Agitato, non pestato
A me nei long drink piace il sale. Per questo, per lungo tempo, non ho bevuto Mojito.
Poi, complice un barman molto competente, e pure (com)piacente, ricordo d’averlo apprezzato, al mare, in una notte d’estate.
Come molti cocktail nacque per mare, via mare, come tonico e per affrancare i marinai dallo scorbuto, complice l’apporto di acido ascorbico dell’agrume caraibico per antonomasia: il lime. Lo zucchero e il ruhm vennero di conseguenza, e per concordanza, anche tra loro.
Il nome, invece, pare arrivi dalla parola “mojadito”, che significa “umido”, “bagnato”.
Decisamente fresco, grazie alla menta che ne rinverdisce anche il colore, altrimenti bianco albume leggermente brunito per via dello zucchero di canna (meglio quello integrale per me, perché meno dolce), il Mojito sconta anche un fraintendimento che, nel tempo, me l’ha reso ancora più inviso: ovvero la presunta pestatura degli ingredienti sul fondo del tumbler, come a creare un pesto fermentato, confuso, limaccioso.
Ebbene, no. Il vero Mojito è pure assai comodo da realizzare giacché sin dai tempi de La Bodeguita del Medio, dove pare fu realizzato per la prima volta con la ricetta odierna (qui la versione IBA, che lo iscrive tra i Contemporary Classic), viene assemblato senza alcun pestello ma direttamente all’interno del bicchiere di servizio e rifinito solo con un mazzetto di menta (meglio se marocchina) appena recisa.
Cosa abbinare al Mojito? Un sigaro; cubano ovviamente!
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