Una sinergia riuscita e ben equilibrata può rappresentare quella risorsa capace di fornire il necessario e decisivo slancio per l’affermazione di un’impresa.
Non sfugge al campo di applicazione di questo principio la ristorazione, dove diverse volte è capitato di vedere all’opera chef molto bravi, ma non esattamente a loro agio col compito di sovrintendere agli onerosi compiti dell’amministrazione e, viceversa, padroni di casa abili nel governare, ma non esattamente accorti nello scovare cuochi all’altezza della situazione.
Altra cosa importante poi, e valida anche per ristoranti avviati come Chinappi, è la capacità di comprendere per tempo quando è giunto il momento di fare il punto della situazione, e decidere come proseguire, se continuare cioè nel solco di un’offerta rassicurante, in questo caso basata sulla riproposizione di materia prima di altissima qualità in arrivo più volte la settimana dal mercato del pesce di Formia, casa madre da circa sessant’anni della famiglia Chinappi, o adoperarsi per rendere la proposta gastronomica più moderna e stimolante, in una parola più completa.
Stefano Chinappi, giunto al fatale bivio, a dieci anni dall’apertura della succursale romana del locale di famiglia, ha chiaramente preferito la soluzione più audace, cooptando, dal maggio di quest’anno, uno chef giovane e di razza come Federico Delmonte già passato come una (troppo?) breve meteora da Settembrini.
Passaggio che comunque ci aveva già ampiamente fatto intravedere rilevanti potenzialità quanto a personalità, chiarezza di idee e volontà di realizzare una cucina elegante e leggera, senz’altro in levare e non in aggiungere.
La matrice di questa sua nuova esperienza resta fortemente tradizionale, il che non potrebbe essere diversamente vista la pluridecennale storia di ristorazione alle spalle del patron, ma al tempo stesso già contaminata dall’indiscutibile e ricorrente presenza di quel tocco d’autore tale da permetterci di esprimere, a poche settimane dall’insediamento dello chef, una valutazione che rispecchia l’attuale situazione sottendendone i possibili sviluppi.
Il menù asseconda in tutto e per tutto la qualità del pescato, sottolineando di esso le caratteristiche con cotture da manuale e riusciti e solo apparentemente semplici accostamenti; ancor di più è nella loro quantità limitata -e assolutamente funzionale al completamento del piatto- che si vede la mano di uno chef che non ama certo sommare ingredienti.
Ne rappresentano un valido esempio il distillato di bitter, che felicemente accompagna la seppia e le proprie interiora o la genziana che, presente in un intingolo davvero squisito, avvolge la triglia con le sue note amarognole in modo assolutamente originale.
Non mancano piatti solo a prima vista più naif, come fusilli alle cozze o passatelli al sugo di triglia eseguiti in modo impeccabile, vedi in primis la cottura della pasta davvero al dente, anzi al chiodo come espressamente indicato nel menù, serviti rigorosamente prima dei dolci probabilmente per glucidica prossimità.
Con piacere poi notiamo e apprezziamo l’abbandono di quegli azzardi stilistici come le escursioni termiche dovute all’utilizzo di gelati a inizio pasto, in passato tanto care allo chef.
Detto che la carta dei vini trova nell’assortimento degli Champagne, autentica passione del patron, un valido motivo di interesse, non possiamo che compiacerci della presenza a Roma di un locale che si è prefissato di coniugare sostanza e stile.
Capasanta, cocco, cipolla e lime.
Scampi, anice e fiori di finocchio selvatico.
Gambero rosso, rosa, cassis e more.
Seppia sporca, bitter, spinaci all’aceto di dragoncello.
Murici, tartufo nero estivo, liquirizia e pane croccante.
Polpo alla formiana con olio al prezzemolo, patate, limone, pomodorini e polvere di capperi.
Triglia al vapore, genziana e caviale.
Fragaglia fritta, cipollotto fresco e aceto di mele.
Fusilli alle cozze.
