Intervista a Luca Pezzetta

Le interviste trasparenti

Dopo l’uscita di “Piatti Chiari”, la guida realizzata da iliad e Passione Gourmet, abbiamo deciso di aprire un ciclo di interviste per dare voce ad alcuni dei vincitori del premio Piatti Chiari. Professionisti che lavorano ogni giorno su un’idea personale di cucina e di ospitalità, e che scelgono di legare la propria identità a un tema concreto: la trasparenza, dai prezzi alle materie prime, fino al rapporto con il cliente.

In questo primo incontro abbiamo parlato con Luca Pezzetta, che con Clementina ha costruito a Fiumicino un progetto capace di tenere insieme ricerca sugli impasti, attenzione al territorio e una visione molto chiara del lavoro in sala e in cantina.

Luca Pezzetta (Ph. Romanogmt)

L’intervista

Qual è stato il percorso che ti ha portato ad aprire la pizzeria Clementina e a renderla un vero e proprio laboratorio gastronomico?

Clementina nasce dopo un percorso ben definito. Io vengo da una famiglia di ristoratori da tre generazioni: l’Osteria di famiglia è nata nel 1902 e oggi mio padre porta avanti il progetto con idee nuove, anche se il concetto di base resta quello di casa. Mio nonno era pizzaiolo insieme ai suoi fratelli e faceva la pizza romana al mattarello.

Dopo la scuola alberghiera ho lavorato nelle cucine di mio padre, facendo un po’ di tutto. A un certo punto ho incontrato un cliente speciale: Gabriele Bonci. Veniva da noi spesso e mi disse: “Luca, vieni in laboratorio: ti insegno a fare pane e pizza, perché vedo che hai passione”.

Entrare nei suoi laboratori è stato uno spartiacque: mi sono appassionato agli impasti in modo totale. Ho iniziato a studiare tanto, tra libri e corsi, e a passare ore in laboratorio per imparare. Grazie a lui ho capito anche l’importanza dell’etica e della filiera delle materie prime, oltre alla ricerca su impasti e lieviti.

Sono tornato nell’osteria di famiglia e ho aperto una pizzeria “moderna”, lavorando su formati e idee allora poco comuni: dalla teglia a centro tavola al padellino, con un’impostazione diversa dalla pizza classica. Il progetto ha preso visibilità e riconoscimenti e, quando a Roma stava nascendo Birra del Borgo, chiamarono me e Bonci per gestire la pizzeria: l’idea era portare in città un lavoro simile a quello che stavo facendo nel ristorante di famiglia.

L’esperienza ha portato premi e risultati, e da lì si sono aperti anche consulenze, corsi e insegnamenti (anche all’estero). Poi, per scelte aziendali, i locali di Birra del Borgo non potevano proseguire e io ho dovuto guardarmi intorno.

In quel momento ho sentito l’esigenza di riportare il prodotto di mio nonno – la romana al mattarello – nel mio territorio. Così ho deciso di aprire Clementina, portandomi dietro anche alcuni collaboratori. È un progetto nato in massima economia, ma che ha avuto subito un riconoscimento forte.

Clementina mi ha permesso di esprimermi davvero: sugli impasti, sul progetto pizza e sulla degustazione. E, soprattutto, di raccontare il territorio in modo naturale, perché lì davanti al mare ti arrivano il pescatore e il contadino con la materia prima: a quel punto il racconto viene da sé.

I salumi di mare (Ph. Slevin)

Che idea di esperienza volete costruire per chi viene a mangiare da voi?

Vogliamo che chi viene da noi viva un’esperienza da pizzeria molto curata, con standard alti su servizio, materia prima e carta vini, ma con i tempi e le dinamiche della pizzeria.

Ci tengo a specificarlo perché da Clementina mi hanno sempre detto – clienti e critici – “Luca, ho fatto un’esperienza da ristorante, non da pizzeria”: per la materia prima, la carta vini, il servizio, la mise en place, la porcellana, la carta champagne. E allora ho voluto aprire un ristorante per dimostrare cosa significa fare ristorazione: Ippolito è il ristorante, Clementina è la pizzeria.

