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Storia della Fillossera

Vino
Recensito da Sofia Landoni

Un vissuto umano che la natura conosce

Eppure, c’è qualcosa di già noto che riecheggia in questo tempo difficile. Qualcosa che somiglia tanto a ciò che qualunque agronomo o enologo ha certamente studiato nel suo percorso formativo. Qualcosa che cambiò per sempre la storia della viticoltura e la sua genetica, le sue basi e le sue nuove espressioni di vita. Ci fu un dialogo fra l’uomo e la natura, quella natura che oggi continua armonicamente a sbocciare nel tempo primaverile della propria rinascita. Parrebbe inconsapevole di ciò che stiamo vivendo, la natura, ma invece, proprio lei ne è la più esperta.

Era la metà del 1800, quando i viticoltori francesi iniziarono ad osservare uno strano malessere delle proprie viti che le portava, da lì a poco, a una morte assolutamente incomprensibile. Un effetto domino inarrestabile iniziava a diffondersi in tutta la nazione, compromettendo significativamente la fiorente viticoltura francese della seconda metà dell’800. Scienziati e botanici osservavano queste viti ormai appassite senza riuscire a individuare la causa della loro sorte. Fu solo quando venne sradicata una pianta ancora viva, che il “nemico” si palesò: un minuscolo, millimetrico afide giallastro, o meglio, tantissimi afidi giallastri che parassitavano le radici. Passò ancora altro tempo, prima che botanici, scienziati ed entomologi arrivassero ad un’opinione condivisa circa il ruolo di questo insettino nella distruzione del vigneto di Francia. Gli fu dato il nome scientifico di Phylloxera Vastatrix, ossia “Fillossera devastatrice”, oggi conosciuto semplicemente come Fillossera. Poco più di un millimetro di insetto ebbe la capacità di mettere in ginocchio la viticoltura dapprima francese e, in momenti sequenziali, quella europea in toto.

La Fillossera, in realtà, esisteva già da parecchi anni in un’altra parte del mondo ed era conosciuta con tutt’altro nome. Era approdata in Europa dopo una lunga vita trascorsa in America, dove negli anni aveva stipulato una sorta di tacito accordo con le viti locali. Su di esse, infatti, la Fillossera arrecava danni solamente alle foglie, sulla cui lamina inferiore creava dei rigonfiamenti chiamati galle atti a contenere le uova. Benchè danneggiate, le viti americane si erano adattate con l’evoluzione alla presenza dell’insetto, al quale era impedito di attaccare le radici per via di un significativo spessore del legno, superiore a quello delle viti europee. Fu proprio l’apparato radicale, quindi, a costituire il tendine d’Achille della vite europea. Lì le popolazioni di afidi colonizzavano i tessuti apportando malformazioni che rendevano difficoltoso l’assorbimento e, al contempo, favorivano la suscettibilità verso altri agenti patogeni. Una combinazione letale, insomma, che portava l’organismo vegetale alla morte nel corso degli anni immediatamente successivi.

Ci fu un vero e proprio caos nel mondo della viticoltura e della scienza. Il problema era di eccezionale gravità, non solo per l’aspetto economico e produttivo della viticoltura, ma anche per un patrimonio vegetale e di biodiversità che stava estinguendosi sotto i colpi implacabili di un esserino difficilmente visibile a occhio nudo. I tentativi di lotta a questa epidemia entomologica furono tantissimi e i più disparati: dall’interazione con vari seminativi, alla compressione del terreno, passando per l’insabbiamento e l’allagamento. Quest’ultimo pareva dare risultati soddisfacenti, ma venne ben presto abbandonato per l’estrema difficoltà di realizzazione. Il tentativo di colpire i singoli parassiti che brulicavano sulle radici con gli insetticidi era una soluzione parziale e non sufficiente, poiché le uova svernavano nel terreno.

Tutte queste sperimentazioni e tutto l’impegno nella lotta alla Fillossera furono la conseguenza di una preziosissima sinergia umana, attuata fra tutte le voci in campo. La scienza, la politica e la pragmaticità dei viticoltori lavoravano insieme per studiare il da farsi e capire come affrontare quella che, per la viticoltura, era certamente una delle più grandi avversità di sempre.