Passatelli al sugo di triglia.
Schiaffoni al nero di seppia con calamaretti, pangrattato e menta.
Colori: gelato di mandorla, cardamomo, sedano e carota.
Cioccolato. E’ presente in tre consistenze e aromatizzato con betulla, pino mugo e pino silvestre con miele di pino: leggero e gustoso grazie alla concentrazione di cacao e allo scarso impiego di zucchero.
Cremino all’olio extravergine e sale.
Un signor Pinot noir.
Un grande champagne dalla Cote des blancs.
Dalla Vallée de l’Ardre un bel pinot Meunier in purezza.
Mise en place.
L’orizzonte gastronomico della Roma metropolitana sembra proprio aver scelto Fiumicino, nota ai più solo per l’hub internazionale che vi risiede, come culla d’elezione per indirizzi di interesse che qui si stanno concentrando in quantità sempre più importante.
Uno di questi ha aperto i battenti nell’ottobre dello scorso anno in quel di Maccarese, frazione nell’entroterra della piccola cittadina alle porte della capitale.
Qui, nel piccolo e silenzioso borgo situato alle spalle del castello di San Giorgio, due ragazzi autoctoni, Antonio Viola e Valerio Volpi, hanno rilevato un’insegna storica del luogo per coronare il loro sogno di realizzare sul suolo natio un’autonoma officina dove elaborare quanto appreso nel corso delle proprie esperienze lavorative.
Minimo comun denominatore per entrambi è stato Giulio Terrinoni (soprattutto per Andrea Viola, considerato il suo tempo trascorso all’Acquolina) che, quanto a consumata conoscenza del mestiere, applicazione e costanza nell’esercitarlo, ha senz’altro rappresentato per entrambi un valido punto di riferimento.
In una tranquilla saletta, piena di vecchie e fascinose foto della Maccarese d’antan, i due sodali mettono in essere una cucina semplice e gustosa, davvero ben eseguita, con materie prime che, grazie a un sapiente uso di frutta e ortaggi, rigorosamente a kilometro zero, vengono valorizzate in modo convincente.
Ne rappresenta un riuscito esempio il carpaccio di gambero con insalata di frutta e verdura che vede coniugate molto felicemente le caratteristiche del crostaceo con diverse e variegate note vegetali-fruttate.
Oltre a una indiscutibile conoscenza della tecnica si intravede anche una certa attenzione alla forma che, se in un piatto come il “bagnasciuga” riesce a raggiungere una certa compiutezza nell’esecuzione, nel totano con salsa e cipollotto in agrodolce appare decisamente più naif, con le decorative sfoglie di riso e al nero di seppia che, contenitori del cefalopode, vagheggiano la possibilità di essere altrettanto rilevanti del contenuto.
Niente, comunque, capace di sminuire la solidità di una tavola che, seppur di recente apertura (principale motivo per cui propendiamo per una valutazione approssimata per difetto) già appare tranquillamente come uno di quegli indirizzi meritevoli del tam tam enogastronomico e di un’eventuale deviazione, trovandosi nella capitale.
Il tutto completato da un servizio garbato ed efficiente e con l’opportunità di attingere da una carta dei vini, solo apparentemente sparuta, dove può capitare di pescare chicche di valore assoluto, come il Greco di Tufo di Ester Centrella, capaci di reggere degnamente tutto il pasto e non esattamente semplici da reperire altrove.
Sala e mise en place.
Amuse bouche: gelato di pane, salsa alle alici e lamponi.
Bagnasciuga: pane abbruscato al nero di seppia con cannolicchio, cozza, vongola e tellina, crumble di pomodori, aria di prezzemolo, acqua di cottura delle telline con alghe e olio affumicato. Molto buono e coreografico.
Pane con farina integrale con cereali, farina di farro e focaccia.
Carpaccio di gambero gobbetto con insalata di frutta e verdura, gelato alla ciliegia, gel di champagne e uova di gobbetti con olio al lampone. Fresca e originale presentazione di un battuto che vibra piacevolmente con le diverse note vegetali-fruttate.
