C’era un danese… che gettò le fondamenta per il futuro della grande cucina in Norvegia
Con Maaemo, Esben Holmboe Bang ha segnato, praticamente in sordina, un punto di svolta nella ristorazione norvegese contemporanea. Lo Chef danese trapiantato a Oslo ha fatto quello che pochi avrebbero osato — e che nessuno, prima di lui, aveva nemmeno pensato di fare: liberare l’alta cucina norvegese dal peso della tradizione francese e ribaltarla, mettendo al centro il paesaggio naturale del Paese, aspro e bellissimo, insieme alla sua storia dura e a ingredienti locali spesso trascurati, privi di un vero mercato gastronomico.
Ingredienti che diventano elementi decisivi nell’equilibrio gustativo di piatti in cui dominano i grassi animali: bacche e frutti rossi, freschi o conservati, al naturale o sotto spirito, ma anche ortaggi fermentati, radici e erbe spontanee. Il lavoro di Holmboe Bang non ha soltanto proposto una nuova grammatica gastronomica — ancora in pieno sviluppo — ma ha innescato un processo di sensibilizzazione verso la qualità e l’unicità della materia prima locale. Emblematica, in questo senso, l’ostrica purissima dell’isolotto di Bømlo, piatto-firma dello Chef, capace di regalare un acme gustativo quasi catartico.
Maaemo — che in finlandese antico significa “madre terra” — è diventato anche un vivaio di talenti: molti cuochi formatisi qui animano oggi la scena gastronomica norvegese, contribuendo alla nascita di una ristorazione diffusa, ambiziosa e, inevitabilmente, profondamente legata al territorio.
Lusso essenziale, nel piatto e nell’ambiente.
Sensazioni di natura si colgono in tutti i piatti. Non solo attraverso l’evidente lavoro sulle materie prime (il food cost è anche molto elevato), ma nelle sensazioni che ogni assaggio restituisce: il gelo tagliente delle acque nordiche, l’umidità verde delle foreste, la voluttuosità delle carni — dall’agnello al rombo — e l’acidità netta e vibrante delle bacche selvatiche. Tra i ricordi più nitidi, oltre alla predetta, magnifica, Ostrica Tradizione 2010 — nata con il ristorante e da allora mai uscita dal menù — spiccano i Piselli “lacrima” con cannolicchi, mandorle, rafano e mela, divorati in poche cucchiaiate per la loro freschezza e l’equilibrio ipnotico e collaudato delle note erbacee, acide e salmastre. Poi un secondo servizio dell’Agnello, con un ragù di frattaglie e tagli minori, trasformato in una zuppa asciutta con asparagi bianchi e cipolle: rustico all’inizio ed elegante sul finale, e, infine, la piccola pasticceria, un terreno minato per precisione di temperature e consistenze, superato con grazia: davvero indimenticabili le Madeleine ai fiori di sambucoIl sambuco è un genere di piante tradizionalmente ascritto alla famiglia delle Caprifoliacee, che la moderna classificazione filogenetica colloca nella famiglia Adoxaceae. I fiori del sambuco trovano impiego in erboristeria per la loro azione diaforetica. Con i fiori è possibile fare uno sciroppo, da diluire poi con acqua, ottenendo una bevanda dissetante che è molto usata in Tirolo, in Carnia... Leggi, servite appena sfornate, tuffate in zucchero alla verbena e limone. Di un’etereità vertiginosa.
Poi c’è la sala. In un ambiente dove si respira un lusso raccolto e intimo di un’atmosfera elegante e tranquilla, fatta di penombre e dettagli che ti fanno godere il momento, tutto converge sull’ospite. Si viene coccolati da un servizio di silenzioso e preciso. Non c’è riverenza forzata, eppure ogni gesto arriva al momento giusto. Un’ospitalità senza inchini, naturale e umana, che ti accompagna con discrezione tra sorrisi e cortesia.
La carta dei vini è vastissima, profonda, costruita con rigore enciclopedico. Un atlante che va dalle grandi etichette francesi ai terroir meno battuti, con un unico filo conduttore: bere bene, senza compromessi. Come nel caso dell’Holy Grail, ossia il pairing dei pairing. Vini unici, bottiglie che di solito non escono da caveau privati, stappate al prezzo di un viaggio (oltre duemila euro). E accanto a questo lusso monolitico, si ritrova un sorprendente pairing analcolico (verso cui è ricaduta la nostra scelta) che contempla una sequenza di fermentati, succhi, infusi, tutti realizzati in cucina che, chiariamolo, non sono affatto un ripiego, ma un percorso parallelo, capace di dialogare con i piatti e di reggere il confronto con il cibo, tanto quanto.
Quella di Maaemo è un’esperienza che ti costringe a chiederti se, oggi, il lusso abbia ancora un senso nella ristorazione. La risposta, almeno qui, è sì. Basta solo convincersi che questo “lusso” non sia ostentazione, ma ossessione lucida e feroce per il bello, il raro, l’irripetibile.
IL PIATTO MIGLIORE: Oyster tradition 2010.
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