, una fragranza erotica mescolata a sale marino, a terra arsa dalla canicola, alla salsedine delle scogliere battute dal Maestrale, ha inondato le mie narici con un afrore inequivocabile. Il profumo dei capperi ha il gusto indefinibile delle cose eterne, il sapore compiuto delle promesse mantenute, su questo non ci sono dubbi. Così come non ho dubbi sul fatto che quando percepisco la linfa della foglia di cappero, la tenacia ostinata del cucuncio, l’aromaticità dei capperi in un sorso di vino, ho subito la certezza di trovarmi davanti ad un bicchiere che rispecchia senza altri filtri i sentori assolati della macchia mediterranea, i tepori desolati della garrigue, la sapidità rinfrescante del maquis.

Mentre scrivo questi appunti rapsodici, ascolto non a caso un disco molto bello di Stefano Saletti & Banda IkonaMediterraneo Ostinato pubblicato per l’etichetta Finisterre.

L’album è cantato in Sabir, un idioma pidgin ovvero l’antica parlata con cui si comunicava nei porti del mediterraneo. Una lingua franca che univa insieme italiano, spagnolo, francese, arabo. Lingua parlata dai pescatori, dai marinai e commercianti uniti da un sentire comune, da un modo di essere, vivere e pensare le contaminazioni tra genti suoni popoli culture.

Anima de Moundo

Basta sfogliare a caso stavolta, una pagina del Breviario Mediterraneo (Garzanti 1991) di Predrag Matvejević, per capire che è un libro-mondo, un libro che è un mare d’intuizioni, riflessi, profondità, vortici, colori, fughe, tracciati, ritrovamenti, naufragi… cosi come la civiltà del Mare nostrum di cui racconta: “Un tempo i naviganti, avvicinandosi ai porti, osservavano i gabbiani che venivano loro incontro e da quei segni traevano spunto per farsi un’idea della riva alla quale stavano per accostarsi e ormeggiare. Il rapporto degli equipaggi con i gabbiani è uno degli antichi segreti (se di segreti devo parlare), soprattutto sul Mediterraneo, dov’è forse il più antico. (…) Sulle ragioni per le quali alcuni singoli lanternisti e guardiani di fari abbiano deciso di vivere in solitudine distribuendo luce intorno non è il caso di discutere.

Una delle immagini più incancellabili di tutta l’Odissea omerica è quando Ulisse, alla fine del Canto V, approda tramortito sulla costa dei Feaci dopo venti giorni passati in solitaria sulla spaventosa furia del mare, dopo aver fatto naufragio con la zattera che lo portava via da Calipso. In questo frammento, al di là della mitologia e dei simboli religiosi traluce, come un lampo nella notte dei tempi, quale fosse il valore essenziale del fuoco per le civiltà arcaiche: la cura possessiva delle braci, la custodia violenta della fiamma sacra per difendersi, per scaldarsi, per nutrirsi, per sopravvivere. C’erano anche i fuochisti – veri e propri fari umani – che segnalavano i pericoli e gli approdi lungo le coste. “Ai confini delle campagne, dove non c’è gente vicina, si usa nascondereil tizzone con fuoco sotto una cenere di frassino per proteggere così la scintilla cui accendere, e non andare altrove, magari lontano, a cercarne. Anche Odisseo così, avviluppato dentro le foglie.” Odissea, Traduzione di Emilio Villa

Terra che illude, mare che promette

A proposito di segreti svelati e del buio senza speranza nel quale siamo sprofondati tutti da quando non ci sono più in giro né lanternisti, né fuochisti omerici, né guardiani di fari, mi sento di integrare la sbevazzata di El Carner 2019 con un’altra lettura, consigliata soprattutto ai demenziali puristi della razza, a quei pietosi trogloditi del “prima gl’italiani”, ai fanatici ottusi della chiusura dei porti e delle frontiere. Agli analfabeti insignificanti devoti al mito del “sangue puro” a cui sfugge che il loro stesso sangue è composto da una mescolanza genetica inesorabile che va dai Berberi del Maghreb agli Arabi ai Saraceni ai Greci agli Ebrei e a tutti quei popoli che formano la nostra immensa civiltà mediterranea… una civiltà cioè radicata sul “sangue bastardo”!

Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia gli uomini e la tradizione. In questo volume memorabile pubblicato nel 1977 che raccoglie una dozzina di saggi firmati da storici d’eccezione (Braudel e Duby su tutti), suggerisco spassionatamente la lettura delle 20 luminose paginette a firma di Maurice Aymard intitolate: Migrazioni.

Dopo quattro millenni – o forse anche il doppio –, il Mediterraneo non ha cessato, fino a tempi molto recenti, di attrarre verso di sé gli uomini, di insediarli sulle sue rive e di “civilizzarli“. Ed è stato in questo modo rivitalizzato da questo continuo afflusso di sangue nuovo, che ha pagato con una storia brutale, scandita da distruzioni e saccheggi, da massacri e esili, da scontri sanguinosi tra comunità. Ma i nuovi venuti hanno presto messo in opera e diffuso le sue tecniche, i suoi modi di vita, i suoi culti, e a loro volta hanno sfruttato tutte le possibilità offerte dall’equilibrio tradizionale, benché fragile e instabile, tra agricoltura sedentaria e vita nomade delle greggi, tra la coltivazione non irrigata e l’addomesticamento sapiente delle acque, tra città e campagne, tra le risorse sempre troppo scarse di una terra che illude e quelle di un mare che promette.

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