Sfoglia di riso, totano, salsa, sfoglia al nero, cipollotto agrodolce.
Anatra laccata alla birra, purè affumicato, foie al marsala e spinaci.
Squisito.
Risotto ai pomodori. Cotto nel succo di pomodoro rosso e verde con pomodoro giallo cotto alla brace, pomodoro vesuvio affumicato, del piennolo confit, datterino cotto al forno, il tutto in cialda di pomodoro con granella di cipolla.
Rivisitazione di un piatto basic della cultura gastronomica nazionale.
Spuma di parmigiano 36 mesi in accompagnamento.
Linguine di farro con seppioline al nero, foie, pomodoro infornato e olio al basilico.
Tagliolini al caffè, cacio, pepe e fegatini di pollo alla cacciatora.
Baccalà black & white: cotto a bassa temperatura col nero di seppia, emulsione di baccalà, salsa di rucola, caramello di cipolla, gelatina di limone, gelato alle erbe su letto di pan brioche.
Variazione d’agnello: petto arrosto in demi-glace, costoletta alle erbe, spuma di topinambur, hamburger, salsa di fragola e rucola.
Predessert: spugna di pistacchio, letto di lamponi, gelatina di lime e bergamotto.
Macedonia e gelatina di piselli su letto di sorbetto al limone.
Ottima la macedonia, ottima la gelatina ma fuori luogo sia per acidità che per la spropositata escursione termica il sorbetto al limone.
Gelato di zenzero, carota e curcuma e finocchio, biscotto di arachidi e cioccolato, frutta e verdura miste.
Una giusta chiusura per un pasto estivo.
Petit fours.
Cioccolato fondente con fragola e prosecco, cioccolato bianco e pesca.
Un grande vino, pescato da una piccola ed ultra selezionata carta.
La vecchia Maccarese.
Il castello di Maccarese.
In una città caratterizzata da frenetiche aperture di nuove insegne, spostamenti, cambi di gestione i cui risultati lasciano spesso perplessi, probabilmente perchè frutto di approssimativi e velleitari esperimenti imprenditoriali, il nuovo ristorante di Giulio Terrinoni sembra proprio qualcosa di diverso dall’ennesimo grazioso contenitore privo di un significativo contenuto.
Già artefice del successo del Ristorante Acquolina, titolare di ambiti riconoscimenti pur relegato in un quartiere periferico e dal poco seducente accesso, lo chef a quarant’anni ha deciso di mettersi in gioco in modo completo con un locale tutto suo nel pieno centro di Roma.
La summa di tutte le esperienze acquisite nel tempo, distillatesi in idee chiare, ha prodotto una proposta semplice, snella e molto ragionevole che non prescinde da almeno due qualità chiave: estrema solidità sul piano prettamente gastronomico e grande elasticità, leggasi flessibilità, nella fruizione della stessa.
Il tutto non disgiunto da una location strategicamente scelta, al centro di un piccolo district enogastronomico di rilevante interesse e da una struttura del locale piuttosto bistrottiera, propedeutica a un approccio easy, capace di essere al tempo stesso ristorante elegante di sera e ritrovo dove consumare qualche piatto veloce di giorno, magari seduti al bancone che dà direttamente sulla cucina.
Nell’offerta diurna trova, inoltre, applicazione un’idea apparentemente scontata, ma che proprio tale non è, e cioè l’opportunità di gustare a prezzi e porzioni ridimensionati alcuni piatti della cucina di Terrinoni vezzosamente e, vivaddio, italicamente definiti tappi.
L’offerta serale è più classica con piatti alla carta e possibilità di menù degustazione, seguiti da un servizio solerte ed efficiente in cui spicca il bravo sommelier Giulio Bruni che offre la possibilità, a chiunque lo desideri, di accompagnare il pasto al bicchiere con suggerimenti appassionati e mai scontati.