Mi interessava accompagnare i clienti e far capire questa differenza, anche perché una pizzeria ha dinamiche proprie: tre turni, tempi più serrati (in un’ora e mezza devi mangiare), un servizio formale ma snello e informale. Oggi, mentalmente, i clienti hanno più chiaro che Clementina è una pizzeria e che il ristorante è un’altra cosa.

È stata un’altra scommessa. Oggi a Fiumicino ho circa 50 dipendenti; con l’apertura di Milano siamo arrivati a 75. È diventato un progetto importante, ambizioso e molto imprenditoriale.

Cosa significa per voi il valore della trasparenza quando si parla di vino, ricarichi, etichette e rapporto con il cliente?

La trasparenza è fondamentale, perché l’onestà ti porta a vivere cent’anni: me lo diceva sempre mio nonno ristoratore. “Se siamo in piedi da cento anni è perché siamo sempre stati onesti verso il cliente”. Quindi la trasparenza è importantissima. La scommessa più difficile, forse, è dimostrare che c’è trasparenza, soprattutto in un periodo in cui i costi delle materie prime sono cresciuti tantissimo e la manodopera in Italia è folle rispetto a tanti altri Paesi.

Parlo di aziende sane: perché poi ci sono anche realtà dove questo non accade, dove magari i dipendenti sono pagati metà in nero e metà in busta paga. Ma se vuoi fare un’azienda sana, i costi sono enormi. Essere trasparenti significa divulgare la realtà: far percepire al cliente come stanno le cose in termini di costi, ricarichi e guadagni.

Secondo te dove sta andando oggi la ristorazione in Italia, tra inflazione, carenza di personale e nuove abitudini di consumo?

È un argomento che mi fa male, mi ferisce. È una preoccupazione che mi porto a letto la sera: mi mette paura. Ho 36 anni e sono cresciuto nella cucina di mio nonno e di mio padre, con tanti racconti del passato. Oggi vedo che la ristorazione in Italia sta andando sempre più verso una direzione che, per me, è la “morte” della ristorazione, anche se per altri potrebbe essere il futuro.

Per me la ristorazione è quella gestita dalla famiglia. E quando dico “famiglia” non intendo solo madre, padre e fratelli: intendo anche le persone che ci lavorano. Mio nonno aveva camerieri e cuochi per vent’anni, anche per cinquant’anni: io li chiamavo zii. Entravano a 14 anni e andavano in pensione lì.

Oggi, invece, i progetti – quelli veri – tendono a diventare sempre più industriali, automatizzati e ingegnerizzati: tante catene, tanta standardizzazione. Andiamo sempre più verso gestioni operative e aziendali che perdono quel fascino e quel “profumo” della ristorazione italiana. Magari per qualcuno è positivo, perché significa diventare più organizzati e “moderni”. Per me è quasi una delusione: la ristorazione italiana è diversa, è famiglia, è espressione, concetto, identità. E questo mi dispiace.

Qual è il tuo ristorante preferito e cosa prendi da quel modello per il tuo lavoro quotidiano?

Io stimo tutti, anche chi secondo me fa errori tecnici (secondo il mio gusto), perché se un progetto è vincente è vincente, e se c’è passione c’è lavoro. Come modello guardo tanti colleghi, ma sicuramente Chicco Cerea: è un caro amico e lo stimo tantissimo perché, oltre a fatturare cifre enormi, è uno che tutti i giorni si mette la giacca ed entra in cucina. Sua madre gira ancora tra i tavoli, i fratelli sono lì e lavorano duramente come il primo giorno, senza essersi mai montati la testa.

È una ristorazione genuina: dietro ci sono loro, c’è il palato, c’è il sacrificio, c’è il sudore. Quel sacrificio lo percepisci a pelle. Per me quello è un modello rarissimo: uno su un milione. Ed è un’immagine che dovrebbe fare scuola.

Il forno a legna di Clementina (Ph. Romanogmt)

Cosa vuol dire per te “cucina democratica” e in che modo questo principio orienta le vostre scelte, dai prezzi alla proposta in carta?

È un termine che può avere tante sfaccettature: democratico, sostenibile, gestibile… però bisogna fare attenzione. Torniamo al discorso di prima: la sostenibilità di un progetto, di un piatto, di un’azienda e del prezzo “democratico” deve essere legata a tutto ciò che c’è dietro.