La Fillossera superò i confini italiani sedici anni dopo: era il 1879. Dapprima presente al nord, si diffuse con rapidità e veemenza al sud, in particolar modo in Sicilia. La storia si ripropose analogamente anche qui. Incapaci di attingere dalle precedenti sperimentazioni, analisi e studi dei vicini, gli italiani cominciarono da capo il medesimo dibattito interno che aveva diviso e agitato l’opinione della scienza entomologica e botanica estera negli anni precedenti.

In tutto il mondo si era ormai giunti a un dibattito molto acceso, che condusse alcuni personaggi ad affrontare le divergenze più aspre in tribunale e che divise il mondo scientifico addirittura in due fazioni. Vi erano infatti coloro che sostenevano l’efficacia di un metodo chimico e coloro che vedevano l’unica possibile soluzione in un innovativo e rivoluzionario innesto con le viti americane.

Il ragionamento era semplice: se le viti americane manifestavano un fenotipo radicale capace di resistere agli attacchi dell’afide tanto da risultarne immune, perché non unire la porzione ipogea americana con quella fogliare europea? I motivi di contrasto a questa soluzione erano molti. L’idea di estirpare tutti i propri vigneti e reimpiantarli nuovamente con altre viti spaventava parecchio – e ragionevolmente – il mondo viticolo. L’implicazione economica sarebbe stata impressionantemente onerosa, la produzione relegata in un’attesa sospesa, l’esito di resistenza alla malattia, in fondo, non perfettamente certo, il dubbio che la diversità di apparato radicale potesse compromettere la qualità di quello fogliare e quindi la qualità del vino. Le obiezioni erano tante ma, specialmente dopo qualche anno, la strada dell’innesto si rivelò l’unica percorribile.

L’impossibilità economica a sostenere l’espianto e il totale reimpianto del vigneto costrinse numerose persone a cessare l’attività viticola o, in certi casi, a emigrare. L’impatto vegetale divenne quindi un impatto sociale e umano, di non irrisoria entità.

La creatività era l’unica ancora di salvataggio, per tutti, e l’unica possibilità di ripartire. Ci fu chi dovette reinventarsi in tutt’altro, chi variò la propria direzione di impresa agricola, chi vide estirpare le proprie viti – anche centenarie – per lasciare spazio a qualcosa di assolutamente incerto che rappresentava, tuttavia, una rinascita e una novità.

Ci fu anche chi studiò appassionatamente il mondo degli innesti e ne trasse, alla fine, il sapere che consentì ai viticoltori di riappropriarsi della propria scelta produttiva, approfondendo sempre di più un volto nuovo dello sconfinato mondo vegetale. Si analizzavano i portinnesti e i loro effetti, le loro variabili e le loro interazioni. Si studiava come realizzare al meglio quell’alchimistica unione di tessuti diversi e si assisteva, pian piano, allo sbocciare di nuovi individui. I portinnesti americani furono indagati sul loro territorio natìo e vennero mappati, analizzati, studiati e sperimentati senza sosta. Si giunse, infine, all’attualmente diffuso Portinnesto 41B, frutto dell’incrocio tra la Vitis Berlandieri e la vite europea.

Nulla di tutto questo fu immediato e neppure facile. Ciò che accadde fu storia e rivoluzione per il mondo viticolo e non solo. Oggi ci appare come un capitolo di narrazione lontana, ma all’epoca costituì un vero e proprio terremoto. Tutt’oggi il terremoto continua a spronare la curiosità del mondo scientifico vegetale. Tutt’ora abbiamo a che fare con un argomento in fase di studio. Tutt’ora assistiamo a sperimentazioni e scoperte continue, poiché assistiamo tutt’ora a quel terremoto che ci costringe a sollevare una gamba, perdere l’equilibrio e poggiarla di nuovo a terra, scoprendo in questo modo di aver fatto un passo in avanti.

1 Commento.

  • Giacomo1 Aprile 2020

    Molto interessante e significativo in questo particolare momento Grazie a chi lo ha pubblicato

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