La cucina, come detto, è solida, non avventurosa e dedicata per lo più all’esaltazione del mare, elemento da sempre nelle corde dello chef.
Ed ecco allora, tra le felici intuizioni, una delicata versione ittica dei tortellini panna e prosciutto, il maccarello bruciato e sapientemente marinato con nuance piacevolmente orientaleggianti, o il piccione variamente declinato a testimoniare che qui anche i pochi e selezionati piatti di carne hanno un loro perché.
Da segnalare, ai dolci, l’ottimo Orient-Express, la cui originale golosità è affidata a note amare, acide e grasse felicemente equilibrate.
Certo, non si può fare a meno di notare che la compiutezza dello stile è affidata a rassicuranti rotondità piuttosto che a più vivaci contrasti o alle famigerate ma sempre interessanti acidità, proprie però di un azzardo onestamente difficile da gestire in una startup; la sensazione è che lo chef possa andare oltre quanto finora messo a punto e che le potenzialità per diventare un duraturo fiore all’occhiello della ristorazione cittadina ci siano tutte.
Amuse bouche: arancino cozze e pecorino, cannolo di ricotta, alici e mandorle, ritz al parmigiano con crema di carote.
Pani.
Assaggio di tortellini panna e prosciutto, revival degli anni ottanta. Ripieno di merluzzo, spuma di finocchio e prosciutto di cefalo.
Sorbetto di cipolla rossa ostrica e pane al gorgonzola.
Gambero rosso imperiale con insalata russa destrutturata a base di maionese di mare, gel di aceto, maionese di rapa rossa, patate, carote, sedano.
Maccarello bruciato, marinato in aceto e soia e appena fiammeggiato, cavolo rosso, burrata, salsa di prezzemolo.
Calamaro, sarago, scorfano, gambero bianco, salsa all’arancia e maionese di mare.
Palamita a scottadito, chiodini, mosto cotto, salsa di basilico.
Spiedino di polpo arrostito, salsa di fagioli cannellini, ricci di mare, sedano, aria di mare.
Raviolo di radici, rafano grattugiato, crudo di scampi (invero un po’ mortificato), mandorle, salsa all’aglio dolce, polvere di cipolla bruciata.
Cappellacci ripieni di faraona con burro al Cesanese, chiodini, caciocavallo podolico.
Il piccione: petto, coscia ripiena di foie, crostino con tartare di filetto, purè di patate, cicoria, salsa al marsala.
Lombo di coniglio porchettato con fegatini ed erbe spontanee, carciofo alla romana, salsa ai frutti rossi.
Sfera di lamponi e lime.
Delizia al limone: gel, crema, mousse, biscotto alla vaniglia, gelato limone e basilico, terra di cioccolato bianco.
Orient express: sablè agli anacardi, ganache al pan di spezie, confettura di kumquat, tuile di cioccolato, gelato al caffè, terra di cioccolato fondente.
Petit four: tartufo al cioccolato fondente e tè Olong, bignè con crema al cioccolato, macaron con confettura di arancia.
A tutto pasto.
Americano a Bracciano per chiudere degnamente.
Ecco anche qualche tappo servito a pranzo: Crostatina ripiena di baccalà mantecato e cipolla gratinata con cicoria bruciata e caramello di cipolle.
Rana pescatrice, polenta burro e salvia, carciofo.
Versione prandiale dei cappellacci ripieni di faraona, burro al cesanese e caciocavallo podolico.
Ganache alla nocciola, cremoso al cioccolato, spugna al cioccolato bianco.
Mise en place.
Dehors.
Cristina Bowerman e Fabio Spada formano un binomio protagonista della ristorazione di qualità romana da diversi anni.
Partendo, appunto, da Glass, le loro capacità e la loro verve hanno donato alla città Romeo, uno degli spazi contemporanei che meglio hanno coniugato qualità dell’offerta e architettura contemporanea, e la recente avventura nello street food di Cups, al mercato Testaccio.