Se dietro c’è lavoro, scelta di materia prima di qualità (che ha un costo) e così via, oggi fare una cucina davvero “democratica” in Italia è difficile. Forse riesci in contesti particolari – in un paese, in Abruzzo o in Calabria, dove ti fai il salume da solo e hai altri costi – ma nei centri città i costi sono tanti e la gestione è complicata. Quindi, sinceramente, non penso che oggi esista una cucina democratica che sia sostenibile con quel termine.

Perché avete deciso di proporre un menù degustazione anche sulla pizza (impasti, condimenti, salumi di mare) e cosa ti interessa raccontare con questo formato?

Hai fatto bene a farmi questa domanda perché è un argomento che prima non ho toccato. La pizzeria nasce come prodotto popolare: basso costo, semplice, senza fronzoli. Poi però, negli ultimi anni, tanti maestri – Bonci, Simone Padoan e altri – hanno rimesso su un piedistallo un prodotto popolare. La nuova generazione di pizzaioli ha fatto sì che diventasse anche un prodotto “d’élite”, nel senso che si è iniziato a portarlo al massimo livello. E questo è successo anche nella cucina.

Io penso che nel mondo della pizza esistano fasce e tipologie diverse, come nella ristorazione: c’è l’osteria, la trattoria, la trattoria moderna, il fine dining, lo stellato, il tre stelle. Nel mondo delle pizzerie dobbiamo accettare lo stesso: c’è quella “da battaglia” che magari fa un gran prodotto, c’è quella moderna, e poi c’è la pizzeria che vuole esprimere il massimo, quasi come un ristorante fine dining.

Fare una degustazione significa far conoscere chi sta “cucinando”. Oggi il pizzaiolo non è più quello che mette pomodoro e mozzarella: deve avere cultura, deve studiare, deve conoscere. Lo chef, per essere considerato di livello, deve saper fare tante cose e curare tutto: dalla cucina alla pasticceria, dal pane al servizio, dalla carta vini alla qualità di porcellane e posate.

La degustazione, per un pizzaiolo, è un modo per esprimere conoscenza e sapere. Può anche essere un flop se non hai cultura e fai cose che non funzionano, ma secondo me va fatta perché oggi i pizzaioli sono diversi: studiano, fanno panettoni, lievitati, sfogliati, sfilettano il pesce, fanno fondi, curano calici e posate. Insomma, è cambiato il mondo.

Luca Pezzetta (Ph. Romanogmt)

Come vedi evolversi il concetto di “pizza” nei prossimi anni, sia dal punto di vista dell’impasto e degli ingredienti, sia sul fronte degli abbinamenti?

L’evoluzione è quella che sta già accadendo: comunicare e divulgare che dietro una pizza c’è conoscenza. Nei prossimi anni ci sarà ancora crescita, di pari passo con la crescita del cliente: il cliente si educherà sempre di più a capire cosa c’è dietro. Un impasto non è “un impasto”: può avere mille differenze tra lievitazioni, farine e così via. Anche i topping devono avere un criterio.

Per me gli ingredienti non si buttano sopra e via in forno: vanno cotti separatamente, alla giusta temperatura e con il metodo più adeguato. Il cliente capirà sempre di più che, per esempio, in una boscaiola la salsiccia si cuoce in un modo e il fungo in un altro. Andremo verso una maggiore conoscenza da entrambe le parti.

Quale pizza del tuo menù secondo te rappresenta meglio la tua identità? Quella che ti fa pensare “questo sono proprio io”?

Sicuramente la Capricciosa di mare. È una pizza che nasce da un lavoro di tanti anni sulla maturazione del pesce. È una reinterpretazione della capricciosa di terra: sotto c’è un pomodoro che in realtà è un fondo ricco di umami, fatto con il collagene del pesce da scoglio; sopra c’è il prosciutto di mare fatto con i pesci del territorio e la bottarga di mare. È una pizza complessa, ma allo stesso tempo riconoscibile da tutti.

Capricciosa a mo’ di Pezz (Ph. Slevin)

Foto di copertina Ph: Slevin

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