E’ comunque Glass l’ammiraglia, il ristorante gastronomico che dall’apertura oltre dieci anni fa ha sfidato le convenzioni trasteverine come un’installazione postmoderna, ancor oggi attualissima nel design, come succede solo quando si progetta con buon gusto e intelligenza.
Si entra da Glass e si viene accolti da una location in cui vetro, legno e pietra si fondono per dare una sensazione calda e pulita insieme e predispongono, con il sorriso del personale, a provare le novità della cucina di questa chef di grande personalità.
Spiace dire che la nostra cena di quest’anno, però, ha registrato diversi momenti meno esaltanti, intervallati da passaggi più riusciti, quasi sempre, questi ultimi, nei piatti meno complessi, nei quali la tecnica si esprime con pienezza.
Infatti, intendiamoci, le preparazioni sono indiscutibili sul versante delle cotture, delle temperature, della tecnica, insomma, segno di una padronanza e maturità ormai conclamate, ma in più di un caso abbiamo registrato una costruzione fin troppo stratificata. Molti ingredienti, figli di cucine diverse e amate dalla chef, dal Medio all’Estremo Oriente, uniti ad altri più vicini alla nostra tradizione, ma che non sempre si armonizzano, con il rischio talvolta di non esaltare le componenti principali del piatto.
Se ci ha pienamente convinto il piccione con frutti di bosco, gastrique e polvere di burro di arachidi, meno convincente è stato lo scampo con cavolfiore in tre versioni e brodo di crostacei, nel complesso un po’ pasticciato e con lo scampo decisamente in secondo piano.
Così come ai secondi, piuttosto riusciti, soprattutto l’agnello al sumac, hanno fatto da contraltare due primi decisamente meno soddisfacenti: risotto, troppo liquido, unico passaggio rivedibile anche nell’esecuzione, e linguine cotte in acqua di peperone, in cui il coulis dello stesso domina perfino sulla bottarga.
Nel reparto dessert, interessante il frangipane con ciliegie e maionese di cioccolato bianco e wasabi, anche se il frangipane potrebbe essere di consistenza più leggera; decisamente meno felice il cioccolato bianco, thé matcha, caffè e kiwi, un assemblaggio di gusti e consistenze piuttosto mal riuscito, che non rende giustizia al livello complessivo della cucina.
Carta dei vini che si è allargata e arricchita negli anni e offre un bel panorama italico, giustamente prezzato. Nelle capatine oltralpe, una bella proposta di Borgogna, solo rossa, e Germania. Nostra culpa l’aver scelto dalla bella selezione un kabinett di Willy Schaeffer che, pur elegante come sempre nei vini di questo storico produttore, presenta un residuo zuccherino davvero troppo elevato per accompagnare il pasto.
La colorata apertura.
Avocado, miso e yuzu: interessante amuse bouche, in cui avremmo gradito una presenza ancora più incisiva dell’agrume.
Diverse tipologie di pane, non tutte imperdibili.
Piccione, frutti di bosco, gastrique e polvere di burro d’arachidi: il miglior piatto della serata.
Scampo un po’ sacrificato in compagnia del cavolfiore. Molto intenso ma elegante il brodo di crostacei in accompagnamento.
Un ottimo vino, poco adatto però ad accompagnare il menù. Nostra culpa.
Linguine cotte in acqua di peperone, alici del Cantabrico, bottarga all’Armagnac, coriandolo fresco e limone candito.
Risotto Acquerello porri fondenti, ostrica polvere di capperi e crème fraîche.
Agnello al sumac, carote stilton e polline di finocchietto.
Carbonaro, salsa al bonito e scorzonera.
Frangipane, ciliege, maionese di cioccolato bianco e wasabi.
Cioccolato bianco, the verde matcha, caffè e kiwi.
E’ sempre un grande piacere salire la scala, celata dietro la mitica porta rossa, che porta ai tavoli di questo bellissimo ristorante romano.
L’abilità che ha permesso ad Antonello Colonna di diventare un classico, grazie alla costanza che da sempre caratterizza il suo desco, unita al grande merito di aver sdoganato la cucina territoriale laziale rivisitandola e puntando su leggerezza ed eleganza formale, rendono questa splendida terrazza, interamente circondata dal vetro nel cuore del palazzo delle esposizioni, un appuntamento imperdibile per chiunque voglia regalarsi a Roma una serata all’insegna dell’estetica gastronomica.
Il comfort potrà essere suggellato in modo rilevante dalla istrionica presenza del vulcanico patron che al tavolo saprà, di volta in volta, consigliarvi per il meglio o affabularvi piacevolmente con progetti e didattici aneddoti, oltre che da un servizio solerte ed impeccabile coordinato con efficacia e understatement da Andrea Colonna, figlio dello chef.
Ormai ci troviamo davanti a un classico, capace di traghettare per primo nell’alta cucina ricette e ingredienti già pietre miliari di un territorio e di una storia fortemente sentiti.
Esempio di cui molti epigoni, con maggiore o minore successo, si sono avvalsi a partire dalle intuizioni che lui ha avuto venti e più anni fa.
Da lungo tempo lo chef divide la sua attività tra vari impegni, riuscendo comunque a mantenere un livello qualitativo elevato che non dissimula però, col trascorrere del tempo, un certo impasse nell’offerta, quasi un rallentamento che mal si addice alla sua ingegnosa vitalità.
Consolidare il proprio stile, frutto di anni di laborioso impegno, è pregio degno di grande considerazione; arricchirlo adeguatamente di nuovi stimoli sarebbe merito ancor maggiore e oggetto, eventualmente, di doverosa ammirazione.
La sensazione è che ci sia fermati a metà del guado, e che tutto ciò che potenzialmente era in divenire sia ora cristallizzato in una pausa, che ne rappresenta la condizione attuale.
Squisita la carbonara 2.0, ma francamente eccessiva è apparsa la salsa a specchio di pecorino che completa la corrispondente matriciana 2.0, riguardo alla quale, pur non essendo dei puristi, è impossibile non notare che il cacio ne dovrebbe rappresentare il corredo, e non l’elemento principale.
Allo stesso modo, alle squisite animelle con accattivante nuance al vermouth, che ne stempera l’importante grassezza, fa da contraltare il monocorde risotto, peraltro ben cotto, in cui la bottarga non crea l’auspicato contrasto o, ancora, alla tatin eseguita a regola d’arte fa seguito il fiordilatte al mascarpone, buono ma un po’ stucchevole, causa laccatura al limone che non incide come avrebbe dovuto e potuto.
Sono annotazioni queste che, comunque, non sminuiscono il valore generale di un indirizzo che a Roma rappresenta una vera e propria istituzione, affermatasi nel corso degli anni e depositaria di una meritatissima fama.
Amuse-bouche.
Vellutata di lenticchie e guancia di rana pescatrice.
Pane.
Hamburger di gamberi, bisque di crostacei e uovo marinato.
Animelle rosolate, salsa al vermouth e nocciole.
Negativo 2.0 di carbonara.
Risotto con brandade di baccalà, salsa pil pil e bottarga di tonno.
Negativo 2.0 di matriciana.
Tournedos di agnello.
Filetto di maiale, fegatelli e zucca in agrodolce.
Maialino croccante, patata affumicata e mostarda.
Predessert: cioccolato bianco, pasta sablèe e basilico.
Immancabile diplomatico crema e cioccolato con caramello al sale.
Soufflèe con gelato alla vaniglia e cioccolato.
Fiordilatte al mascarpone laccato al limone con coulis al lampone.
Tatin di mele con gelato alla cannella.
Lampone e cioccolato….
Petit fours.
Un gran Champagne.
La sottostante terrazza per i brunch.
La -davvero mitica- porta rossa.